Joyeux anniversaire Monsieur Daguerre

Stamattina avvio il computer e Google è così gentile da ricordarmi con questa immagine
che oggi ricorre il 224 anniversario della nascita di Louis-Jacques-Mandé Daguerre.
Lo festeggerò insieme a voi in un modo che spero originale, con una piccola anticipazione di un progetto che è in procinto di arrivare a conclusione. Non è la prima volta che accenno a questo (mica tanto) misterioso progetto, e credo proprio che sarà l'ultima.  La prossima volta che ne parlerò, probabilmente, sarà per darne l'annuncio ufficiale.
Per ora non posso che augurarvi buona lettura. (ah, le immagini le ho aggiunte per l'occasione)


...ora, invece, dobbiamo concentrare l’attenzione su un altro strumento di comunicazione che nasce negli anni Trenta dell’Ottocento e si nutre della stessa ambiguità di cui si parlava all’inizio, quella tensione fra la descrizione del reale e la rappresentazione del desiderio che accomuna tutte le immagini, rivelandosi «da subito specchio inconsapevole e inquietante di una nuova sensibilità»[1]: la fotografia.
Benché generalmente l’invenzione della fotografia venga attribuita a Louis-Jacques-Mandé Daguerre, è difficile dire chi ne sia stato l’“inventore”, un po’ perché essa risponde ad un sogno a lungo coltivato dagli uomini, quello di poter riprodurre fedelmente la realtà; un po’ perché gli elementi tecnici e la tecnologia che ne hanno permesso la nascita erano già disponibili e occorreva solo trovare il modo di metterli in relazione fra loro (e infatti in pochi anni si assisterà a molti differenti tentativi di riprodurre la realtà attraverso la luce). In realtà ciò che accade per l’invenzione della fotografia lo vedremo ripetersi con una certa frequenza nella storia dei mass media, soprattutto se si presta attenzione ai suoi aspetti tecnici: infatti spesso risulta difficile stabilire con precisione la paternità di invenzioni che vengono realizzate in un breve arco di tempo ma in luoghi diversi e con il contributo di soggetti differenti. Da un lato, c’è un fenomeno di circolazione delle informazioni scientifiche e di reciproca influenza degli inventori; dall’altro c’è anche, probabilmente, la condivisione di una domanda sociale o di un desiderio diffuso e ancora non soddisfatto: due elementi, in ogni caso, che possono essere considerati un segnale della crescente unificazione dei mercati occidentali[2].
Del resto, questo processo presenta delle vistose eccezioni: alcuni inventori infatti riescono a sperimentare con successo una nuova tecnologia proprio perché sono lontani dai tradizionali circuiti scientifici e tecnici e quindi, non essendone influenzati, utilizzano metodi poco convenzionali. È quanto succede, ad esempio, ad Antoine Hércules Romuald Florence che lavora in una zona remota nella provincia di San Paolo in Brasile e che riesce ad ottenere delle immagini già nel 1832-33: egli chiamerà il suo procedimento per scrivere con la luce, appunto, photograhie (dalle parole greche photos, luce, e graphis, scrittura)[3]. Peraltro anche Joseph Nicéphore Niépce riesce, prima dell’invenzione “ufficiale” della fotografia, ad inventare una forma di “scrittura con la luce” che la ricorda molto e che chiama eliografia: la sua “vista dalla finestra di Gras” del 1827 è una delle prime “fotografie” che si conoscano.
Niépce, del resto, collaborerà con Daguerre a partire dal 1829 il quale, alla sua morte, ne erediterà le ricerche: sarà proprio il dagherrotipo, il procedimento inventato da Daguerre sulla base delle intuizioni di Niépce, ad essere annunciato il 7 gennaio 1839 all’Accademia delle scienze di Francia per poi venire divulgato ufficialmente il 19 agosto dello stesso anno fissando così l’invenzione della fotografia[4]. Negli anni successivi ci saranno molti altri piccoli aggiustamenti al procedimento di Daguerre, da quello misconosciuto di Hippolyte Bayard[5] a quello di William Henry Talbot: costui, in particolare, è stato considerato da alcuni come il vero padre della fotografia moderna perché aveva messo a punto il procedimento negativo-positivo e quindi aveva trovato il modo di duplicare meccanicamente l’immagine fotografica al posto dell’unico esemplare costituito dal dagherrotipo[6].
Più che sull’evoluzione delle tecnologie, tuttavia, qui interessa soprattutto soffermarsi sulla nascita negli anni Quaranta dell’800 di una daguerréotypomanie, per chiamarla col titolo di una litografia di Theodore Maurisset del 1840: una vera e propria mania fotografica per cui
«si potevano intravedere alle finestre, ai primi bagliori del giorno, un grande numero di sperimentatori che si sforzavano, con una sorta di timorosa precauzione, di trasferire su una lastra preparata l’immagine dell’abbaino lì vicino o la prospettiva di una moltitudine di comignoli (…). Di lì a qualche giorno, sulle piazze di Parigi, si videro dagherrotipi puntati verso i principali monumenti»[7].
"Daguerréotypomanie", litografia di Theodore Maurisset (1840)
Il dagherrotipo si diffondeva rapidamente: nel 1849, dieci anni dopo la sua nascita, a Parigi venivano prodotti diecimila dagherrotipi; pochi anni dopo, nel 1853, a New York c’erano «ottantasei studi fotografici specializzati in ritratti, trentasette dei quali sulla sola Broadway» e in tutti gli Stati Uniti erano stati realizzati circa tre milioni di ritratti. A partire dal 1854, poi, la moda del ritratto era sembrata dilagare in modo inarrestabile: in quell’anno infatti veniva inventata la “carta da visita”, un ritratto fotografico di piccolo formato (6x9 cm) di cui al cliente venivano fornite dodici copie per una modica cifra.
Sembrerebbe, insomma, che sin dall’inizio la fotografia sia uno strumento di “massa”: se tuttavia si analizzano le forme del ritratto, che in quegli anni era probabilmente il tipo di fotografia più diffuso, ci si accorge che il suo uso sociale era ancora elitario, e non solo per i costi. Innanzitutto il dagherrotipo - che «era, da un certo punto di vista, il mezzo perfetto per i ritratti» grazie alla qualità dei dettagli che era in grado di riprodurre – era un’immagine unica, non riproducibile, come il più tradizionale ritratto ad olio. In secondo luogo, esso «era un’immagine speculare: non come vediamo noi stessi, ma come ci vedono gli altri, e dunque presentava l’immagine pubblica di una persona privata»: la lunga durata dell’esposizione e, dunque la necessità di mantenere a lungo una posizione, talvolta grazie all’uso di appositi supporti, rendevano ancora più evidente questo aspetto. Infine, «la superficie argentata [del dagherrotipo] era delicatissima e doveva essere protetta, cosicché i dagherrotipi stimolarono la produzione di una vasta gamma di custodie (…) simbolo di apprezzamento per un’immagine irripetibile e (…) del suo mistero»[8]. Del resto, almeno durante la prima metà dell’Ottocento, la fotografia adottava modelli e forme rappresentative dell’arte tradizionale e accademica, rivolgendosi soprattutto ad un pubblico elitario: quando Talbot pubblicò tra il 1844 e il 1846 The Pencil of Nature, il primo libro a stampa che riproduceva delle fotografie[9], scriverà che l’apparecchio fotografico «farà un quadro di tutto ciò che vede»; e commentando l’immagine intitolata La porta aperta aggiungerà che «l’occhio di un pittore si lascia catturare quando le persone comuni non vedono niente di notevole»[10].
 
Sarà solo nella seconda metà del secolo, quando l’evoluzione tecnologica renderà i procedimenti fotografici più economici e permetterà una maggiore diffusione delle fotografie, che inizieranno a nascere dei modelli originali di rappresentazione della realtà che si distanzieranno progressivamente da quelli dell’arte tradizionale, arrivando infine ad influenzarla a loro volta[11].



