Laboratorio di comunicazione multimediale a.a. 2010/2011

Un nuovo anno.
E due nuovi corsi.

L'agitazione dei ricercatori è ancora in corso, ma ne parleremo in un altro post.
Per ora vi scrivo il programma del Laboratorio di comunicazione multimediale che divido con Gabriele D'Autilia. E' un corso di secondo anno della laurea in Scienze della Comunicazione, comune ai due indirizzi di Scienze della Comunicazione e Comunicazione aziendale, pubblicità e marketing.
Questo è il programma.


Obiettivi generali
Il corso si propone di fornire una conoscenza sia teorica che pratica dei diversi media, digitali e analogici, e allo stesso tempo di sperimentare con gli studenti le loro diverse applicazioni, concentrandosi su un tema specifico.
Agli studenti verranno impartite le nozioni fondamentali, teoriche e pratiche, sui linguaggi della fotografia, del cinema, della radiofonia, del giornalismo digitale. Ci si dedicherà inoltre all’analisi della loro interazione in ambito digitale, attraverso l’esplorazione dell’universo dei new media.
Gran parte del corso sarà riservato all’applicazione pratica degli argomenti discussi a lezione. In questo contesto agli studenti sarà richiesto, utilizzando le strutture dei laboratori di facoltà, di produrre servizi fotografici, brevi audiovisivi, brevi programmi radiofonici e articoli giornalistici, che confluiranno infine in un prodotto per il web, sul tema attuale della realtà aquilana.
Su questo tema il corso avvierà un’inchiesta che, sviluppata lungo l’arco dei due moduli, confluirà in un prodotto multimediale diffuso in rete.

Obiettivi del primo modulo (Gabriele D’Autilia)
Oltre alla prima parte dedicata allo sviluppo dei prodotti di Laboratorio, il modulo sarà dedicato a due temi:
1) fotografia: verranno forniti agli studenti le nozioni fondamentali sulla storia e la tecnica della fotografia, analizzando in particolare gli aspetti legati al reportage
2) web 3.0: a partire dall’analisi critica del web 2.0, verranno descritte e analizzate le principali caratteristiche del web 3.0. Inoltre ci si soffermerà sul cruciale argomento della web usability e sulle tecniche di scrittura per il web.

Obiettivi del secondo modulo (Andrea Sangiovanni)
Oltre alla prima parte dedicata allo sviluppo dei prodotti di Laboratorio, il modulo sarà dedicato principalmente all’analisi dei seguenti media:
1) cinema, e in particolare il cinema documentario: agli studenti verranno fornite le nozioni fondamentali sulla sua storia e sul suo linguaggio, avvalendosi dell’ausilio di materiali audiovisivi. Ci si dedicherà in particolare ai rudimenti del montaggio audiovisivo.
2) radio: verranno fornite agli studenti le nozioni basi del linguaggio radiofonico e nel montaggio audio. Ci si dedicherà in particolare all’analisi di alcuni documentari radiofonici.
3) giornalismo digitale: a partire da una breve ricognizione della storia del giornalismo per il web, ci si dedicherà all’analisi delle caratteristiche della scrittura giornalistica per il web.

