La protesta sale...

In cima ai tetti, oltre che nelle piazze, studenti e ricercatori continuano a dire che il disegno di legge in discussione in Parlamento non migliorerà l'università. Molti sono i commenti interessanti che leggo. Moltissime le sciocchezze, qualcuna veramente raccapricciante. E di questo non merita parlare.
Invece quello che mi ha colpito nei giorni scorsi sono alcune delle modalità della protesta.
Partiamo dall'ascesa ai tetti.
Ho letto una intervista a Massimiliano Tabusi, ricercatore quarantaduenne, che studia geografia. È quello che ha proposto di salire sui tetti. E lo spiega così:
...salire sui tetti altera il rapporto tra posizione e funzione. Se un operaio sta dentro la fabbrica è coerente con la sua funzione, allo stesso modo di un ricercatore nell'università, se invece sale sul tetto crea una contraddizione. Dice: sono più importante di quello che c'è sotto, dello spazio vuoto (...) Nello stesso tempo, se ci sali sopra rafforzi anche il rapporto con quell'istituzione. Noi segnaliamo che siamo sopra all'università e che la realtà è diversa da come viene raccontata.
Mi è piaciuta molto questa analisi. Punta diritta al simbolo, che i mass media raccolgono e amplificano, forse senza nemmeno accorgersene.
Sarà forse perché i primi ha salire in alto per esprimere la loro protesta sono stati, negli ultimi anni, gli operai, ma mi ha fatto venire in mente il modo in cui sono cambiati i cortei nei decenni. Da quelli ordinati e composti degli anni Cinquanta, quando gli operai non si spostavano dai dintorni delle fabbriche o, se lo facevano, coordinavano il traffico per non arrecare troppo disturbo, a quelli sempre più chiassosi e "invasivi" dei decenni successivi. Allora gli operai cominciavano a mutuare alcune delle forme della protesta studentesca, utilizzando sit-in e coreografie sempre più complesse.
Il discorso sarebbe troppo lungo, e quello che mi interessa ora sottolineare è la forza simbolica dell'"invasione" delle città da parte dei cortei operai: era un modo per "riprendersi la città", come recitava una delle parole d'ordine degli anni Settanta, per invadere gli scenari della vita quotidiana da cui si sentivano esclusi. Sul piano simbolico, questa "invasione" spaventava perché rappresentava un sovvertimento dell'ordine. E, naturalmente, diventava un modo per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica.
Salire sui tetti, oggi, ha dunque lo stesso impatto simbolico. "Normalizzati" i cortei (a Roma si continua a discutere se vietarli per non perturbare il difficile equilibrio cittadino legati ai flussi di traffico: se dovesse succedere, è facile immaginare che ci sarebbero molti più cortei di quanti non ce ne siano oggi), la via di fuga per esprimere dissenso non resta che il cielo: salire in alto per farsi guardare.
Ma pare che ci sia anche qualcos'altro.
Infatti un gruppo di studenti ha tentato anche di entrare in Parlamento, suscitando riprovazione bipartisan, come scriverebbe un giornalista senza fantasia. Ma, nello stesso tempo, in un'altra parte d'Italia, altri cittadini in protesta volevano entrare in un municipio.
Il giorno dopo, con l'ironia e l'esperienza di chi ci ha creduto in quegli stessi miti e ha accarezzato quegli stessi sogni, Adriano Sofri ha scritto che l'assalto al Palazzo è una vecchia idea che ritorna in modo superfluo
perchè i Palazzi, ad arrivarci dentro, si scoprono vuoti. E a restarci dentri, ci si scopre vuoti, o peggio. (Quei ragazzi sul tetto di un Paese senza poeti, "La Repubblica", 27/11/2010)
Però a me ha colpito, questo ritorno all'assalto al Palazzo, anche solo simbolico.
E non sono così convinto che chi lo ha fatto abbia in mente il mito novecentesco dell'assalto al Palazzo d'Inverno.
Piuttosto, mi viene il dubbio che in questo gesto ci sia un tentativo di colmare - simbolicamente - la distanza fra un popolo che, retoricamente, si vuole protagonista della scena pubblica, e una classe politica che sembra invece allontanarsi sempre più dalla società.
Forse alcuni hanno avuto il dubbio che il Palazzo sia vuoto,  e per questo hanno deciso di andare a vedere.
Non è un tentativo di sostituirsi alla classe politica. E' un modo per dire: eccoci qui, parlate a nome nostro ma non sapete nemmeno che faccia abbiamo.
Noi siamo questi.
Cercate di tenerne conto da ora in poi.