[1] G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, La Nuova Italia, Milano 2001 p. 84
[2] Sul cambiamento del ruolo degli scienziati nell’800 cfr. le osservazioni di P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit. p. 94
[3] M. W. Marien, Photography: a cultural history, Harry N. Abrams Inc. Publisher, New York, 2002, pp. 7-8. In questo caso il termine “scrittura” è da intendersi in senso letterale perché la maggior parte degli esperimenti di Florence erano rivolti all’invenzione di un sistema per duplicare testi o immagini in assenza di strumenti per la stampa e senza l’uso di una fotocamera
[4] Daguerre e il figlio di Nièpce riceveranno un vitalizio in cambio dell’acquisto del brevetto da parte dello stato francese, che poi lo avrebbe divulgato gratuitamente: lo stato si fece «promotore di questa nuova invenzione» con modalità inusuali. Infatti, come scrive Flichy, «non si tratta di farne un monopolio di Stato ma di “consentire alla società il possesso della scoperta di cui chiede di usufruire nell’interesse generale”»: cfr. P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit., p. 102
[5] Bayard riesce già alla fine degli anni Trenta a mettere a punto un procedimento per fissare le immagini su carta in maniera diretta, all’interno della camera oscura: è famoso il suo Autoritratto come un annegato del 1840, uno dei primi fotomontaggi in cui egli si rappresenta come un individuo spinto al suicidio dall’indifferenza del governo e dell’Accademia delle Scienze, che non avevano valutato adeguatamente la sua invenzione
[6] Ancora due inglesi saranno i protagonisti di altre evoluzioni tecniche: nel 1851 Frederick Scott Archer metterà a punto il procedimento al collodio che, nel 1877, fu soppiantato dalle lastre a gelatina secca, a sua volta derivate dalla lastra a gelatina inventata da Richard Leach Madox nel 1871.
[7] L. Figuier, La Photographie, 3° volume des merveilles de la science (1888), ristampa Marseille, La fitte Reprints, 1983, p. 44, citato in P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit.
[8] Tutte le citazioni sono tratte da G. Clarke, La fotografia. Una storia culturale e visuale, Einaudi, Torino 2009, p. 115
[9] O meglio dei calotipi (dal greco calòs, bello) per usare il termine che lo stesso Talbot aveva coniato indicare le immagini ottenute con il procedimento da lui inventato
[10] Le due frasi sono citate in G. Clarke, La fotografia…, cit., rispettivamente p. 39 e p. 40: i corsivi sono miei. Questo aspetto è particolarmente interessante perché alcuni considerano invece Talbot come «il primo artista formato dalla fotografia e il primo artista che si servì della fotografia»: cfr. L. J. Schaff Schaaf, voce Talbot, William Henry Fox, in R. Lenman (a cura di) Dizionario della fotografia, edizione italiana a cura di G. D’Autilia, vol. II, Einaudi, Torino, 2008, p. 1054
[11] Nel suo classico saggio sulla fotografia, Susan Sontag ha ben delineato l’ambiguità di questo processo: «i primi apparecchi fotografici, fabbricati in Francia e Inghilterra poco dopo il 1840, potevano essere adoperati soltanto da inventori e da maniaci. E poiché allora non esistevano fotografi professionisti, non potevano esistere neanche i dilettanti e la fotografia non aveva una funzione sociale ben precisa; era un’attività inutile, vale a dire artistica, anche se con poche pretese di essere considerata arte. Fu solo quando si industrializzò che acquisì una sua autonomia artistica. Se l’industrializzazione permise le applicazioni sociali del lavoro del fotografo, la reazione a queste applicazioni rafforzò la consapevolezza della fotografia come arte». L’ultimo passaggio di questo complesso percorso si ha con la fotografia di massa, la cui reale diffusione deve essere fatta risalite alla seconda metà del XX secolo (il saggio viene pubblicato in edizione originale nel 1978): allora la fotografia perde progressivamente la sua connotazione artistica per diventare «soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere». Cfr. S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società, Einaudi, Torino 1992, pp. 7-8.

That's all, folks! (parte seconda)


Nel giorno in cui viene varato il governo Monti, che come personale politico e stile si mostra lontanissmo dal modello incarnato dall'ex presidente del consiglio, come promesso torno a parlare del libro "Berlusconismo, analisi di un sistema di potere" (Laterza, 2011), dedicando stavolta una maggiore attenzione ad un aspetto secondo me centrale: la trasformazione culturale che questo modello ha portato nella società italiana.
E' uno degli argomenti che attraversano sotto pelle tutti, o quasi tutti, i saggi del libro: ed è anche uno dei "luoghi comuni" con cui si descrive il fenomeno. Dunque, è particolarmente difficile analizzarlo. Anche perché il campo di indagine non potrebbe essere più vasto: dall'assottigliarsi del confine pubblico-privato al ruolo delle televisioni, dalle trasformazioni del linguaggio al ruolo della stampa popolare, dal dilagare di un modello di politica pop ad un ritorno alla centralità del corpo nella scena pubblica.
Anche in questo caso, non siamo di fronte ad un fenomeno che si manifesta all'improvviso, dal nulla: o meglio, sfruttando il "grande nulla" che il terremoto di "Mani pulite" aveva lasciato nella scena politica italiana.
In questo senso, l'approccio di Giovanni Gozzini è particolarmente intrigante.
Nel saggio intitolato "Siamo proprio noi", propone una tesi che affronta di petto la questione:
la baby boom generation, concepita tra la fine della guerra e il 1955, inietta nella società italiana un'overdose di individualismo che tra Sessantotto e anni di piombo si esprime nelle forme tradizionali della politica, per poi allontanarsene e trovare sbocco in altri campi (p. 15)
Uno di questi sarebbe proprio ciò che chiamiamo berlusconismo, un "campo di forza" costruitosi grazie al ruolo centrale che le televisioni commerciali hanno assunto nel nostro paese dagli anni '80 e nel sottile rimodellamento dell'etica privata - prima - e pubblica - poi - che esse hanno indotto nella società.
Nella televisione che si afferma a partire dagli anni '80 si assiste a due processi: da un lato viene a compimento quel lungo processo che porta alla ribalta (televisiva) l'"uomo comune", un percorso che inizia da "Lascia o raddoppia?" e tocca il suo culmine con il "Grande Fratello". Dall'altro si compie la "rivoluzione individualista": il magico occhio della tv - che dagli anni '80 conquista progressivamente tutti gli ambienti della casa - sembra mostrare la possibilità concreta di realizzare una società senza classi,
la nuova terra delle opportunità, il nuovo elisir di immortalità gratuito e a disposizione di tutti.
E' una delle forme che assume il cosiddetto riflusso, che poi - sostiene Gozzini - non è altro che un "flusso" verso  una società diversa. Una società in cui la politica non ha più un ruolo di primo piano:
Anzi, il modo di guardare la televisione come mezzo per il soddisfacimento di bisogni immediati (attraverso la pubblicità e/o l'immedesimazione nel mondo dello spettacolo) plasma il modo di guardare alle istituzioni come strumento da usare per la propria vita: se non servono, meglio starne lontani (p. 28).
E' attraverso questo "basso continuo" che passerebbe una vera e propria "mutazione antropologica" (per dirla con espressione pasoliniana) in cui si affermano modelli nuovi, fra i quali finiranno per primeggiare maleducazione, estetica trash ecc. Insomma, quella egemonia sottoculturale di cui ha parlato Massimo Panarari (volete saperne di più? qui c'è il link alla presentazione del libro, qui una recensione).
Ipotesi interessante, come dicevo. Solo che non mi convince del tutto, anche se funziona perfettamente nella logica di breve respiro di un intervento in un convegno. La cosa che mi lascia un po' perplesso è proprio il ruolo centrale che viene attribuito alla televisione, per quanto essa diventi effettivamente il medium dominante dalla fine degli anni settanta, finendo per invadere progressivamente tutte le stanze della casa e per cacciare in un angolo - reale e metaforico - gli altri strumenti di comunicazione. Solo che la sua evoluzione non è indipendente dallo sviluppo del linguaggio interno del medium, dal rapporto con gli altri media e dalla trasformazione sociale (e politica) complessiva, che nell'analisi di Gozzini sembra diventare semplicemente lo sfondo. Credo che l'autore abbia affrontato lo stesso tema in modo più disteso e analitico in un testo che devo ancora leggere (è questo: lo vedete se fate clik qui): vi saprò dire. Per quanto riguarda il berlusconismo, mi pare che le promesse della sua analisi non siano pienamente soddisfatte.
Più originale e interessante - direi anche più efficace sotto il profilo euristico - mi sembra invece il contributo di Enrica Asquer, una delle curatrici del volume, che analizza la costruzione di un "populismo culturale" negli anni del berlusconismo attraverso lo spoglio della rivista "Chi".
Perché è originale? perché la cultura popolare di massa è fatta anche da questo tipo di stampa, che negli anni più recenti ha iniziato a vivere in rapporto simbiotico con la televisione. E perché il tipo di modelli che essa propone, assorbendoli dalla televisione ma levandoli dall'effimero, dal momentaneo di cui vive la comunicazione televisiva per trasferirli sulla ben più dilatata comunicazione giornalistica, si riflettono poi anche in altri campi di costruzione del gusto e del comportamento collettivo: dalla moda alle pratiche del vivere quotidiano. Non avete mai avuto, assistendo ad una discussione fra condomini, la sensazione di essere in un programma di Maria De Filippi?
Asquer dimostra che negli anni si è scivolati lentamente e inesorabilmente dal popolare al popolaresco, fino ad arrivare al populista (è proprio questo il titolo dell'intervento: Popolare, popolaresco, populista): e questo piano inclinato del gusto e dell'estetica ha finito per essere funzionale ad un progetto politico. Così, esattamente come accade nella categoria politica, nel populismo culturale
si rimuovono apparentemente, ma sapientemente, le mediazioni e le distanze tra chi detta i codici estetici (ed etici) e chi li applica, rivendicando strumentalmente il valore della "gente" e, in essa, una forma di capitale che si identifica con la mera vita.
E tuttavia, esattamente come nel populismo,
la vicinanza col "popolo" (...) è tanto fittizia quanto ostentata come autentica (p. 117).