il lenzuolo bianco

Finora non ho parlato del delitto di Avetrana, per quanto ci sarebbe stato molto da dire. Non sul delitto, ma sul modo in cui è stato raccontato, a cominciare dalla sera in cui Chi l'ha visto? ha dato ad una  madre la notizia della morte della figlia. In diretta. 
Ne avevo solo accennato, parlando di altro, e non ho certo intenzione di cominciare adesso.
Anzi, dirò di più: non ho avuto il coraggio - o il cattivo gusto? - di andare a rivedere la famosa puntata di Chi l'ha visto?. E, in linea di massima, cerco di filtrare le notizie/non notizie su quanto sta succedendo da quelle parti: i cronisti appostati davanti al cancello della casa del delitto, che si dividono il poco spazio con i "turisti" in cerca di una macabra emozione, non mi appassionano.
E anche adesso che ne parlerò, in realtà non parlerò di quel fatto delittuoso ma di una lezione di giornalismo.
Ieri a ora di pranzo la televisione era accesa su un telegiornale nazionale. Ormai siamo abituati a digerire notizie, anche le più orribili, insieme al primo. Ma ieri ho dovuto smettere di mangiare, perché il telegiornale ci ha fatto sentire parte della confessione dell'omicida.  
Poi il condutore ha annunciato - con malcelato orgoglio - che di lì a pochi minuti l'intera registrazione sarebbe stata disponibile sul sito.
E io ho smesso di mangiare: una cosa così non la puoi digerire.

Oggi per fortuna Mario Calabresi, direttore de La Stampa, ci ha dato una grande lezione di giornalismo, invocando il diritto al lenzuolo bianco, quel lenzuolo che da sempre una invisibile mano pietosa stende sui cadaveri in mezzo alla strada.
Il suo articolo lo potete leggere qui: fatene tesoro perché chiarisce una volta per sempre chi è e che cosa fa un giornalista. 
Per tutto il resto, quello che ormai troppo spesso vediamo e ascoltiamo, dovremo trovare un altro nome.

due giorni dopo

Bella iniziativa. Belle discussioni. Belle persone.
Questa la sintesi della due-giorni a Pescasseroli, ospite della Coecin (Otium et Concordia in Natura) che - semmai dovesse approdare da queste parti - ringrazio pubblicamente.
Fra le cose da segnalare c'è senz'altro un'iniziativa che - mea culpa - non conoscevo: Una carriola di disegni. Che cos'è? Andate sul blog (fate click qui) e scopritelo da soli. Io vi dico solo che merita.


Il dibattito su L'Aquila è stato intenso, con momenti di rabbia e commozione, com'è giusto che sia. Erbani e Gaeta hanno descritto, ciascuno a suo modo, le storture dell'informazione; io ho provato a dire qualcosa di originale sulle narrazioni diverse dal modello televisivo.
E' un tema che continuerò ad approfondire ma qua sotto, se vi interessa, c'è qualche prima osservazione, nella forma degli appunti che avevo preparato per l'occasione.
Buona lettura.