L'Aquila ha chiamato, l'Italia ha risposto

Cinquemila, tredicimila o ventimila, in ogni caso a L'Aquila il 20 novembre c'era tanta gente. C'era anche tanta pioggia, ma questo non ha frenato la partecipazione.
C'erano anche tante telecamere e macchine fotografiche. Troppe in confronto a quelle scarne immagini che ci hanno mostrato la maggior parte dei telegiornali.
Questo è quello che ho visto io. Una parte perlomeno. La qualità del video è quella che è (prendetevela con YouTube, che ieri mi ha fatto perdere l'intera giornata per caricare qualcosa con una qualità decente e poi ha deciso di mandare tutto in crash) ma spero che sia in grado di dare quel senso di partecipazione che si respirava, quella voglia di continuare a vivere la città nonostante tutto. Per questo la musica.

E a proposito di musica, forse qualcuno si chiederà la ragione della scelta.
È una canzone di questua che si canta all'inizio dell'anno e che augura benessere, salute e abbondanza: si chiama Bonnì bonn'anne e, che io sappia, è tipica proprio dell'aquilano.
Una speranza oltre che un augurio.
L'esecuzione, per inciso, è quella del gruppo Lu Passagalle: Claudio (Di Silvestre) non me ne vorrà se me ne sono appropriato una seconda volta.

L'Aquila chiama Italia

Ancora una volta qualcuno cerca di far sentire la propria voce.
Di dire che le cose non stanno esattamente come le hanno raccontate.
Di parlare del futuro, più che del passato.
Ancora una volta, oggi, L'Aquila chiama Italia.

Una parte dell'Italia ha già risposto.
Una parte si sta muovendo in queste ore per andare lì, e unire la propria voce a quella degli aquilani.


Anch'io vado. Per sentire, per vedere ancora una volta, e per unire la mia voce a quella di un coro sempre più forte.
Poi vi racconto.

seminando da Fermo (ripresa, con un pensiero a Brescia)

Torno sul tema dell'ultimo post e parto da Fermo.
La città, intendo. Che è bellissima.
Ed è stato un piacere camminare in quelle strade lastricate, stretto dai muri delle case, fino ad arrivare alla sede della Facoltà di Beni culturali. E poi entrare in quel palazzo, anch'esso bellissimo, ristrutturato di recente: dev'essere un piacere studiarci e lavorarci.
La platea è stata molto attenta, e se devo valutare da come correvano le penne sui fogli, quello che dicevo doveva essere interessante. O magari no, magari scrivevano per non dormire. E qualche ragione l'avrebbero pure avuta, visto che siamo andati avanti per più di due ore senza fermarci mai.

Inizialmente avrei voluto provare ad annoiare pure voi, raccontandovi quello di cui ho parlato. Ma in quelle ore una Corte d'Assise, a Brescia, stava pronunciando il risultato di una settimana di camera di consiglio, due anni di dibattimento e centosessantasei udienze. Era il processo per la strage di Piazza della Loggia, a Brescia, il 28 maggio del 1974.
Otto morti.
Centouno feriti.
Cinque imputati assolti ai sensi dell'articolo 530, comma 2, "perché la prova manca, è insufficiente o contraddittoria".