Forse a qualcuno potrà suonare eccessivo parlare di modello culturale egemonico, eppure è indubitabile che questo si è cercato di fare: l'ex ministro della pubblica istruzione Mariastella Gelmini, per esempio, lo ha detto chiaramente quando ha affermato di voler portare il berlusconismo nei templi della "cultura di sinistra" (se fate clik qui,  andate all'articolo de "Il Giornale" che ce lo racconta). Ne parla Gabriele Turi in un intervento intitolato "I 'think-tank' della destra", dove si analizzano i tentativi "della destra di elaborare una proposta culturale funzionale ai suoi obiettivi politici" (p. 30): è uno sforzo che probabilmente non è stato così efficace come quello esperito attraverso la cultura popolare, ma penso che sarebbe sbagliato leggerli separatamente. Alcune retoriche (penso a quella sul "merito", declinata in forma di puro individualismo, quasi di darwinismo sociale) hanno attraversato entrambi i campi, quello della cultura "alta" e quello della cultura "popolare", andando a formare una nuova stratificazione nella cultura diffusa. Solo il tempo potrà dirci quanto persistente.

That's all, folks!

Nelle ore in cui Berlusconi sembra uscire di scena, rubo il titolo (e la copertina, qui a lato) all'Economist per parlare di un libro che tenta una analisi del berlusconismo.
Attenzione: non di Berlusconi ma del modello politico e culturale che ha segnato gli ultimi anni del paese. E che non è detto non continuerà a segnare anche i prossimi.
Il libro è uscito un po' di tempo fa e si intitola Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere (Laterza 2011) ed è curato da Paul Ginsborg e Enrica Asquer. Si tratta di una raccolta di saggi presentati durante un convegno organizzato a Firenze dal 15 al 17 ottobre del 2010: promotori ne erano la rivista "Passato e Presente" e l'associazione Libertà e Giustizia.
Il libro contiene molte cose interessanti insieme a qualcosa che non funziona molto, come sempre accade nelle raccolte di saggi e interventi.
Quello che è meno riuscito, a mio parere, sono gli interventi di Norma Rangeri e Marco Travaglio: il taglio giornalistico dei loro testi non gli consente quell'approfondimento che invece, negli altri, è perlomeno tentato. Probabilmente sono stati interventi parlati molto efficaci, ma nella scrittura hanno perso molta della loro forza. Anche se Rangeri conia un'espressione che merita di essere ricordata per la sua icasticità ed efficacia: parlando della televisione e della sua forza simbolica osserva che
mentre nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, la tv era in piazza, era l'agorà, (...) oggi il format (...) è (...) la casa chiusa.
Da Samarcanda e Milano, Italia al Grande Fratello: e da una domanda di politica alla sua assenza. Sintesi e metafora perfetta.

La cosa più efficace dell'intero volume mi è sembrata la sua impostazione, il focus del discorso: parlare, cioè, del berlusconismo, e non di colui che gli ha dato il nome. Il sottotitolo, in realtà, potrebbe apparire fuorviante, perché l'espressione "sistema di potere" sembrerebbe rimandare soprattutto all'idea di un modello politico: e invece i curatori lo intendono nella sua accezione più ampia, con una forte sottolineatura anche delle componenti culturali e simboliche che hanno innervato le forme organizzative della politica e l'etica pubblica dell'intero paese. Bellissimo, in questo senso, il saggio di Zagrebelsky sulla neolingua dell'età berlusconiana che mostra con lampante evidenza come la trasformazione del lessico sottintenda un preciso assetto ideologico e culturale e richiama l'attenzione sulla linguaggio che usiamo, sulla
forza conformatrice del senso comune, che opera anche senza che ce ne accorgiamo. Il linguaggio acriticamente accettato esercita qualcosa come una dittatura simbolica. (p. 234)
Per parlare di tutti i saggi finirei per scrivere un post lunghissimo che anche i mei 15 lettori si stancherebbero presto di leggere. Farò così, allora. Alcuni dei temi cercherò di riprenderli in post successivi (in particolare quelli sulla costruzione del sistema culturale e mediatico), mentre qui mi limiterò ad una citazione che elenca i principali elementi costitutivi del berlusconismo che, come viene più volte indicato nel testo, non nasce dal nulla ma si incista su un sistema di potere fragile e su modelli culturali deboli:
la natura patrimoniale del sistema di potere di Berlusconi; le peculiarità del discorso culturale che ha caratterizzato il suo controllo dei media; la visione di genere che informa le sue azioni e riflessioni; la relazione strumentale che ha instaurato con la Chiesa cattolica e la connivenza col suo sistema di potere; il modo in cui il populismo, nel mondo del berlusconismo, porta con facilità al disprezzo delle istituzioni e all'assenza di qualsivoglia etica pubblica; da ultimo, il modo in cui il berlusconismo ha diviso il paese. (Introduzione, p. VIII)
Ci torneremo presto su, allora. Per il momento, se vi interessa approfondire oltre quel poco che ho detto, qui trovate la pagina del catalogo Laterza, con alcune recensioni (la metto per questo motivo, non per fare pubblicità alla casa editrice o per spingervi a comprare il libro, sia chiaro), mentre qui trovate una lunga recensione curata da Luca Michelini (qui il suo sito/blog) e pubblicata su Micromega.

la rivoluzione è cominciata

Forse come titolo è un po' esagerato, ma è quanto ha detto Santoro all'inizio di Servizio Pubblico, giovedì sera, il 3.



In fondo, un po' di ragione ce l'aveva perché i risultati del suo esordio con il programma multipiattaforma e mandato in onda su un circuito di televisioni locali, su Sky e in streaming sono sorprendenti. Ne hanno parlato un po' tutti: dai dati disponibili il suo ascolto è stato stimato in circa tre milioni di persone, per la sola piattaforma televisiva. Con diverse centinaia di migliaia di utenti connessi su internet.
Il che ovviamente non è poco, anzi.
Ci sono state diverse analisi, più o meno raffinate: se volete godervi un po' di grafici, eccoveli, presi da tv-blog (qui c'è il link ad una delle loro analisi).

A me sembra che quello più interessante sia l'ultimo, che mostra il confronto tra due programmi pensati per la tv generalista ma andati in onda su una piattaforma satellitare. La prima impressione è che programmi di questo tipo siano visti soprattutto (se non solo) dal pubblico di appassionati. Lo zoccolo duro, insomma.
Ed è forse su questo che bisognerebbe riflettere prima di parlare di "rivoluzione".
Perché la sensazione è che Santoro sia riuscito nel suo exploit soprattutto grazie a due fattori: il grande interesse che la sua vicenda professionale/personale aveva suscitato e lo zoccolo duro dei suoi fans, diciamo così. Cosa che sembra confermata dal risultato del sondaggio che hanno fatto durante la trasmissione e che ha conseguito percentuali bulgare.
Perché dal punto di vista del linguaggio televisivo, non mi sembra che la prima puntata di "Servizio pubblico" sia stata proprio una "rivoluzione": sembrava di vedere una puntata di Anno Zero, con un po' meno servizi, senza il contraddittorio obbligato in studio, e con qualche piccolo (e, direi, tutto sommato facile) scoop (voglio dire: Lavitola ha una tale voglia di parlare che si farebbe intervistare pure da me).
E poi c'era quello che in Rai avevafatto venire il mal di pancia a molti, la ricostruzione in forma di fiction delle telefonate intercettate: forse, la parte migliore.