Uno dei confini che il terremoto del 6 aprile segna è quello dell’informazione, del modo di fare informazione. Come ha scritto con grande efficacia Marino Sinibaldi: 
«tante immagini e parole ma poche notizie e, usiamo pure con cautela una parola equivocabile, poca verità. (…) L’Aquila è un caso esemplare di quanto la ridondanza riduca, in realtà, l’informazione reale» [M. Sinibaldi, Terremoto e informazione, “Il Mulino”, 2 novembre 2009].
Io mi vorrei soffermare su un solo aspetto, a partire da un elemento che credo abbiamo tutti notato, anche se poi – magari – lo abbiamo rimosso, perché gli eventi sono stati tantissimi, tutti con un carico emotivo che era difficile sostenere.
Sin dai giorni immediatamente successivi al terremoto del 6 aprile 2009 il racconto per immagini ha giocato un ruolo fondamentale: con racconto per immagini non intendo (per ora) le immagini dei telegiornali delle prime ore che, tendenzialmente, svolgevano soprattutto una funzione informativa e testimoniale, si caricavano del compito di far vedere che cosa era successo. Con racconto per immagini intendo una narrazione dell’evento terremoto attraverso le immagini, anche se talvolta queste immagini erano trasformate in parole: mi riferisco in particolare all’iniziativa di Repubblica di inviare dei registi a L’Aquila, chiedendogli di raccontare quello che vedevano, attraverso il loro stile di scrittura visiva.
Parole e immagini non sono sempre andate d’accordo. E questa è una delle cose che si notano se si cammina per la città, ancora oggi. Alle grate che segnano i confini della zona rossa, che sbarrano le strade impercorribili o pericolose, gli aquilani hanno appeso dei cartelli. Mi sembra il caso di citarne uno, estremamente significativo, che dice:
«Gentile turista, qui sei il benvenuto. Solo un favore ti chiedo, se proprio non ne puoi fare a meno, di fotografare le ferite di questa città con il dovuto rispetto. Non essere troppo invasivo e morboso, ricorda che quello che tu vedi: macerie, lesioni e distruzione, per noi rappresentano i luoghi della memoria e ferite dell’animo. Quindi, se vuoi ricordarti di questa città anche dopo le tue ferie, usa la fotocamera con garbo e fotografa anche la voglia di ri-nascere di questa gente. Ecco, questo ci fa veramente piacere. Con affetto, un aquilano».
Non penso che queste frasi abbiano bisogno di commenti ulteriori: ci mostrano bene la tensione fra immagini e parole. Così come tutti quei cartelli, fogli, foglietti pieni di parole appesi alle grate ci mostrano la forza della scrittura: la sua capacità di lasciare un segno, di essere una testimonianza forse meno effimera di quella lasciata da un’immagine digitale.
Però, come ha scritto bene Nicoletta Bardi, anche le fotocamere e le videocamere servono a conservare un segno, a fermare un attimo di un lungo percorso in cui tutti i punti di riferimento abituali cambiano in continuazione:
«…il nostro panorama sono le macerie, la nostra risorsa è la scrittura (…). E poi scrivere con tutti i mezzi a disposizione: scrivere su foglietti per fermare i pensieri che si frantumano, per comporre le liste che non riusciamo più a fermare nella memoria, per nominare le sensazioni fuggevoli che non si ha il tempo di approfondire; scrivere su Internet per sfruttare la velocità nella comunicazione e per opporre all’informazione ufficiale una visione reale che nasca dal basso; scrivere su quaderni che consentano di guardare al domani senza perdere pezzi di ieri, sui computer portatili che sostituiscono le scrivanie e le stanze tutte per sé. E poi le nuove scritture che la tecnologia ci mette a disposizione con relativa facilità: macchine fotografiche e videocamere che possono fermare attimi irripetibili e non recuperabili nella metamorfosi quotidiana dei panorami, degli scorci, dei gesti; sms e mail che fronteggiano la dissoluzione della comunicazione ordinaria, quella che era fatta anche di sguardi, pause, silenzi» [Nicoletta Bardi, Libri come pietre mille sguardi, in “Legendaria” n. 81, aprile-maggio 2010].

