29 giugno 2013, ore 19, presso Citylights

Ecco, quella è la data della prima presentazione del libro Le parole e le figure che i 15 lettori di questo blog (e un po' di studenti di qualche università italiana) conoscono bene.
Certo, presentare viene da praesens, presente, mentre questo incontro avviene quasi un anno dopo la pubblicazione del libro: un po' in ritardo, dunque. Ma tant'è. Il proprietario (oddìo che brutta parola per una persona che è più che altro un ospite) della libreria-circolo culturale Citylights di Pescara, Filippo Montefusco, è stato così gentile da organizzare per me questo incontro e sono molto curioso di vedere come andrà. Per inciso, la sua libreria-caffé è uno di quei bei posti che trovi dove non ti aspetteresti mai: nel caso specifico tra una sopraelevata, un magazzino e un call-center, in uno di quegli strani angoli di città che, pur essendo centrali, sembrano piena periferia. E questo suo essere inaspettata e accogliente, la rende ancora più preziosa.
Però quello di cui volevo dirvi non è questo.
È che annunciando l'incontro, avevo preparato un piccolo, scherzoso invito, che giocasse con il tempo, con l'epoca raccontata nel libro, e l'avevo messo su facebook.
Eccolo qui.

Poi c'ho preso gusto e ne ho fatto un altro,  stavolta un po' più "moderno", usando il più arcaico dei moderni sistemi di comunicazione pubblicitaria
E infine, ieri, un altro ancora, reimpiegando una copertina del 1924 di Radio News.
Solo che qui si è innescato un fantastico cortocircuito culturale, di quelli che attraversano la storia dei media, dei consumi culturali e dell'immaginario collettivo. Perché quell'idea della "visione a distanza", così futuribile nel 1924, rinviava già allora ad idee precedenti come quelle del telefonoscopio di Robida. E sembra - oggi - fare concorrenza a quelle fantastiche e fittizie pubblicità vintage dei new media come quella che vedete qui sotto (oltre a skype ci sono anche quelle di youtube, di facebook ecc).
Coincidenze divententi, ma anche suggestioni che permettono di cogliere alcune dinamiche del modo in cui media e modernità sono presenti nel nostro immaginario collettivo. Cose di cui, magari, potremmo anche parlare domani sera, se vi andrà di venire.

Breaking News: (sabato 29, ore 11,30)
mi avvisano da Citylights che l'appuntamento è anticipato alle 18,30.
Lo prendo come un buon segno: spero voglia dire che chi condurrà l'incontro pensi ci siano molte cose di cui parlare.


In scomparsa di Silvio Lanaro

Ho saputo da poco che non molte ore fa è scomparso Silvio Lanaro.
Verrà il tempo delle commemorazioni, dei necrologi sui quotidiani, dei numeri speciali delle riviste dedicati alla sua memoria.
E verrà, per chi ne sarà capace, anche il tempo della riflessione sull'importanza del suo lavoro per la storia italiana.
Qui, ora, per me è solo il tempo del ricordo minimo, come spesso accade quando si apprendono notizie del genere.
Potrei dire infatti che Silvio Lanaro era l'autore di una Storia dell'Italia repubblicana che a lungo è stata - e che tuttora è, nonostante molti altri studi - una delle più importanti e influenti ricostruzioni delle vicende recenti del nostro paese. Oppure che il suo Nazione e lavoro, è uno dei saggi più illuminanti sulla cultura borghese del nostro paese.
Eppure non è quello che mi è venuto alla mente sapendo della sua scomparsa.
A me è venuto in mente l'incipit di un libro forse minore ma che andrebbe riscoperto: Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi. Un libro che lo stesso Lanaro scriveva nella premessa di non sapere bene che cosa fosse, e che forse era solo
il diario intellettuale di uno studioso che da oltre trent'anni prova smarrimento di fronte alla pagina bianca ogni volta che ha diligentemente termnato di raccogliere materiali. Il mio è un problema di scrittura, insomma. Ma scrittura non vuole dire solo efficacia comunicativa, rigore di argomentazione, rapporto corretto con le fonti, eleganza stilistica: vuol dire anche, e soprattutto, confronto con le tecniche adoperate da altri, con le testimonianze che difficilmente si lasciano sopraffare, con tutti i generi letterari improntati alla narrazione di accadimenti reali, con l'angoscioso dilemma dei silenzi, delle rimozioni e dei tabù imposti da una qualsiasi censura collettiva, con la mutevolezza e l'aleatorietà di un lessico mutuato spesso da altre discipline. Si prenda dunque il libro per quello che è: un vagabondaggio nelle regioni in cui si affolla il passato che vive, spero non troppo arbitrario e non troppo incoerente.
Ecco: in questa premessa ad un testo complesso, ricco di cultura e di riflessione, ricercato nel lessico, ma anche pieno di ironia, c'è il mestiere di storico che io ho spesso riletto nelle pagine di Lanaro (e che ho avuto il piacere di sentire dalla sua voce quando mi è capitato di incontrarlo). Ma, accanto allo studioso, c'è anche l'uomo, di una statura così elevata da non rinnegare quell'umano horror vacui che prova chiunque abbia a che fare con la scrittura (e che spingeva lui alla ricercatezza formale, mentre conduce noi, spesso più di quanto non dovrebbe essere lecito attendersi, all'approssimazione e allo sperpero delle parole). E di una ironia così corrosiva che gli consente di chiedersi, in un altro passaggio dello stesso libro:
Ma allora, alla fin fine, che cosa distingue la figura dello storico? Chi può legittimamente fregiarsi di questo titolo? Quali sono i requisiti che deve possedere? (...) E soprattutto - poiché fra coloro che esercitano questa attività dalle frontiere mobili esistono più dilettanti che fra i pittori, i letterati o i musicisti - una pretesa "scienza" è solo sapiente artigianato o addirittura banale bricolage?
Se volete una risposta a questa domanda riprendete in mano i suoi libri: la troverete là, in ogni singola riga.