Insomma, era un normale programma televisivo, anche un po' lungo e noioso per certi tratti.

Certo, si potrebbe dire che in fondo è questa la vera rivoluzione: riuscire a fare un normale programma di approfondimento giornalistico. E non sarebbe sbagliato, visto il pessimo livello della nostra tv, da questo punto di vista.

Però, la sensazione che ho è che la forza dell'organizzazione che Santoro e la sua squadra sono riusciti a mettere in piedi non sia stata sfruttata al meglio. Io mi sarei aspettato un programma confezionato in modo tale da essere rapidamente trasformato nelle forme virali e frammentarie del linguaggio di youtube e dei social network, mentre mi sa che la lunghissima tirata di Travaglio non diventerà la clip più cliccata della settimana.
In ogni caso, sarà interessante seguire come la cosa evolverà. E se la stessa formula di autoproduzione possa essere messa in atto da altri big della tv, come lo stesso Santoro a un certo punto ha fatto intendere.
Se succedesse sarebbe certo interessante, però non so quanto sarebbe una reale rivoluzione televisiva.
Forse lo diventerebbe se simili ascolti venissero raggiunti da nomi e volti nuovi e sconosciuti, che riuscissero ad imporsi grazie alla rete delle emittenti locali, l'appoggio della piattaforma satellitare, la galassia dei social network e delle web-tv. Ma mi sembra veramente solo un telesogno

prove di servizio pubblico

Fra poche ore sapremo com'è andata. Dopo essersene andato dalla Rai, Michele Santoro ci riprova con un esperimento che aveva già fatto quando era ancora nel servizio pubblico. Ricordate? Si chiamava
e andò in onda il 25 marzo 2010. Qui trovate la pagina di wikipedia per rinfrescarvi la memoria.
Oggi il programma è più ambizioso, perché Michele è ormai fuori dal servizio pubblico. E prova a farsene uno tutto suo: il progetto infatti si chiama
e seguendo il link trovate il sito dedicato, da cui potrete anche vedere il programma.

Il progetto è interessante, e molto se ne è parlato. E moltissimo se ne parlerà, se avrà successo.
Ed è possibile che lo abbia, il successo.
Perché la Rai, quello che dovrebbe essere l'unico servizio pubblico, ha fatto una politica aziendale suicida. Non solo per le ben note questioni legate ai rinnovi contrattuali (Santoro, Dandini ecc.), ma anche per le scelte che riguardano le piattaforme alternative. E per non parlare poi dello stato dell'informazione.
Perché Santoro è un nome dal forte richiamo.
Ma soprattutto perché la televisione sta cambiando.
Il Grande Fratello ha un clamoroso crollo di ascolti.
Talent che sembravano funzionare fino alla scorsa stagione, languono nell'inedia.
La tv satellitare avvia una politica editoriale da tv generalista.
E sempre più persone, soprattutto nelle fasce di pubblico più giovane, usano una molteplicità di piattaforme per seguire quello che più gli piace.
Bisognerà capire come questo nuovo modello di visione si possa adattare ad un programma che rimane pur sempre televisivo. Infatti non è sufficiente pensare ad una fruizione su molti e diversi canali per parlare di una nuova televisione: bisognerà vedere se e come cambierà il linguaggio. E magari ne riparleremo domani.

Non fa Male



E' stato quasi un riflesso pavloviano. Li ho letti e mi è venuto in mente lui.
Poi, pensando a un titolo per questo post, mi è venuta in mente un'altra battuta famosissima, molto più pop di quella di Moretti. Se non l'avete riconosciuta, è questa:



Quello che unisce queste due citazioni è solo la parola male. Perché, se non lo sapete, il Male è tornato in edicola: e c'è tornato due volte. Con una storia che lascia un gusto acido, come le vignette del Male, quello originale.
E allora cominciamo dall'inizio.
Nel 1978 iniziava ad uscire una rivista di satira, una di quelle che lasciano il segno, Il Male, appunto. E' durata poco, ed ha avuto una vita travagliata. Ed ha lasciato molti rimpianti.
Qualche tempo fa, due degli autori di allora - Vincino e Vauro - hanno deciso di riportarla in vita. Ma colui che ne era stato a lungo il direttore - Vincenzo Sparagna - ha deciso che non era cosa fare la rivista senza di lui: e così ne ha fatta un'altra tutta sua, uscendo qualche giorno prima di quella della W.
Un bel casino: se seguite il link trovate un riassunto, non del tutto imparziale.
E, se vi va di andarvi a leggere i due mali, troverete abbondanza di riferimenti alla vicenda. Qualche esempio?
Il Nuovo Male di Sparagna:
...le amarezza più grandi, sono vedere amici e compagni in cui si aveva fiducia passare armi e bagagli dalla parte dei potenti e dei prepotenti per denaro o per vanità. (...) Questo nostro nuovo Male è anche una risposta ad alcuni di costoro, che, dall'alto di una vita ben nutrita dai padroni del vapore, hanno deciso di scimmiottare la loro lontana giovinezza facendosi finanziare (a quanto mi dicono) una "moderna" versione de Il Male che a me sembra solo la furbata commerciale di ex ribelli con ville e rendite... (p. 11)
L'unico Male di Vauro e Vincino, una vignetta di quest'ultimo:
...mentre noi al Male puzzavamo di fame lui faceva i milioni con Frigidaire. Questa è la verità storica echecazz...
Il lui che faceva i milioni è Sparagna, direttore di Frigidaire, una splendida rivista in cui lavorava gente come Pazienza, Tamburini, Liberatore ecc., che poi sarebbero passati anche al Male.
Insomma, una vicenda non proprio edificante che ha dato un duro colpo a tutta l'operazione. Ma il problema, in realtà, non è questo.
Il problema è che questi due Mali non fanno male.
Non nel senso che non eguagliano l'originale, ma nel senso che non graffiano, non sono urticanti, non riescono proprio - direi - a fare satira. A mio modo di vedere quello di Sparagna ancora meno di quello di W che ha alcuni buoni passaggi (Makkox su tutti: non lo conoscete? accidenti a voi! filate qui, e poi tornate).
Qual è il problema, allora?
Beh, alla fine proprio il confronto con l'originale.
D'accordo, è una questione di marketing editoriale: usare quel mitico nome serve a trovare un primo nucleo di lettori che permettano di contenere le perdite iniziali per arrivare ad un punto di pareggio (o a perdite accettabili) e intanto migliorare la rivista e conquistare nuove fette di pubblico. Però la scelta porta con sé, inevitabilmente, un confronto con l'originale. E la delusione. Perché?
Io credo che l'asticella del ridicolo, o dell'osceno, sia stata portata così in basso in questi ultimi anni che diventa difficile scuotere l'opinione pubblica.
Se compito della satira è dire a tutti che il re è nudo, qui siamo in una situazione in cui il re si vanta di essere nudo, e mostra in giro i propri attributi gloriandosene.

Questo

faceva Male.

Questo

fa sorridere.
Ma, purtroppo, non fa più male.

hungry, fool, different, simple

Tutto il mondo ha detto addio a Steve Jobs, chi lo amava e chi lo detestava.

Cosa dire più di quello che è già stato detto e scritto? Cosa dire di diverso?
Niente, credo.
Non per ora.
Ora, del resto, ogni cosa che si potrebbe dire entrerebbe in un circuito di ridondanza che la rendebbe del tutto inutile, puro rumore di fondo.
Allora, come sempre in questi momenti, occorre ripartire da sé. Da quello che l'industria culturale ti ha lasciato dentro, come spettatore, come fruitore, come pubblico, anche se attivo.
Perché anche di questo si parla, quando si parla di quello che ha fatto Steve Jobs.
Perché dietro le sue macchine c'era questo