Dunque: io penso che la presenza sui luoghi del disastro di registi, di narratori per immagini, sin dai primi giorni abbia costruito una specie di “canone” narrativo (sia pure in modo del tutto involontario). Nei mesi successivi la narrazione audiovisiva ha assunto forme diverse:
1) c’è la narrazione ufficiale, quella che è passata attraverso i principali canali televisivi. Ci sarebbe molto da dire, e molte distinzioni da fare: ad esempio molti reportages di trasmissioni di approfondimento sono stati di ottima fattura e continuano ad informare sulla situazione e sulle difficoltà della ricostruzione con puntualità (l’ultimo che ho visto è stato quello contenuto nella puntata del 10 ottobre di Presadiretta di Riccardo Iacona). Però credo che la prima impressione che tutti noi conserviamo dell’informazione televisiva non sia una buona impressione. La lunga sequenza di dati (circa un minuto) con cui la conduttrice del tg1 del 7 aprile spiegava il record di ascolti della sua testata costituisce probabilmente solo una caduta di stile, ma è una di quelle sequenze che si fissano nella mente e diventano altamente simboliche dello stato dell’informazione.
Più che quello che è stato detto, e il modo in cui è stato detto, però, credo che sia interessante quello che non è stato detto: per esempio il silenzio sulla manifestazione del 16 giugno.
Io non mi vorrei soffermare su questo aspetto, che è abbastanza conosciuto, se non per ricordare che questo silenzio è stato devastante per l’opinione pubblica del nostro paese. Esso si è unito ad una narrazione positiva che ha trasformato il disastro aquilano in un miracolo aquilano, lasciando quindi diffusa la sensazione che tutto o quasi sia ormai risolto, e se non risolto in via di totale soluzione. E questo nonostante l’informazione giornalistica sia stata più puntuale perché – non scordiamocelo – l’86,7% della popolazione italiana si informa attraverso la televisione e solo il 33,1% attraverso i quotidiani (mentre internet è al 38,2%) [rapporto dell’ottobre 2009 su gli italiani e l’informazione dell’osservatorio sul capitale sociale degli italiani: in realtà si notano linee di tendenza in calo sia per l’uso della tv sia per la fiducia nei telegiornali principali rispetto a due anni prima].
2) accanto alla narrazione ufficiale televisiva ci sono stati i documentari e i film, che hanno contribuito e continuano a contribuire a fornire informazioni poco note e a ricostruire stati d’animo e storie
3) poi c’è stata l’informazione locale, che ha svolto un ruolo importantissimo e ha seguito con grande attenzione l’evolversi della situazione. E non mi riferisco solo alle redazioni regionali della Rai, oppure alle televisioni locali, ma anche alle web tv. Questo è un fenomeno piuttosto recente, anche se ovviamente non inedito e, soprattutto nel nostro paese, ancora poco sviluppato: non vorrei tanto parlare delle televisioni che viaggiano sul web come quelle delle grandi testate giornalistiche – che pure bisogna analizzare, perché hanno trasformato in immagini quel genere di approfondimento che ha caratterizzato la carta stampata (un solo esempio, un po’ meno scontato: una delle voci che hanno raccontato l’assenza della ricostruzione è stata, ad esempio, La Gazzetta dello Sport con un servizio che si intitola La zona rossa un anno dopo del 19 maggio 2010, in occasione della tappa a L’Aquila del giro d’Italia) 