E adesso ci sono altri fantasmi che si aggirano per la nostra storia nazionale.
Un tunnel di fatti, processi e depistaggi che ieri Benedetta Tobagi ha ben raccontato su Repubblica. Leggetela qui.
E poi tornate da me, che vi racconto un altro pezzo di quella storia. Una cosa a cui ho accennato ai ragazzi di Fermo, e - chissà - se mai qualcuno di loro dovesse capitare da queste parti, forse gli farebbe piacere saperne un po' di più.
Nelle ore e nei giorni successivi alla strage gli operai riuniti in assemblea permanente, insieme a tutti i rappresentanti delle forze antifasciste, decidono di occupare la città, di presidiarla, di assumere su di sé l'onere del controllo: volevano, ha scritto Claudio Sabattini, allora segretario della Fiom bresciana,
tenere occupata Piazza Loggia per tutta la settimana: cioè uscire ora dalle fabbriche e collegarsi alla città. 
Due giorni dopo la strage, sulle pagine de "Il Giorno", Natalia Aspesi scriveva
Brescia ha occupato oggi la piazza, l'ha occupata spontaneamente senza chiedere permesso a nessuno, con la forza dei suoi diritti e la sua disperazione, Non un poliziotto o un carabiniere in giro; solo, attento e instancabile, il servizio d'ordine organizzato dalle tre confederazioni sindacali per evitare ogni provocazione.
In quei giorni la forza operaia e sindacale si manifesta con pienezza: la città appare controllata da un vero "governo operaio" che si sostituisce all'amministrazione cittadina, alle forze dell'ordine e si confronta da pari a pari con le istituzioni statali. Quando arrivano il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e le altre autorità per i funerali sono le rappresentanze operaie ad accoglierle, esautorando di fatto le forze dell'ordine dal controllo della città: "soltanto noi abbiamo la forza e gli uomini necessari per far rispettare l'ordine", dicono i sindacalisti. E anche il cordone di sicurezza del capo dello Stato è fatto da operai.
È il momento in cui si manifesta una delle vie possibili con cui affrontare l'incipiente crisi della Repubblica, i cui tratti si stanno già delineando. "L'Unità" scriveva, nel giorno dei funerali delle vittime:
Ieri a Brescia fisicamente era evidente il ruolo che la classe operaia (...) [ha] assunto a salvaguardia della democrazia costituzionale e a difesa dell'avvenire della nazione. È, questa, una forza che sa di essere essa medesima la garanzia delle conquiste democratiche del Paese e che, dunque, di fronte all'incapacità, alla debolezza o, peggio, al cedimento dei pubblici poteri di fronte all'eversione fascista, ha saputo esercitare fino in fondo la propria funzione.
Però, questa "sostituzione" dello Stato è mescolata al suo rifiuto che si manifesta con i fischi che accolgono il sindaco e i rappresentanti politici. Non è solo la piazza a fischiare, ma anche gli stessi operai che compongono il servizio d'ordine. E la televisione, già allora testimone del tempo e agente di storia, ne amplifica la forza simbolica facendoli sentire nei servizi del telegiornale.
Si contrappongo in quella piazza una "società civile" e le istituzioni che dovrebbero guidarla, e la prima sembra voler esautorare la seconda perchè non le crede più, come scriverà qualche settimana dopo Giuliano Zincone sulle pagine del "Corriere della Sera":
i lavoratori non credono nella buona fede del governo e nelle promesse democristiane.
E dicono che
"chi governa non solo si dimostra incapace di andare incontro agli interessi della popolazione, ma mostra anche un volto ambiguo, una preoccupazione forsennata di comando ad ogni costo, senza assumersi responsabilità".
In quei giorni la repubblica si trova su un crinale.
E comincia a scivolare, spinta dall'incapacità delle istituzioni di dare una risposta radicale e immediata alle nubi di crisi che si accumulavano all'orizzonte. In pochi anni, nel vuoto istituzionale, il sistema dei partiti sembrerà avere le risposte adatte. Mentre il sindacato e il movimento operaio si riveleranno fragili, incapaci di gestire le trasformazioni sociali ed ecomiche, impossibilitati a trasformare la politica. E anche per loro, comincerà la discesa.

seminando da Fermo

Allora: oggi sono a Fermo, ospite dell'Università di Macerata (facoltà di Beni culturali) e di Silvia Casilio.

Poi vi racconto.

Il gioco degli elenchi (Vieni via con me)

Ascolti record per "Vieni via con me". Garimberti: "Grande esercizio di libertà" (la Repubblica)
Ecco il teorema-Saviano: il Giornale come la mafia (il Giornale)
Saviano: democrazia a rischio per la "macchina del fango" (La Stampa)
Saviano sparge fango e noia (Libero)
Uragano Saviano-Benigni Monologhi contro il fango (L'Unità)
La tv dei faziosi contro il cavaliere (Il Tempo)
Tv, record di ascolti per la trasmissione di Saviano e Fazio: oltre 7,6 milioni (Il Corriere della Sera)

L'invenzione narrativa e retorica degli elenchi con i quali è stata costruita la prima puntata di Vieni via con me, il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano iniziato ieri (ma sarebbe giusto ricordare anche gli altri autori: Pietro Galeotti, Marco Posani, Francesco Piccolo, Michele Serra, Loris Mazzetti, così tantoper rimanere in tema di elenchi) mi è piaciuta così tanto che ho voluto usarla per aprire questo post.
Ecco, quelli sono i titoli - alcuni dei titoli - con cui i giornali di oggi hanno raccontato la serata televisiva di ieri. E mi sembra che descrivano esaurientemente il panorama in cui ci muoviamo. Se qualcuno fosse curioso di conoscere il contenuto di quegli articoli potrebbe seguire i link. E' tutto lì, e io non aggiungerò una parola di più.
Vorrei solo dirvi che cosa mi è piaciuto di quello che ho visto ieri sera.
Forse non è la stessa cosa che è piaciuta agli altri milioni di persone che stavano insieme a me davanti alla tv. O forse no, chissà.
A me sono piaciute due cose. Due cose che in tv non si vedono spesso, almeno non insieme.
L'emozione e il pudore.
E in particolare mi è piaciuto il pudore per le proprie emozioni.
Una cosa rara da vedere. C'erano persone che si mettevano in gioco, e magari sbagliavano. Ma avevano qualcosa da dire.
E questo, secondo me, per ora basta.