e questo



Qualcuno ha detto che la Apple è stata prima di tutto una grande azienda di marketing. E forse in parte è vero.
Ma ciò non basterebbe a spiegarne il successo.
C'è la tecnica, certo. E c'è il design, ovvio. E c'era, all'inizio, anche il piacere di sentirsi diversi.
Ma soprattutto c'era, e c'è, l'applicazione pratica di una delle intuizioni di McLuhan (ancora lui, sempre lui): che i media sono estensioni dei nostri sensi.
Anche prima dell'I-Pad i libri si potevano leggere su uno schermo. Ma era un gesto artificioso. Poi arriva l'I-Pad e si sfogliano, così come si fa con i libri di carta.
E se risaliamo all'indietro, ho l'impressione che troveremo sempre lo stesso primato: anche prima quelle cose si potevano fare, ma non si facevano in modo naturale.
La via è quella della semplicità: una ricercata semplicità, come quei maglioncini neri che, ho letto ieri, costavano uno sproposito.
Ecco, a me quello che è sempre piaciuto della mela è la semplicità. Per esempio, quando presi questo
quello che mi piaceva era che non sembrava nemmeno vero per quanto era semplice e divertente (sì, divertente: sembrava di avere in mano un computer uscito da Paperopoli).
E come questa semplicità avesse l'incredibile, inquietante capacità di cambiare in modo sottile ma definitivo il tuo modo di pensare e di agire quando eri in quella dimensione: e come quella dimensione sembrasse il futuro. Mi ha sempre colpito, per esempio, quanto la gestualità di chi lavora su un I-phone o un I-pad ricordi quella del John Anderton di Minority Report: quella sequenza di gesti per scorrere le immagini mi sembrarono allora il futuro, una delle possibili strade del futuro; e oggi le vedo anche nella pubblicità.
E, allora, sarà forse in questa capacità di costruire un immaginario collettivo, a partire dalla fantasia di pochi, che risiede il segreto del lavoro di Steve Jobs.
Ma, appunto, ci sarà tempo per pensarci.

Ah, ovviamente il titolo si riferisce ad uno dei discorsi più famosi (e belli, ed emozionanti) di Jobs. Se non lo conoscete (ma non è possibile: quindi anche se volete solo riascoltarlo), ve lo metto qui:

E poi, magari, un giorno parleremo della forza dello storytelling, di cui questo discorso è una prova lampante.

E di quello che non mi è mai piaciuto della mela, il suo voler essere un mondo a sé, un mondo chiuso: forse, dal punto di vista del marketing, questa è (è stata?) la sua forza. Ancora oggi continua a non piacerme e, in più, mi sembra una debolezza in un universo collaborativo, oltre che un tratto di arroganza che forse, a quanto si legge, rispecchiava un aspetto del carattere di Jobs. Forse, ora che non c'è più, questa cosa cambierà: se lo facesse, non credo che sarebbe un tradimento della sua eredità.

lezione di cucito

Odoardo Borrani, 26 aprile 1859
Lo ha scritto Gustavo Zagrebelsky. Io lo condivido, insieme a molta altra gente.

L’anno anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia rischia di concludersi così. Così, come? Con una frattura profonda.
Sempre più e rapidamente, una parte crescente del popolo italiano si allontana da coloro che, in questo momento, sono chiamati a rappresentarlo e governarlo.
I segni del distacco sono inequivocabili, per ora e per fortuna tutti entro i limiti della legalità: elezioni amministrative che premiano candidati subìti dai giri consolidati della politica; referendum vinti, stravinti e da vincere nell’ostilità, nell’indifferenza o nell’ambiguità dei maggiori partiti; movimenti, associazioni, mobilitazioni spontanee espressione di passioni politiche e di esigenze di rinnovamento che chiedono rappresentanza contro l’immobilismo della politica.
Il dilemma è se alla frattura debbano subentrare la frustrazione, l’indifferenza, lo sterile dileggio, o l’insofferenza e la reazione violenta, com’è facile che avvenga in assenza di sbocchi; oppure, com’è più difficile ma necessario, se il bisogno di partecipazione e rappresentanza politica riesca a farsi largo nelle strutture sclerotizzate della politica del nostro Paese, bloccato da poteri autoreferenziali la cui ragion d’essere è il potere per il potere, spesso conquistato, mantenuto e accresciuto al limite o oltre il limite della legalità.
Si dice: il Governo ha pur tuttavia la fiducia del Parlamento e questo, intanto, basta ad assicurare la legalità democratica. Ma oggi avvertiamo che c’è una fiducia più profonda che deve essere ripristinata, la fiducia dei cittadini in un Parlamento in cui possano riconoscersi. Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori della presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso le altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo, mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? Chi ci governa e chi lo sostiene, così sostenendo anche se stesso, vive ormai in un mondo lontano, anzi in un mondo alla rovescia rispetto a quello che dovrebbe rappresentare.
Noi proviamo scandalo per ciò che traspare dalle stanze del governo. Ma non è questo, forse, il peggio. Ci pare anche più gravemente offensivo del comune sentimento del pudore politico un Parlamento che, in maggioranza, continua a sostenerlo, al di là d’ogni dignità personale dei suoi membri che, per “non mollare” – come dicono –, sono disposti ad accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e, con il voto, a trasformare il vero in falso e il falso in vero, e così non esitano a compromettere nel discredito, oltre a se stessi, anche le istituzioni parlamentari e, con esse, la stessa democrazia.
Sono, queste, parole che non avremmo voluto né pensare né dire. Ma non dobbiamo tacerle, consapevoli della gravità di ciò che diciamo. Il nodo da sciogliere per ricomporre la frattura tra il Paese e le sue istituzioni politiche non riguarda solo il Governo e il Presidente del Consiglio, ma anche il Parlamento, che deve essere ciò per cui esiste, il luogo prezioso e insostituibile della rappresentanza.
Dov’è la prudenza? In chi assiste passivamente, aspettando chissà quale deus ex machina e assistendo al degrado come se fossimo nella normalità democratica, oppure in chi, a tutti i livelli, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’adempimento delle proprie responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori i partiti, opera nell’unico modo che la democrazia prevede per sciogliere il nodo che la stringe: ridare al più presto la parola ai cittadini, affinché si esprimano in una leale competizione politica. Non per realizzare rivincite, ma per guardare più lontano, cioè a un Parlamento della Nazione, capace di discutere e dividersi ma anche di concordare e unirsi al di sopra d’interessi di persone, fazioni, giri di potere. Dunque, prima di tutto, ci si dia un onesto sistema elettorale, diverso da quello attuale, fatto apposta per ingannare gli elettori, facendoli credere sovrani, mentre sono sudditi.
Le celebrazioni dei 150 anni di unità hanno visto una straordinaria partecipazione popolare, che certamente ha assunto il significato dell’orgogliosa rivendicazione d’appartenenza a una società che vuole preservare la sua unità e la sua democrazia, secondo la Costituzione. Interrogandoci sui due cardini della vita costituzionale, la libertà e l’uguaglianza, nella nostra scuola di Poppi in Casentino, nel luogo dantesco da cui si è levata 700 anni fa la maledizione contro le corti e i cortigiani che tenevano l’Italia in scacco, nel servaggio, nella viltà e nell’opportunismo, Libertà e Giustizia è stata condotta dalla pesantezza delle cose che avvolgono e paralizzano oggi il nostro Paese a proporsi per il prossimo avvenire una nuova mobilitazione delle proprie forze insieme a quelle di tutti coloro – singole persone, associazioni, movimenti, sindacati, esponenti di partiti – che avvertono la necessità di ri-nobilitare la politica e ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e in coloro che le impersonano. Che vogliono cambiare pagina per ricucire il nostro Paese.

avviso agli studenti - ricevimento 2011/12

Ricominciamo con i post di servizio.
Il corso di quest'anno è previsto per il secondo semestre: come faccio in genere metterò anche qui il programma appena verrà pubblicato sul sito di Ateneo.
Per ora vi avviso che da ottobre, in coincidenza con l'inizio delle lezioni, sono a disposizione degli studenti nel mio studio

tutti i mercoledì, 
dalle 10.00 alle 12.00

Come sempre, comunque, per qualsiasi problema o necessità mi potete contattare via e-mail.

Prima lezione sulla televisione (letture)

Aldo Grasso lo conoscete tutti, almeno di nome. E', probabilmente, il critico televisivo più famoso del momento, che ci suggerisce con la sua rubrica quotidiana sul "Corriere della Sera" una lettura giornaliera della televisione: compito quanto mai arduo, vista la natura mutevole e istantanea della tv. E' anche uno storico della televisione, anche se di un tipo un po' particolare perché nei suoi lavori sembra preferire la discontinuità dell'acuto spettatore alla linearità espositiva di chi ricostruisce il passato per mestiere: ma del resto fare storia dei mass media è un lavoro liminale, che costringe a confrontarsi con discipline scientifiche diverse e con l'inevitabile, ingombrante ma labile memoria emotiva dello spettatore.
A lui si è rivolta la casa editrice Laterza per scrivere un volumetto della collana "prima lezione" dedicato alla tv. Si tratta di piccoli, agili libri divulgativi che simulano la "prima lezione" di un corso universitario: si tratta quindi di agili sintesi che descrivono i nodi principali della "materia".
In questo caso ci si trova subito di fronte ad un problema: che cosa potrebbe significare, infatti, fare un corso sulla televisione?
Raccontarne la storia? Certo, evidentemente. Ma non solo.
Analizzarne i linguaggi? Sicuro. E allo stesso tempo descriverne i format, e ragionare sulla scrittura televisiva.
Ma anche, inevitabilmente, sullo stretto rapporto fra televisione e società, una relazione che in Italia si fa strettissima, quasi soffocante.
E infine può anche significare trasformarsi da storico in futurologo cercando di immaginare gli scenari prossimi venturi della convergenza realizzata.