Vorrei invece parlare brevemente delle micro-webtv, delle web tv locali che si ispirano al principio del citizen journalism, che in italiano potremmo chiamare giornalismo partecipativo.
Vi faccio l’esempio di una tv che si chiama L’Aquila99 (www.laquila99.tv) e che è nata ai primi di marzo, con l’idea di fondare – lo dico con le loro parole - «un luogo epicentrale di comunicazione» per «rendere  trasparente e partecipato il processo di “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal sisma». Tramite questa webtv, chiunque lo voglia può sentire le parole dei cittadini aquilani e vedere le assemblee cittadine. Ma chiunque può anche contribuire inviando i propri video.
Questa caratteristica fa sì che le web tv siano la forma di “giornalismo” più vicino alle persone: la forza di questa narrazione è proprio il suo provenire “dal basso”, dare voce a chi spesso non è stato ascoltato nel frastuono mediatico che ha accompagnato a lungo il terremoto e a chi – ora – rischia di sembrare muto nel silenzio che è piombato sull’Aquila.
4) E così arriviamo a parlare di internet che è stata la grande risorsa, e anche - dal punto di vista della comunicazione - la grande novità di questo sisma (un altro dei confini che L’Aquila segna).
Internet è il grande serbatoio del racconto “spontaneo” del terremoto, un racconto che si contrappone a quello ufficiale: facendo una ricerca su youtube con parole chiave non troppo generiche, escono quasi 5000 video (però approfondendo si scopre che ce ne sono molti non taggati, e quindi “invisibili” ad una prima ricerca). E a questi occorre aggiungere tutti quelli del versante “organizzato”, non spontaneo, professionale, di internet (come appunto i materiali delle web tv dei quotidiani oppure i canali in rete delle tv).
Sul piano simbolico internet diventa una voce collettiva e alternativa, quella voce che non ha spazio nel racconto ufficiale. E questa funzione è diventata tanto più forte quanto più la narrazione ufficiale ha assunto toni autocelebrativi da parte del governo. La strategia narrativa dei media dominanti (in particolare quella televisiva) è messa in crisi anche con le forme del racconto “dal basso” che viene veicolato attraverso internet e che assume dei tratti peculiari: in particolare, quello che mi ha colpito è che esso diventa anonimo e, perciò, espressione di una “intelligenza collettiva” che si muove dal basso.
Penso che molti di voi conoscano un testo che ha girato a lungo in rete e che si può leggere nei blog, ma è stato diffuso anche via e-mail (a me per esempio è arrivato così). È un racconto in forma di lettera che mostra le distorsioni dell’informazione e che è un perfetto esempio di quanto sto dicendo:
«Ieri – dice il testo anonimo – mi ha telefonato l'impiegata di una società di recupero crediti, per conto di Sky. Mi dice che risulto morosa dal mese di settembre del 2009.
Mi chiede come mai. Le dico che dal 4 aprile dello scorso anno ho lasciato la mia casa e non vi ho più fatto ritorno. Causa terremoto.
Il decoder sky giace schiacciato sotto il peso di una parete crollata. Ammutolisce.
Quindi si scusa e mi dice che farà presente quanto le ho detto a chi di dovere.
Poi, premurosa, mi chiede se ora, dopo un anno, è tutto a posto.
Mi dice di amare la mia città, ha avuto la fortuna di visitarla un paio di anni fa.
Ne è rimasta affascinata. Ricorda in particolare una scalinata in selci che scendeva dal Duomo verso la basilica di Collemaggio.
E mi sale il groppo alla gola.  Le dico che abitavo proprio lì.  Lei ammutolisce di nuovo. Poi mi invita a raccontarle cosa è la mia città oggi.
Ed io lo faccio. 
Le racconto del centro militarizzato.
Le racconto che non posso andare a casa mia quando voglio.
Le racconto che, però, i ladri ci vanno indisturbati.
Le racconto dei palazzi lasciati lì a morire.
Le racconto dei soldi che non ci sono, per ricostruire.
E che non ci sono neanche per aiutare noi a sopravvivere.
Le racconto che, dal primo luglio, torneremo a pagare le tasse ed i contributi, anche se non lavoriamo.
