seminando da Fermo (ripresa, con un pensiero a Brescia)

Torno sul tema dell'ultimo post e parto da Fermo.
La città, intendo. Che è bellissima.
Ed è stato un piacere camminare in quelle strade lastricate, stretto dai muri delle case, fino ad arrivare alla sede della Facoltà di Beni culturali. E poi entrare in quel palazzo, anch'esso bellissimo, ristrutturato di recente: dev'essere un piacere studiarci e lavorarci.
La platea è stata molto attenta, e se devo valutare da come correvano le penne sui fogli, quello che dicevo doveva essere interessante. O magari no, magari scrivevano per non dormire. E qualche ragione l'avrebbero pure avuta, visto che siamo andati avanti per più di due ore senza fermarci mai.

Inizialmente avrei voluto provare ad annoiare pure voi, raccontandovi quello di cui ho parlato. Ma in quelle ore una Corte d'Assise, a Brescia, stava pronunciando il risultato di una settimana di camera di consiglio, due anni di dibattimento e centosessantasei udienze. Era il processo per la strage di Piazza della Loggia, a Brescia, il 28 maggio del 1974.
Otto morti.
Centouno feriti.
Cinque imputati assolti ai sensi dell'articolo 530, comma 2, "perché la prova manca, è insufficiente o contraddittoria".

E adesso ci sono altri fantasmi che si aggirano per la nostra storia nazionale.
Un tunnel di fatti, processi e depistaggi che ieri Benedetta Tobagi ha ben raccontato su Repubblica. Leggetela qui.
E poi tornate da me, che vi racconto un altro pezzo di quella storia. Una cosa a cui ho accennato ai ragazzi di Fermo, e - chissà - se mai qualcuno di loro dovesse capitare da queste parti, forse gli farebbe piacere saperne un po' di più.
Nelle ore e nei giorni successivi alla strage gli operai riuniti in assemblea permanente, insieme a tutti i rappresentanti delle forze antifasciste, decidono di occupare la città, di presidiarla, di assumere su di sé l'onere del controllo: volevano, ha scritto Claudio Sabattini, allora segretario della Fiom bresciana,
tenere occupata Piazza Loggia per tutta la settimana: cioè uscire ora dalle fabbriche e collegarsi alla città. 
Due giorni dopo la strage, sulle pagine de "Il Giorno", Natalia Aspesi scriveva
Brescia ha occupato oggi la piazza, l'ha occupata spontaneamente senza chiedere permesso a nessuno, con la forza dei suoi diritti e la sua disperazione, Non un poliziotto o un carabiniere in giro; solo, attento e instancabile, il servizio d'ordine organizzato dalle tre confederazioni sindacali per evitare ogni provocazione.
In quei giorni la forza operaia e sindacale si manifesta con pienezza: la città appare controllata da un vero "governo operaio" che si sostituisce all'amministrazione cittadina, alle forze dell'ordine e si confronta da pari a pari con le istituzioni statali. Quando arrivano il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e le altre autorità per i funerali sono le rappresentanze operaie ad accoglierle, esautorando di fatto le forze dell'ordine dal controllo della città: "soltanto noi abbiamo la forza e gli uomini necessari per far rispettare l'ordine", dicono i sindacalisti. E anche il cordone di sicurezza del capo dello Stato è fatto da operai.
È il momento in cui si manifesta una delle vie possibili con cui affrontare l'incipiente crisi della Repubblica, i cui tratti si stanno già delineando. "L'Unità" scriveva, nel giorno dei funerali delle vittime:
Ieri a Brescia fisicamente era evidente il ruolo che la classe operaia (...) [ha] assunto a salvaguardia della democrazia costituzionale e a difesa dell'avvenire della nazione. È, questa, una forza che sa di essere essa medesima la garanzia delle conquiste democratiche del Paese e che, dunque, di fronte all'incapacità, alla debolezza o, peggio, al cedimento dei pubblici poteri di fronte all'eversione fascista, ha saputo esercitare fino in fondo la propria funzione.
Però, questa "sostituzione" dello Stato è mescolata al suo rifiuto che si manifesta con i fischi che accolgono il sindaco e i rappresentanti politici. Non è solo la piazza a fischiare, ma anche gli stessi operai che compongono il servizio d'ordine. E la televisione, già allora testimone del tempo e agente di storia, ne amplifica la forza simbolica facendoli sentire nei servizi del telegiornale.
Si contrappongo in quella piazza una "società civile" e le istituzioni che dovrebbero guidarla, e la prima sembra voler esautorare la seconda perchè non le crede più, come scriverà qualche settimana dopo Giuliano Zincone sulle pagine del "Corriere della Sera":
i lavoratori non credono nella buona fede del governo e nelle promesse democristiane.
E dicono che
"chi governa non solo si dimostra incapace di andare incontro agli interessi della popolazione, ma mostra anche un volto ambiguo, una preoccupazione forsennata di comando ad ogni costo, senza assumersi responsabilità".
In quei giorni la repubblica si trova su un crinale.
E comincia a scivolare, spinta dall'incapacità delle istituzioni di dare una risposta radicale e immediata alle nubi di crisi che si accumulavano all'orizzonte. In pochi anni, nel vuoto istituzionale, il sistema dei partiti sembrerà avere le risposte adatte. Mentre il sindacato e il movimento operaio si riveleranno fragili, incapaci di gestire le trasformazioni sociali ed ecomiche, impossibilitati a trasformare la politica. E anche per loro, comincerà la discesa.

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