Il segno di una resa invincibile, venticinque anni dopo

Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1988 Pazienza, contrariamente a quanto amava dire (la pazienza ha un limite... Pazienza no), mostrava di avere un limite. Un limite che aveva già raggiunto molte volte ma che allora superava. Per non tornare più indietro.

Per me Andrea Pazienza ha significato qualcosa che potrei paragonare all'adolescenza o, se preferite un'evocazione di sapore conradiano, al varcare la linea d'ombra: a quel passo che ti porta in un altro mondo, da cui sei allo stesso tempo affascinato e respinto.
Pazienza era affascinante. E terrorizzante.
E terrorizzante perché affascinante. E affascinante perché terrorizzante. (E se non avete capito non avete mai letto le storie di Zanardi oppure Pompeo: oppure li avete letti quando era ormai troppo tardi)

Io, fra l'altro, l'ho incontrato quando era già - diciamo così - "normalizzato": sulle pagine di "Corto Maltese" e di "Comic Art", se non ricordo male.
Era già un Pazienza diverso da quello del "Male", che ho recuperato dopo, con pazienza (e scusate il facile gioco di parole) nelle raccolte o guardando le collezioni di quella storica rivista (e chiedendomi sempre - e sempre senza riuscire a darmi una risposta - come doveva essere leggerla allora, in quegli anni, respirando quell'aria...).
Ma il suo era comunque un segno che apriva mondi: ti faceva vedere per intero qualcosa che faceva capolino anche nella tua esistenza, ma che coglievi al massimo come un movimento fugace ai confini della visione. Come la sagoma di uno squalo sotto il pelo dell'acqua, per dire.

Sarà perché mi è difficile staccarmi da questa prospettiva individuale (e c'entra anche la questione dell'adolescenza), ma io ho sempre sentito Andrea Pazienza come un cantore - o, meglio, un testimone - degli anni '80 più che del '77, come spesso si dice. Ma un testimone in buona misura preveggente: capace di cogliere l'individualismo e l'egoismo; la ricerca del piacere individuale; il crollo dei confini fra il bene collettivo e quello privato, a tutto vantaggio di quest'ultimo; e, in fin dei conti, anche l'atomizzarsi della società, già in quello scampolo di anni Settanta che raccontava con un tratto ancora fortemente influenzato da Moebius ma già fortemente originale.

Tempo fa ho letto un interessante articolo che parlava di una storia cruciale nella produzione di Pazienza, Lupi del 1984, come il punto di passaggio, e il ponte, fra anni Settanta e anni Ottanta (non lo trovo più in rete: mi limito, per chi fosse interessato, a mettere qui un suo riflesso).
Ecco: anch'io penso che Andrea Pazienza sia stato
il ritrattista emotivo di una parabola storica che va dalla festa libertaria degli anni settanta a quella liberista degli ottanta.
Ma penso anche che egli avesse "sentito" (confusamente, irregolarmente, sentito) questa parabola già nei lavori degli anni Settanta. Perché in quello scorcio di tempo, nonostante la Bologna creativa, nonostante la Milano dell'industria culturale, nonostante il movimento studentesco, tutti luoghi da lui frequentati e raccontati in quello strano modo partecipe/distaccato che gli era proprio, quei segni già c'erano.
Ora che si sta finalmente iniziando a studiare a fondo, e in modo nuovo, il passaggio fra anni Settanta e anni Ottanta (per esempio nei lavori di Guido Crainz, Il paese reale e di Fausto Colombo, Il paese leggero, per dire gli ultimi che ho letto) Andrea Pazienza dovrà avere il suo posto fra le fonti di questa nostra storia.


Ah, per chi non l'avesse colto, il riferimento del titolo è ad una storia pubblicata nel 1983, che si chiude in questo modo:
Se ne andò così, per un insulto cardiaco, all'età di ventotto anni. Osservando la sua foto sulla tomba, mi chiesi se il cuore fosse davvero un muscolo involontario e se quella morte non fosse il segno di una resa invincibile
Allontanate pure da voi, se volete e ci riuscite, la facile e ineluttabile suggestione del parallelismo fra arte e vita.

 
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