Le racconto che pagheremo l'i.c.i. ed i mutui sulle case distrutte. E ripartiranno regolarmente i pagamenti dei prestiti.
Anche per chi non ha più nulla. Che, a luglio, un terremotato con uno stipendio lordo di 2.000 euro vedrà in busta paga 734 euro di retribuzione netta.
Che non solo torneremo a pagare le tasse, ma restituiremo subito tutte quelle non pagate dal 6 aprile.
Che lo stato non versa ai cittadini senza casa, che si gestiscono da soli, ben ventisettemila, neanche quel piccolo contributo di 200 euro mensili che dovrebbe aiutarli a pagare un affitto.
Che i prezzi degli affitti sono triplicati. Senza nessun controllo.
Che io pago, in un paesino di cinquecento anime, quanto Bertolaso pagava per un appartamento in via Giulia, a Roma.
La sento respirare pesantemente. Le parlo dei nuovi quartieri costruiti a prezzi di residenze di lusso.
Le racconto la vita delle persone che abitano lì. Come in alveari senz'anima. Senza neanche un giornalaio. O un bar.
Le racconto degli anziani che sono stati sradicati dalla loro terra.
Lontani chilometri e chilometri.
Le racconto dei professionisti che sono andati via. Delle iscrizioni alle scuole superiori in netto calo. Le racconto di una città che muore.
E lei mi risponde, con la voce che le trema.
“Non è possibile che non si sappia niente di tutto questo. Non potete restare così. Chiamate i giornalisti televisivi. Dovete dirglielo. Chiamate la stampa. Devono scriverlo”.
Loro non scrivono, voi fate girare».
L’anonimato del testo e l’appello finale rinforzano questa idea estremamente diffusa che esista uno scontro in atto fra un racconto ufficiale, calato dall’alto, e una verità che nasce dal basso. E la cosa interessante è che un dialogo del genere può essere capitato a chiunque non sia stato informato solo dalla televisione.
Vorrei sottolineare un elemento, prima di guardare più da vicino ai materiali audiovisivi “spontanei” che si possono trovare in rete. Internet, infatti, non è soltanto il luogo dove trovare le narrazioni alternative: è stato anche – e direi soprattutto – un luogo fondamentale in cui avviare la ricostruzione, non materiale ma spirituale della città.
Questo elemento emergeva già dalle parole di Nicoletta Bardi che ho citato all’inizio: ma è una consapevolezza molto diffusa. Anna Pacifica Colasacco, per esempio, è l’autrice di un blog che si chiama miss kappa e che esisteva già prima del 6 aprile. Dopo il terremoto, però, quello che scrive assume un aspetto diverso:
«Il mio blog dava voce alla nostra disperazione. In tanti hanno letto le mie parole. Presto è diventato strumento di divulgazione per le persone lontane e per gli stessi aquilani. Cercavo di raccogliere i pezzi frammentati della nostra comunità volutamente disgregata. Costruivo una piazza aperta a tutti. Anche ai tanti che non mi credevano. E che, impietosamente, si accanivano con le armi di chi non conosce la realtà, ma appoggia incondizionatamente ciò che impone l’informazione ufficiale. Gridai dai primi giorni ciò che la Protezione Civile stava perpetrando sulla nostra terra. Furono sensazioni, inizialmente, che poi trovarono riscontro nei fatti. E raccontai che non era vero che qui tutto andava bene. E cercai di smentire le bugie, quelle che ci accompagnano dalla prim’ora. E oggi parlo alla graduale presa di coscienza dei cittadini. Del loro, del nostro, riappropriarci di ciò che tentano di portarci via. Racconto di persone, di luoghi, di speranze. E di voglia tenace di partecipare» [Anna Pacifica Colasacco, Il primo aiuto una pennetta, “Legendaria” cit.].
I blog, come le webtv, e i social network o, semplicemente, youtube, diventano allora il luogo dove cercare di ricreare quella comunità che il terremoto e la gestione dei soccorsi avevano smembrato e disperso. Diventano, prima che la voglia di partecipazione trovi uno sbocco organizzativo, il luogo virtuale dove condividere le proprie emozioni, prima, e poi la conoscenza. E infine dove organizzarsi. I primi incontri di cittadini desiderosi di “riprendersi la città” nascono proprio dai blog e dai contatti virtuali in rete. 