arriva la cavalleria leggera

Domani, martedì 9 novembre, faccio la mia prima lezione al corso del Laboratorio di comunicazione multimediale.
Sarà dedicata alla radio, che Peppino Ortoleva ha definito tempo fa con una metafora memorabile: la cavalleria leggera della comunicazione.
Non sarà solo una lezione di storia della radio (per quello ci sarà tempo, anche in altri corsi), sebbene per parlare di radio non si possa evitare di raccontarne, almeno a grandissime linee, anche la storia.
Sarà una lezione in bilico fra storia e linguaggio, in particolare per quello che riguarda il documentario radiofonico, che arriverà fino ad oggi e a quella cosa che oggi ascoltiamo su internet e che continuiamo a chiamare radio solo perché non sappiamo trovarle un nome migliore, oppure siamo troppo pigri per farlo. Di che sto parlando? Andate qui per farvene un'idea e poi apriamo il dibattito.

Nel corso della lezione ascolteremo alcuni documentari radiofonici e li sottoporremo ad autopsia, cercando di sezionarli nelle loro componenti principali.
La mia speranza è che qualcuno decida di realizzare un documentario radiofonico come progetto del corso, sempre che io riesca a fargli apprezzare la forza narrativa e di approfondimentodi questo genere non troppo frequentato: se riuscirò nel mio intento lo scopriremo solo domani e dopodomani.
Non è detto che seguendo l'impeto della carica della cavalleria leggera della comunicazione, questo ipotetico coraggioso non finisca per ritrovarsi qui, nel cantiere di Radio Tre, un posto che vi consiglio di visitare per scoprire nuove strade e nuove forme della comunicazione via radio.

la disponibilità degli indisponibili

Avevo detto in un post precedente che sarei tornato su questo strano fenomeno della disponibilità degli indisponibili.
Eccomi allora.
La promessa riforma dell'Università, fortemente voluta dal ministro Gelmini, ha incontrato lungo il suo cammino due fondamentali ostacoli: la mancanza di fondi e il dissenso di una parte dell'università. Il perché solo una parte dell'università sia contraria ad una riforma che riduce i fondi, non rende più trasparente il reclutamento e sclerotizza le scelte, oltre a rendere le università ancora più dipendenti dalla politica locale è spiegato molto chiaramente in questo articolo (I ricercartori e la riforma Gelmini, o "del prendere coscienza di sé"), a cui vi rimando.
La parte che si è opposta con forza sono stati i ricercatori, che hanno applicato alla loro attività il principio dello sciopero bianco: faccio solo quello che devo. Dichiarando la loro indisponibilità a sostenere quelle ore di didattica che hanno sempre fatto ma che non erano tenuti a fare, hanno messo in crisi l'intero meccanismo, mostrando - innanzitutto - che il loro ruolo (non riconosciuto ufficialmente e ancora più sminuito - o meglio annullato - dalla nuova riforma) è essenziale, e, in secondo luogo, che l'università si regge in gran parte sulle loro spalle.
Questo sembra aver indotto qualcuno sul piano nazionale a riflettere meglio sulle linee portanti di una riforma che, così com'è concepita, taglia il ramo su cui siede l'università. E sembra aver portato qualche piccola novità anche sul piano locale.
E qui veniamo al punto.
Perché la situazione all'università di Teramo, come in molte altre piccole università, è particolarmente complicata, visto che la quota dei ricercatori è molto alta e che buona parte dei corsi si reggono sulle loro spalle. Ci sono alcuni anni di corso le cui lezioni sono interamente affidate ai ricercatori. La loro - la nostra - indisponibilità non impedisce solamente l'avvio regolare delle lezioni, ma rischia anche di mettere in forse la prosecuzione di alcuni corsi di laurea.
E allora abbiamo dovuto scegliere di fare come fanno gli operai addetti agli altoforni a ciclo continuo: qualcuno si deve sacrificare per il bene di tutti ed evitare che gli altoforni si spengano, pena la diminuzione della loro aspettativa di vita. Se ne è discusso con gli altri ricercatori e con la presidenza e si è arrivati a questo compromesso: alcuni ricercatori, con il consenso e il mandato di tutti gli altri, revocano la propia indisponibilità limitatamente ad alcuni corsi, consentendo così l'avvio di tutti gli anni dei diversi percorsi di studio.
In pratica teniamo acceso l'altoforno.
 
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