un viaggio lungo novant'anni nell'immaginario italiano (sulla mostra del LUCE)

Sono mesi, ormai, che questo blog tace. E allora, per contrappasso, mi sembra divertente tornare a farlo parlare quando tutti gli altri stanno zitti, giustamente impegnati ad arrostirsi sulle spiagge o a far prendere aria ai neuroni in montagna: a ferragosto.
A chiunque vorrà perdere un po' di tempo da queste parti, buona lettura.

C'erano due modi per raccontare i novant'anni dell'Istituto Luce, uno facile e uno difficile.
Si poteva percorrere un sentiero sicuro, poco rischioso, e anche - tutto sommato - poco interessante: rievocarne la storia in modo lineare, utilizzando l'immenso patrimonio di immagini come documenti capaci di parlare da soli. Una via didascalica, già molte volte seguita: forse poco emozionante (se non per le sensazioni che ogni spettatore avrebbe potuto sentire come un'eco in risposta alle immagini) ma in fondo sicura.
E poi si poteva percorrere un sentiero più difficile e pieno di rischi: prendere un concetto quasi abusato, di difficile definizione ma di facile intuizione, l'immaginario italiano, e lavorare su di esso e sul modo in cui l'Istituto Luce lo ha intercettato, attraversato, costruito nel corso dei suoi novant'anni di vita.
E' stata questa la via scelta dai curatori (Gabriele D'Autilia e Roland Sejko, rispettivamente per la parte scientifica e artistica) della mostra LUCE l'immaginario italiano che sarà in esposizione al Complesso del Vittoriano a Roma fino al 21 settembre.
Ho visto la mostra qualche tempo fa e se ve ne parlo è perché vale la pena visitarla, e magari tornarci più di una volta.
Il sentiero impervio che hanno percorso i curatori, va detto subito, paga: hanno rischiato ma hanno ottenuto qualcosa di nuovo e bello. Questo non significa che non ci siano problemi, e ne parleremo. Prima, però, va sottolineato quello che funziona.
Funziona il percorso espositivo, che è allo stesso tempo cronologico, tematico e costruito per assonanze o contrapposizioni visuali.
Funzionano l'allestimento e la scenografia: i testi sono didascalici quel tanto che serve a permettere di orientarsi ai visitatori che non conoscono la storia del Luce (e quella dell'Italia a cui essa si sovrappone). Ma contengono piccole osservazioni, annotazioni, rimandi che coinvolgono - anche in modo critico - il visitatore più attento e lo studioso. La scenografia, poi, rimanda alla grafica degli anni Trenta e Quaranta (e non poteva essere diversamente, vista la storia dell'Istituto) ma la modernizza quel tanto che basta a renderla attuale anche per i decenni successivi.
Soprattutto funzionano i video, che inevitabilmente costituiscono l'elemento caratterizzante dell'intero percorso narrativo-espositivo.
E' proprio in questi video che la scelta attualizzante e - oserei dire - ri-semantizzante degli autori emerge con tutta la sua forza. Voglio dire che la filosofia che, secondo me, guida l'allestimento è il far parlare al presente documenti e immagini del passato: non ci sono cartoline dal passato ma - quasi - sguardi sull'oggi, se non addirittura sul domani.
I video originali, così, sono stati mescolati, manipolati, rimontati, in modo che emergessero dalle stesse immagini (sottolineate, evidenziate, decontestualizzate e ricontestualizzate con giochi grafici eleganti e non banali) ciò che le immagini non vorrebbero (o non avrebbero dovuto, per gli anni Trenta e Quaranta) dire.

Qui c'è un piccolo saggio di quello che voglio dire: appena un divertissement in realtà, giusto per lanciare la mostra.


Nonostante questa sia la parte migliore della mostra (la regia dei video è di Roland Sejko), è anche la parte in cui si riscontrano alcuni problemi, soprattutto di audio: problemi di allestimento, dunque, mi viene da pensare. In effetti spesso l'audio dei diversi video si sovrappone, creando non poca confusione.
Ma, in realtà (e credo del tutto involontariamente), questo difetto finisce per enfatizzare il rimescolamento che è stato realizzato nei video, accentuando quella ri-semantizzazione delle immagini a cui accennavo prima: così, in una sala dedicata ai video di Mussolini, l'audio che accompagna la carrellata delle facce del Duce che si accinge a parlare alla folla è quello del video che lo fronteggia dall'altra parte del corridoio, dedicato ai cambiamenti del costume: si innesca un cortocircuito straniante ma terribilmente efficace che dà un senso nuovo alle espressioni di Mussolini, viste mille e mille volte nei mille e mille documentari a lui dedicati.
E, per inciso, anche in questo caso gli autori hanno saputo guardare oltre il luogo comune: il luogo comune (per il loro abuso nella storia "televisiva") sono, appunto, i discorsi di Mussolini, già visti e ascoltati decine e decine di volte a partire dall'antico (1998) Parla Mussolini di Nicola Caracciolo. Ma qui si vedono solo gli intermezzi, le attese, i silenzi, l'avvio (muto) dei discorsi o la loro conclusione, come se gli autori avessero voluto sottolineare che sono state soprattutto quelle espressioni, quelle posture, quelle mimiche, più che i contenuti dei discorsi che esse punteggiavano, a depositarsi nel nostro immaginario.

Un altro problema riguarda gli anni Sessanta e Settanta, perché qui l'immaginario degli italiani cambia anche - e soprattutto - per mezzo della televisione. E la televisione è - gioco forza - assente (o quasi) nei materiali dell'Archivio Luce (che poi sono anche i cinegiornali della Settimana Incom e tutte le altre acquisizioni che negli anni l'Istituto ha potuto fare).
Ancora una volta gli autori cercano di superare il problema giocando sull'allestimento, con pannelli video di grande effetto nei quali ci si perderebbe volentieri.
E tuttavia rimane il problema di fondo che è stato soprattutto l'immaginario italiano della prima metà del Novecento ad essere attraversato e modellato - addirittura, in qualche misura, anche fondato - dal Luce. Il suo ruolo nel dopoguerra diventa sempre più marginale e, per quanto i curatori ne siano pienamente consapevoli e siano bravi ad indicare altri percorsi (come quello che vede il Luce produttore cinematografico, o fotografo), l'immaginario nella seconda metà del secolo c'è solo in parte. Li aiuta, certo, il fatto che concentrarsi sull'immaginario abbia voluto dire allontanarsi metaforicamente dalla storia politica per concentrarsi soprattutto su quella sociale (con ampie aperture al costume), cosa che gli permette di sfruttare al meglio le immagini degli anni Sessanta e Settanta quando i cinegiornali hanno sempre più come modello il rotocalco e sempre meno il quotidiano: ma le assenze si sentono.
Così come si sente, almeno in qualche sezione, la mancanza di didascalie che indichino gli autori dei filmati originali: certo, il lavoro di ricontestualizzazione dei video è in contrasto concettuale con questo tipo di didascalie filologiche; e tuttavia la sala d'ingresso (dedicata ai primissimi video Luce, di natura educativa) e quella riservata ai documentari "d'autore" si sarebbero senz'altro giovate di questa ulteriore informazione.

Ma, in fin dei conti, sono poche e marginali osservazioni critiche (anche se qualcun'altra se ne potrebbe fare) di fronte ad un lavoro notevole che ha il suo maggior pregio nel far "vivere" l'archivio Luce, facendolo parlare al presente e non più solo al passato.
 
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