Dunque: «Riparto da internet…» come dice il titolo di uno dei video che è possibile trovare in rete. 
Il titolo completo in realtà dice: « Riparto da internet per ricostruire il mio mulino e quindi la mia vita». L’ho trovato estremamente simbolico, non solo perché descrive bene la forza che la rete ha assunto in questa situazione, ma anche perché ci racconta una caratteristica peculiare delle narrazioni che vi si possono trovare:  molte di esse infatti raccontano storie e sguardi individuali. Finora per definirle ho usato il termine “narrazioni spontanee”, ma l’ho sempre messo tra virgolette perché non è una definizione molto esatta. Il filmato che vi ho citato, ad esempio, è realizzato per una web tv e dunque è pensato come un “servizio televisivo”, sebbene non troppo professionale dal punto di vista della tecnica. Però, il fatto che esso racconti una piccola vicenda che non ha una eco sui grandi mezzi di comunicazione stimola una forte identificazione in tutti coloro che vivono una situazione simile, una condizione di disagio e, allo stesso tempo, di forte voglia di ricominciare.
Tuttavia molti dei video che si possono trovare sono realmente delle narrazioni spontanee: ci sono per esempio le immagini di chi si è intrufolato nella zona rossa senza permessi per riprenderne la distruzione e poi la mette in rete per mostrarla a tutti. (Terremoto dell’Aquila, uplodato su Youtube il 28 maggio 2010)
In altri casi invece, e sono la maggior parte, abbiamo delle narrazioni alternative a quelle mainstream. Qui la videocamera è usata come la penna, e Youtube diventa un vero e proprio diario: emblematico è, ad esempio, il video di Francesco Paolucci Diario di un terre-mutato che è stato a lungo ospitato sulle pagine on-line della trasmissione di Radio3 Fahrenehit. Come accade sempre più spesso anche nell’informazione generalista, Paolucci racconta storie, piccole storie individuali: ma se nel caso dei telegiornali o delle trasmissioni pomeridiane queste vicende individuali servono a stabilire un legame emotivo con il telespettatore, nel caso dei videomaker come Paolucci le storie individuali diventano il dettaglio di una storia più ampia, lo strumento attraverso il quale convogliare le emozioni di una vicenda collettiva.
Nei casi migliori, ciò porta a forme di racconto “altre”, molto diverse dalla narrazione televisiva (e anche cinematografica): possono ad esempio assumere l’andamento di un racconto satirico, e penso sempre a Paolucci, stavolta in coppia col suo amico/vicino di casa “Maurom”, e ai loro “dice che”.  L’ultimo, ad esempio, è un capolavoro d’ironia: si chiama Il cielo sopra Pettino West e sulla scia dei programmi sui “misteri” (tipo Voyager: c’è anche una citazione lessicale del conduttore) si finisce per raccontare la condizione psicologica che vivono oggi gli aquilani, tanti personaggi del teatro dell’assurdo, ciascuno dei quali sta aspettando il suo Godot.