Ecco, questo agile volume che non arriva a 140 pagine di piccolo formato - escludendo gli apparati - e che si legge in un paio d'ore, è tutto questo. Che è allo stesso tempo tanto, perché attraversa discipline e approcci completamente diversi, e poco, perché di tutto non c'è che un accenno. Com'è giusto che sia, del resto, in una "prima lezione": saranno le altre ad approfondire i diversi temi.
Però, secondo me, è anche un piccolo saggio di che cosa deve voler dire studiare la televisione: in particolare di quanto questa analisi debba muoversi sul confine tra "alto" e "basso", tra cultura e ciarpame, tra strategie narrative e rumore di fondo. E Grasso lo fa in modo acuto e divertente quando, cercando di spiegare quello strano, difficile mestiere che è il critico televisivo, dopo aver fatto riferimento a Walter Benjamin e aver fatto parlare Achille Campanile (qui, ma per vederlo in tv vai qui), lascia il campo a Anton Ego.
Monsieur Ego al tavolo da lavoro
Come? per quale giornale scrive?
Non ricordo, ma so che è il più temuto critico gastronomico francese e che l'ultima volta l'avevo visto alle prese con una Ratatouille cucinata da un topo.
Un bel modo per scompaginare le regole e ridisegnare i confini, no?

Del resto, il libro è introdotto dall'affermazione che
non credere più ciecamente nella televisione è stata una lunga, lenta conquista.
Un modo ben curioso per introdurre un libro che dovrebbe spiegarci che cos'è la tv e perché, e come, va studiata. E però un passaggio di un racconto di David Sedaris, anch'esso nelle prime righe dell'introduzione, ci illumina su questa apparente contraddizione. Si parla di un tale signor Tomkey che era famoso fra i suoi vicini perché non credeva alla televisione:
il libro di Sedaris di cui sto parlando
dire che non credevi nella televisione era diverso dal dire che non ti interessava. Il verbo "credere" suggeriva che la televisione avesse un qualche piano, e che tu fossi contrario. Suggeriva inoltre che forse pensavi un po' troppo. Quando mia madre ci comunicò che il signor Tomkey non credeva nella televisione, mio padre disse: "Be', buon per lui. Per quel che ne so, nemmeno io". "La penso esattamente come te" disse mia madre, dopodiché entrambi si misero a guardare il telegiornale, e tutti i programmi che seguirono il telegiornale.


Ecco, la televisione va studiata perché non ci crediamo, ma non possiamo fare a meno di guardare tutti i programmi che vengono dopo il telegiornale.

Un uomo, un'avventura


A un certo punto passai dalle pagine di Topolino, Geppo e Braccio di Ferro (i miei fumetti preferiti quand'ero bambino, e non necessariamente in quest'ordine) a quelle di Tex.
Le guardavo soltanto: ero troppo piccolo per leggere le storie. Ma quei grandi spazi, quelle cavalcate solitarie, quei canyon scavati nella roccia, e soprattutto quei suoni - bang! - mi lasciavano senza fiato: fantasticavo per ore su quei panorami, su quei volti duri, sulle sparatorie. 
Il bianco e nero non era un problema. Il colore ce lo mettevo io. Con la fantasia, quasi sempre. Ma qualche volta anche con i pennarelli carioca.
Però quelle storie dovevano essere in bianco e nero: era un mondo adulto e quelli erano i suoi colori.
Tex era in casa perché lo leggeva mio padre, ritrovando sulla carta la passione per il western che immagino lo avesse nutrito da ragazzo: mi sembrava che in quelle storie scorresse una corrente silenziosa di complicità tra me e lui.

Sono alcune delle cose che mi sono venute in mente quando ieri ho saputo questo

E così non credo che si possa salutare Sergio Bonelli senza parlare dal modo in cui le sue storie hanno formato il mio (ma anche il nostro) immaginario.
Le storie di Tex che leggevo da bambino, in realtà, erano probabilmente del padre di Sergio, Gian Luigi, che aveva inventato il personaggio e lo scriveva dal 1948.


Fra parentesi: che emozione quando da un rigattiere trovai per caso il primo numero di Tex in formato striscia. Lo comprai subito. Chissà dov'è, ora.




Erano storie che guardavo con rispetto e ammirazione, ma - come dire - un po' da lontano. Non riuscivano a coinvolgermi: evidentemente non stuzzicavano il mio immaginario.
Poi un giorno scoprii Zagor in cui ritrovai l'avventura, l'esotico, quel grido che mi ricordava tanto Tarzan, un costume sgargiante, molto poco adatto alla vita nella giungla, ma così forte ai miei occhi di ragazzino. E poi, volete mettere il fascino di una casa nella palude? E gli scienziati pazzi? gli extraterresti? i vampiri, addirittura?
Zagor era scritto da Guido Nolitta, pseudonimo di Sergio Bonelli, ed era completamente diverso da Tex. Così come lo era Mister No, un altro personaggio "di confine", al limite fra generi diversi ma, soprattutto, con un carattere complesso, spesso preda di dubbi, di rimorsi: quasi un antieroe. Non era il "mio" eroe, ma rappresenta bene la cifra narrativa di Sergio Bonelli e la capacità di una casa editrice tradizionale di evolvere, pur restando fedele a se stessa.

E poi, quando avevo 13 e 17 anni, sono venuti altri personaggi, Martin Mystère e Dylan Dog, che intercettavano lo spirito del tempo e che, in misura diversa, sono stati "miei". Sarebbe troppo lungo, ora, raccontarli, descrivere come evolvevano seguendo o anticipando la cultura popolare di quegli anni. Ma per me, allora, quegli albi erano Sergio Bonelli.

Di lui, da allora in avanti, mi è capitato di leggere solo i messaggi che ogni tanto scriveva per i suoi lettori, presentando le novità della casa editrice, tessendo i fili di un rapporto che non si indeboliva col tempo, ma anzi continuava ad evolvere.

Sergio Bonelli e la sua casa editrice rappresentano bene quell'artigianalità industriale (o quell'industria artigianale) che è caratteristica della cultura popolare italiana: una forza nel nostro asfittico panorama che, nonostante alcuni limiti, continua a proporre novità, cercando formule editoriali nuove per combattere una crisi che è sempre strisciante.Ora, immagino, sarà il turno di una nuova generazione.
Ma spero che la strada dell'avventura sia ancora lunga. E sono convinto che Sergio abbia solo accelerato il passo per vedere che cosa c'è un po' più avanti.

è andata così

Nel pomeriggio abbiamo provato.
 
Quando si è fatto scuro, lo spettacolo è cominciato.
Ed è cominciato anche a piovere.
Però alla fine è andata.
Se vuoi sapere come, vai qui.

la notte dei ricercatori

Mettiamo subito in chiaro una cosa.
L'idea che i ricercatori escano dai loro laboratori, dalle stanze delle biblioteche, dagli archivi, si alzino dalle scrivanie e se ne vadano in piazza per raccontare il loro lavoro e la loro passione non è brutta. Anzi.

Però a me viene subito in mente un'immagine come questa.
Fiammelle danzanti nella notte più scura, incapaci di rischiararla.
E temo che di questi tempi nell'espressione "la notte dei ricercatori" l'accento possa cadere più facilmente sulla notte che sui ricercatori.

E però anche una sola fiammella può servire a rendere meno buia la notte e a trovare nuove strade.
Così ci sarò anch'io il prossimo 23 settembre.
Mi troverete a Teramo, in Piazza Martiri, sotto il gazebo di Scienze della Comunicazione.

