Il segno di una resa invincibile, venticinque anni dopo

Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1988 Pazienza, contrariamente a quanto amava dire (la pazienza ha un limite... Pazienza no), mostrava di avere un limite. Un limite che aveva già raggiunto molte volte ma che allora superava. Per non tornare più indietro.

Per me Andrea Pazienza ha significato qualcosa che potrei paragonare all'adolescenza o, se preferite un'evocazione di sapore conradiano, al varcare la linea d'ombra: a quel passo che ti porta in un altro mondo, da cui sei allo stesso tempo affascinato e respinto.
Pazienza era affascinante. E terrorizzante.
E terrorizzante perché affascinante. E affascinante perché terrorizzante. (E se non avete capito non avete mai letto le storie di Zanardi oppure Pompeo: oppure li avete letti quando era ormai troppo tardi)

Io, fra l'altro, l'ho incontrato quando era già - diciamo così - "normalizzato": sulle pagine di "Corto Maltese" e di "Comic Art", se non ricordo male.
Era già un Pazienza diverso da quello del "Male", che ho recuperato dopo, con pazienza (e scusate il facile gioco di parole) nelle raccolte o guardando le collezioni di quella storica rivista (e chiedendomi sempre - e sempre senza riuscire a darmi una risposta - come doveva essere leggerla allora, in quegli anni, respirando quell'aria...).
Ma il suo era comunque un segno che apriva mondi: ti faceva vedere per intero qualcosa che faceva capolino anche nella tua esistenza, ma che coglievi al massimo come un movimento fugace ai confini della visione. Come la sagoma di uno squalo sotto il pelo dell'acqua, per dire.

Sarà perché mi è difficile staccarmi da questa prospettiva individuale (e c'entra anche la questione dell'adolescenza), ma io ho sempre sentito Andrea Pazienza come un cantore - o, meglio, un testimone - degli anni '80 più che del '77, come spesso si dice. Ma un testimone in buona misura preveggente: capace di cogliere l'individualismo e l'egoismo; la ricerca del piacere individuale; il crollo dei confini fra il bene collettivo e quello privato, a tutto vantaggio di quest'ultimo; e, in fin dei conti, anche l'atomizzarsi della società, già in quello scampolo di anni Settanta che raccontava con un tratto ancora fortemente influenzato da Moebius ma già fortemente originale.

Tempo fa ho letto un interessante articolo che parlava di una storia cruciale nella produzione di Pazienza, Lupi del 1984, come il punto di passaggio, e il ponte, fra anni Settanta e anni Ottanta (non lo trovo più in rete: mi limito, per chi fosse interessato, a mettere qui un suo riflesso).
Ecco: anch'io penso che Andrea Pazienza sia stato
il ritrattista emotivo di una parabola storica che va dalla festa libertaria degli anni settanta a quella liberista degli ottanta.
Ma penso anche che egli avesse "sentito" (confusamente, irregolarmente, sentito) questa parabola già nei lavori degli anni Settanta. Perché in quello scorcio di tempo, nonostante la Bologna creativa, nonostante la Milano dell'industria culturale, nonostante il movimento studentesco, tutti luoghi da lui frequentati e raccontati in quello strano modo partecipe/distaccato che gli era proprio, quei segni già c'erano.
Ora che si sta finalmente iniziando a studiare a fondo, e in modo nuovo, il passaggio fra anni Settanta e anni Ottanta (per esempio nei lavori di Guido Crainz, Il paese reale e di Fausto Colombo, Il paese leggero, per dire gli ultimi che ho letto) Andrea Pazienza dovrà avere il suo posto fra le fonti di questa nostra storia.


Ah, per chi non l'avesse colto, il riferimento del titolo è ad una storia pubblicata nel 1983, che si chiude in questo modo:
Se ne andò così, per un insulto cardiaco, all'età di ventotto anni. Osservando la sua foto sulla tomba, mi chiesi se il cuore fosse davvero un muscolo involontario e se quella morte non fosse il segno di una resa invincibile
Allontanate pure da voi, se volete e ci riuscite, la facile e ineluttabile suggestione del parallelismo fra arte e vita.

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