Come potete vedere dalla locandina qui accanto non starò lì solo la sera.
E probabilmente non starò sempre sotto al gazebo. Magari farò un salto alla postazione di Radiofrequenza.
E andrò a sentire qualche discussione interessante.
Però mi troverete senz'altro anche lì, per raccontarvi che cosa significa fare ricerca oggi fra storia e mass media. E per farvi vedere alcuni dei modi in cui questa ricerca si può declinare. Per esempio potremo parlare insieme di questo progetto, oppure di quest'altro di cui vi avevo già accennato qui.

E, insomma: io ci sarò, e voi?

coincidenze e mappe dell'immaginario

Talvolta quando studio, scrivo, faccio ricerca, mi capita di imbattermi in coincidenze che sembrano attivare collegamenti nascosti e arrivare quasi a delineare una delle molte possibili mappe dell'immaginario.
E' una bella sensazione: come intravedere qualcosa in lontananza, sfocato e dai contorni indefiniti. Non lo vedi nemmeno bene, però è qualcosa, lo sai, e ti spinge ad andare avanti.

Mi piace raccontarvene una.

Tutto comincia da una frase di Eric J. Hobsbawm che, nel Secolo breve, scrive più o meno che la seconda guerra mondiale, ascoltata attraverso le onde della radio, diventa per un'intera generazione una lezione di geografia planetaria.
Questa frase mi solletica un ricordo quasi sopito. Ci penso un po' e alla fine mi viene in mente una copertina che Norman Rockwell dipinge per il Saturday Evening Post del 29 aprile 1944: questa.
Si chiama "Armchair General" e sembra descrivere perfettamente quanto scriverà Hobsbawm. Chissà se anche lui ce l'aveva nel proprio serbatoio dell'immaginario?
La cosa si chiude lì.
Poi, nel romanzo che sto leggendo in questi giorni, ecco che il protagonista, Joe Kavalier, si arruola e finisce a fare il radiotecnico in una base antartica e
ascoltava con la sua potente Marconi multiband CSR 9A, tutto quello che le tre antenne, alte venti metri, riuscivano a captare dal cielo a tutte le ore del giorno, modulazioni d'ampiezza, modulazioni di frequenza, onde corte, radioamatori. Era una specie di pesca aerea, si gettava la lenza e si stava a vedere che cosa abboccava e per quanto tempo si riusciva ad andare avanti: un tango che arrivava da La Plata, austere esegesi bibliche in una lingua africana, un inning e mezzo di una partita tra i Red Sox e i White Sox, una soap opera brasiliana, due radioamatori solitari nel Nebraska e nel Suriname, che con un tono di voce monotono di scambiavano notizie sui loro cani. (...) Ma, soprattutto, seguiva le notizie sulla guerra. A seconda dell'ora, dell'inclinazione del pianeta, dell'angolazione del sole, dei raggi cosmici, dell'aurora australe, della ionosfera, riusciva ad arrivare ogni giorno dappertutto, ascoltava tra i diciotto e i trentasei diversi notiziari da ogni parte del globo, ma come quasi tutti in tutto il mondo, preferiva la BBC. L'invasione dell'Europa si andava estendendo e lui ne seguiva il processo irregolare ma costante con l'aiuto di una carta geografica che aveva appeso alla parete della baracca, e sulla quale infilava dei piccoli segnali colorati per indicare le vittorie e le sconfitte.
Ma non sono lo stesso personaggio e la stessa situazione ritratti da Rockwell, solo un po' più drammatici? Anche Michel Chabon aveva in mente quell'illustrazione? oppure gli era rimasta in testa la definizione di Hobsbawm, come è successo a me?
Coincidenze, appunto. Solo coincidenze.
Che poi, però, si moltiplicano: così leggendo un altro libro, Il popolo bambino di Antonio Gibelli, sui modi in cui vengono irregimentati i fanciulli tra la prima guerra mondiale e Salò, a un certo punto mi capita tra le mani un altro brano, ancora una volta letterario.
Alla guerra d'Africa, noi ragazzi fummo preparati con le figurine nelle bustine di piccoli rombi di liquerizia e che raffiguravano, a colori, chessò, i generali Bottego e Galliano, il cardinale Massaia, il colonnelli Toselli e De Cristoforis... cominciammo in tal modo a fare conoscenza con Dogali, Axum, Macallé, Adua: con ascari, dubat, nachil, bulukbasci, sciumbasci e pure con Menelik, la regina Taitù...
Ecco allora che la lezione di geografia non corre più sulle onde della radio ma è un'illustrazione, sia pure in piccolo e su carta povera e con puri e unici scopi pubblicitari. Una figurina come questa:
Che però non è della fine dell'800 ma del 1936, ed è relativa alla seconda serie della trasmissione radiofonica "I quattro moschettieri". E nel 1935 c'era stata l'aggressione all'Etiopia, e gli italiani erano tornati ancora in Africa. E quelli a casa  stavano di nuovo seguendo la propria lezione di geografia alla radio.

Coincidenze, appunto. Solo coincidenze.

Ma non si sta lentamente costruendo una piccola mappa dell'immaginario? una mappa misteriosa che non si sa se porterà ad un tesoro ma che fa tanto venire voglia di esplorarla?

p.s
per chi è curioso, i libri che ho citato sono
Michel Chabon, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay
Sharo Gambino, Fischia il sasso

ancora un altro 2 agosto

"La nube di fumo nascose la stazione e fece buio attorno.
Buio sulla città.
All'esplosione seguì un silenzio innaturale di morte.
La vita si fermò per un istante e per tutti.
Poi per alcuni riprese, ma fu in un incubo. Per altri non tornò.
Non tornò per ottantacinque persone".

Quel 2 agosto di ieri, oggi lo voglio ricordare così. Con alcune note su un libro dove ci sono:

"Un colonnello dei carabinieri, una sociologa senza lavoro, un archeologo e un ex agente dei servizi di sicurezza di Francia: quattro storie indipendenti e che fino a quel momento avevano seguito strade diverse, quattro vite che per caso si erano sfiorate, confluirono in un'unica storia e in un'unica vita.
Il calore dell'esplosione le fuse e le avviò verso un unico crogiolo".

Il libro è "Strage" di Loriano Macchiavelli e queste righe tratte da p. 80 ne sono un'ottima introduzione.
E' stato ripubblicato lo scorso anno da Einaudi per la collana Stile libero ma era già uscito il 28 maggio 1990 per la Rizzoli e l'autore era un certo Jules Quicher. Che poi è anche uno dei protagonisti del romanzo.
E già questa è una storia da raccontare.
Jules Quicher era lo pseudonimo con cui Macchiavelli avrebbe dovuto firmare tre romanzi per la Rizzoli con
"l'impegno [di] raccontare, in forma di romanzo, storie di un'Italia sconosciuta ai più, ma destinate a lasciare il segno nel futuro del paese"
come scrive lo stesso Macchiavelli.
Già la scelta di uno pseudonimo straniero ci fa capire che erano altri anni: uno scrittore italiano, allora, non era credibile come autore di romanzi di genere, in particolare di questo genere, a cavallo tra la spy story e il thriller fantapolitico.
Ma soprattutto erano anni in cui il passato era ancora troppo presente, col suo carico di dolori e di misteri. Infatti uno degli inquisiti per la strage di Bologna si sentì diffamato per essere stato citato nel romanzo e denunciò il libro.
(Per la cronaca,  il denunciante sarebbe stato riconosciuto colpevole dal processo di primo grado ma poi assolto con sentenza definitiva.)
Il tribunale di Milano ordinò il sequestro delle copie del libro, e la casa editrice provvide a ritirarlo dalle librerie. Era il 3 giugno 1990: erano passati solo sette giorni dalla sua uscita. Ne sarebbero passati altri venti prima di poterlo ritrovare sugli scaffali.
Un effetto collaterale della decisione del tribunale di Milano era stato la rivelazione del vero nome dell'autore, Loriano Macchiavelli appunto (dalle cui note introduttive - "Breve storia, a uso del lettore, di questo romanzo" - ho preso queste informazioni e la citazione).

E così veniamo al libro, finalmente.
Macchiavelli è un solido narratore. Potremmo quasi definirlo uno dei padri del "giallo all'italiana", in particolare per le sue storie che hanno come protagonista "Sarti Antonio". Negli ultimi anni forma una coppia di buon successo con Francesco Guccini: i loro romanzi, dopo aver raccontato l'emigrazione, il '68, gli echi delle stragi del dopoguerra, si sono fermati ad osservare l'Italia dall'Appennino tosco-emiliano mostrandoci come anche un luogo appartato e apparentemente immobile possa essere come il vetrino su cui un patologo studia il prolliferare di un bacillo infettivo.
Ma soprattutto Loriano Macchiavelli ha una di quelle qualità che, secondo me, permettono al noir di essere uno dei generi più efficaci per raccontare le trasformazioni di una società: è un attento osservatore dei comportamenti minuti, delle sottili alterazioni della quotidianità, dei lenti slittamenti dei confini sociali tra ciò che si può fare e ciò che non si deve, tra il lecito e l'illecito, il normale e l'anormale, il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. Leggetevi "Che cos'è accaduto alla signora perbene", per dirne uno, e capirete.
Ecco, in questo libro, purtroppo, questa capacità di osservazione, di critica implicita, io non ce l'ho trovata, se non a tratti. Forse è il genere che non si adatta allo scrittore: reinventare la realtà in forma di romanzo di complotto probabilmente non è nelle sue corde, nella sua capacità di penetrare e restituire il quotidiano. E infatti solo quando torna su quelle rotte ci consegna pagine belle e buone intuizioni.

Questo non vuol dire che il romanzo non sia divertente, ben inteso.
Anzi, la dinamica del complotto, confina così tanto con la realtà, che la denuncia che lo aveva costretto a ritirare il libro venne a cadere perché - uso le sue parole -

"l'autore (il sottoscritto) non era punibile in quanto aveva semplicemente esercitato il diritto di cronaca e di critica, emanazioni dell'articolo 21 della Costituzione che sancisce il diritto di libertà di stampa e informazione. Un diritto-dovere - chiosa Macchiavelli, e io sottoscrivo - che, ancor oggi, continua a essere messo in discussione da chi ha altri interessi che la libertà di stampa e l'informazione".
Alcune intuizioni del libro, poi, sono particolarmente divertenti, così come alcuni personaggi sono molto ben delineati e intriganti: il plot appassionante, talvolta, sembra addirittura più credibile dell'incredibile - e per molti versi ancora inspiegabile - realtà.

Quello che forse mi è mancato nella lettura è proprio quello slittamento della realtà che quella tragedia ha significato: non ho percepito in quelle pagine il senso di un "prima" e di un "dopo", che non coinvolge tanto gli eventi, la storia, quanto le persone; ho avvertito come una freddezza della fantasia che mi è sembrata contrastare duramente con il calor bianco di quegli eventi, della realtà, appunto.
Tutte cose di cui l'autore è terribilmente consapevole, come ci ricorda la poesia di Roberto Roversi che introduce alla lettura

Bologna 2 agosto ore 10.25
senza un fiato di vento il cielo ha buttato
un grido tremendo
un sole nero corre per le strade
io voglio provare i miei sentimenti come su una lastra di fuoco

Roberto Roversi, Notizia

Oh, se volete saperne di più e avere un parere diverso, potete leggervi qui la recensione di Valerio Evangelisti (non so se mi spiego) e qui un'altra che sottolinea l'importanza civile di questo libro, come del resto fa Libero Mancuso in una breve introduzione al libro.

Se poi siete curiosi di sentire come ne parla lo stesso Loriano Macchiavelli, potete guardarvi questo video (a partire dal minuto 7, all'incirca)



l'uomo che immaginò il futuro

Glieli vogliamo fare gli auguri a quest'uomo?
Come chi è? E' Mister Herbert Marshall McLuhan. Lo studioso di letteratura che ha guardato nel suo futuro e ha inventato quei concetti con cui ancora oggi continuiamo a cercare di spiegarci il nostro presente.
Oggi avrebbe compiuto cento anni.
 Ancora oggi la sua capacità profetica ci stupisce se rileggiamo alcuni passaggi dei suoi scritti, collocandoli nel loro tempo. Scriveva cose come questa, nel 1964:

«Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi»

E' un brano tratto da "Gli strumenti del comunicare": non sembra forse parlare di oggi?

Solo che questa sua capacità, allo stesso tempo di analisi e di proiezione nel futuro, ha finito per essere condensata in slogan perfetti, apparentemente autoesplicanti, pur nella loro sintesi. Così essi sono rapidamente entrati a far parte di un lessico comune e sono stati talmente tante volte ripetuti, fuori dal loro contesto e con un senso travisato rispetto a quello originale, da diventare un luogo comune.
Villaggio globale.
Il medium è il messaggio.
Cose così.

E a tutti quelli che dicono "villaggio globale" viene in mente "omologazione", quando invece Mister McLuhan scriveva, ad esempio,

«La radio provoca un’accelerazione dell’informazione che causa anche un’accelerazione di altri media. Restringe il mondo alle dimensioni di un villaggio e crea un insaziabile gusto paesano per i pettegolezzi, le voci e gli attacchi personali. Ma non omogeneizza i diversi quartieri del villaggio»

E' sempre "Gli strumenti del comunicare", 1964.

Ecco, allora, visto che oggi tutti ne parleranno cercando di spiegarci il suo pensiero, io preferisco ricordarlo semplicemente così, con una scena indimenticabile di un film indimenticabile:



Tanti auguri, Herbert Marshall McLuhan.

Letture: Saltare il muro

Mahmoud è palestinese, ha ventidue anni, lavora nella drogheria della famiglia e ama disegnare.

Maximilen ha ventisei anni, è francese, e disegna in modo professionale.
Dal loro incontro è nato questo libro, un reportage disegnato sulla vita di Mahmoud dentro il muro e della sua voglia di saltarlo. Lo ha pubblicato 001 editore di Torino (e se volete sapere di più della casa editrice, andate qui).



E' un argomento difficile, quello scelto da Maximilien Le Roy, l'autore del libro (fate clik qui per sapere qualcosa di più su di lui). E' difficile parlare della vita dei palestinesi nei campi profughi, all'interno del muro. E' difficile non farsi prendere la mano dalla retorica. Difficile rimanere equilibrati. Difficile dare voce ad un conflitto dove occupanti ed occupati sembrano essere entrambi ugualmente  prigionieri.


Però non è un tema nuovo: anzi, è proprio su questo tema che, perlomeno in Italia, ci siamo accorti che esisteva qualcosa che potevamo chiamare graphic journalism (per saperne di più andate qui e soprattutto qui). Ce lo ha fatto capire Joe Sacco con il suo Palestine (ne vedete una tavola qui a fianco).


Solo che Maximilien ha scelto un'altra strada: non ha messo in scena se stesso (come ha fatto Sacco e come fanno molti altri), ma ha messo in scena Mahmoud, che aveva conosciuto durante un corso di disegno tenuto in Palestina.
Così la storia è un racconto in prima persona, un flusso di coscienza per parole e immagini che descrivono una vita prigioniera, dei muri e dei reticolati politici, ma anche sociali e religiosi.
E le parole di Mahmoud ci accompagnano nel difficile equilibrio quotidiano tra una vita prigioniera e il richiamo del terrorismo. 
Leggere questo libro diventa così un esercizio di ascolto per capire le ragioni delle persone, laddove quelle della politica sembrano ormai essersi perse.

Tre colori

I tre colori sono naturalmente quelli della bandiera italiana e le puntate sono 150, una al giorno per ogni anno di unità.
Di che cosa sto parlando? di una trasmissione su Radio Tre (potete vederla qui) in onda tutti i giorni (tranne sabato e domenica) dalle 14 alle 14.30. E' curata da Federica Barozzi (che normalmente si occupa di memoradio, un'altra bella iniziativa da scoprire), con Lorenzo Pavolini, Maria Angela Spitella e Daria Corrias.

E' una delle molte forme che la celebrazione del centocinquantenario ha preso quest'anno, e una delle migliori, fra quelle che ho visto/ascoltato io.
Perché? perché è una trasmissione plurale. Fatta di date, personaggi, eventi, luoghi: ogni giorno c'è qualcuno che ci racconta qualcosa che ha unito, o diviso, oppure unito e diviso contemporaneamente, il paese.
E dunque è anche un affresco fatto di punti di vista, di interpretazioni, di narrazioni. Come a dire che se l'Italia è una, le sue storie sono molte. E che è proprio in questa pluralità, in questa eterogeneità, che si ritrova la sua unità.

Come?
...dite che il fatto che proprio oggi sia andata in onda una puntata realizzata dal sottoscritto potrebbe rendere il mio giudizio lievemente partigiano?

Potrebbe, in effetti.
Però provate a seguirla un po', e mi saprete dire. E poi il giudizio lo darete voi.


Ah, qui trovate il podcast alla puntata di oggi, se volete riascoltarla o se ve la siete persa.
 
Andrea Sangiovanni © Creative Commons 2010 | Plantilla Quo creada por Ciudad Blogger