Ma mi vengono in mente anche i lavori di Luca Cococcetta, che racconta il terremoto e la ricostruzione con uno stile molto personale: ne cito due, il trailer di un documentario che s’intitola Radici- L’Aquila di cemento e un racconto intitolato Pezzi di città, uplodato il 23 febbraio 2010. 

Questi lavori, come anche quelli di Paolucci, hanno diverse migliaia di visualizzazioni (dalle 3 alle 5mila); gli altri arrivano a qualche centinaio, se va bene, ma nella maggior parte dei casi non sono stati visti che da qualche decina di persone. Dunque siamo di fronte a materiale che circola, ma non molto. E dunque può al massimo intaccare il racconto ufficiale del terremoto, ma non può certo infrangerlo. Certo, chi vuole, può accedere attraverso internet ad un racconto diverso, per molti versi più emozionante oltre che più “vero”: solo che – purtroppo – non sembra che siano moltissimi a farlo.

Appuntamento a Pescasseroli

Sabato mattina sarò qui
Si tratta di un evento culturale della durata di tre giorni, con proiezioni, dibattiti, incontri. Ogni anno si affronta un tema diverso: i confini è quello del 2010 (qui trovate l'interno programma).
Sabato mattina, alle 10.30, si parlerà de L'Aquila perché, come dice il titolo, L'Aquila ci parla di noi (gli autori hanno scelto di usare il titolo di un articolo di Guido Crainz pubblicato su "Repubblica" il 24 giugno 2010: se non lo avete letto, potete farlo qui). L'Aquila, cioè, è un confine: un confine fra modi diversi di gestire l'emergenza e forme diverse di uso degli strumenti di comunicazione per narrare l'emergenza. Ma anche un confine fra diversi racconti del terremoto e della sua gestione. E un confine fra diversi modi di intendere la politica, e non solo quella di gestione dell'emergenza.
Si proverà a parlarne insieme a Francesco Erbani, che ha appena pubblicato un piccolo, interessante libro che vi consiglio (Il disastro. L'Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, edito da Laterza); con Alessandro Gaeta, giornalista Rai; con Gabriele Polo, direttore editoriale del Manifesto; con Cirò Sbailò, che insegna diritto pubblico comparato alla Sapienza, a Roma; con altri che ho sicuramente dimenticato e con il pubblico in sala.
Cercherò di riflettere con loro su uno dei temi di fronte ai quali ci ha messo questo evento: la presenza di due diverse (e talvolta opposte) narrazioni pubbliche del terremoto, l'una ufficiale (quella fornita dai mass media, in particolare televisivi), l'altra "spontanea" che si è prodotta (e continua a prodursi: guardatevi l'ultimo "documentario" realizzato da Francesco Paolucci e Luca Serani, Il cielo sopra Pettino West) sul web. In realtà ce ne sono una terza, quella nata dall'informazione locale, che - in qualche misura - è stata un po' all'incrocio fra le due, e una quarta, quella dei film documentari su L'Aquila che sono stati girati e distributi nell'ultimo anno.
Il più famoso è probabilmente Draquila di Sabina Guzzanti che ha avuto un buon successo in sala e un grosso impatto mediatico: sul numero 65 di Meridiana, dedicato a L'Aquila e di prossima pubblicazione, uscirà una mia recensione al film.
Eccone qualche riga:
Così, alla fine, muovendosi in un difficile equilibrio fra grottesco e patetico, fra satira ed informazione, Draquila riesce a dare molte notizie su aspetti meno noti dei processi avviati dal terremoto aquilano e, allo stesso tempo, a tracciare un ritratto impietoso dello stato attuale del nostro paese. Viene da sorridere quando, in una sequenza del film, una signora, grata per i soccorsi ricevuti, identifica lo Stato con il premier: vorrebbe abbracciarlo perché, dice convinta, «lo Stato è Berlusconi», salvo poi aggiungere, di fronte all’espressione perplessa della sua interlocutrice, «o no?». Viene da sorridere, appunto, ma è un sorriso amaro che nasconde l’imbarazzo per il livello di incultura politica diffusa in un paese dove il 23,3% della popolazione non si informa mai di politica e il 60,7% se ne occupa solo una volta alla settimana, secondo quanto sostiene il rapporto Istat del 2009 sulla partecipazione politica. 
Sono convinto che anche questo argomento aleggerà sulla discussione. 
Ma ne riparleremo.
 

trent'anni dopo

Il 14 ottobre 1980 è finita un'epoca.
Così almeno dice la storiografia del movimento operaio.
Dopo tanti cortei, rumorosi o silenziosi, allegri o terribilmenti cupi,  un'ultima marcia, silenziosa stavolta, ha messo la parola fine a quella storia cominciata nel 1969. Stavolta erano in quarantamila a sfilare e dopo quel corteo
puntuali, curvi sotto la pioggia, gli operai sono rientrati nelle fabbriche deserte da oltre un mese.
 Ci sono episodi che hanno un fortissimo significato simbolico e la marcia dei quarantamila è uno di quelli. Da allora, sembra che gli operai siano scomparsi,  dall'immaginario collettivo se non dalle fabbriche (anche se un reportage, Operai, scritto qualche anno dopo scritto da Gad Lerner,  e recentemente ripubblicato, li descriveva come La classe che non c'è più).

A dare ancora più forza simbolica a quell'episodio ci sono le immagini.
Da pochi giorni, grazie a Repubblica TV in collaborazione con l'Archivio Nazionale del cinema d'impresa e il Centro storico Fiat, è disponibile on line il filmato originale che i cineoperatori Fiat girarono in quell'occasione.

Sono 14 minuti silenziosi che mostrano l'avvio e lo svolgimento del corteo. Sono immagini che si vedono per la prima volta e che testimoniano, con la loro stessa esistenza, l'importanza che la Fiat attribuiva a quell'operazione.


Metteteli a confronto con alcune descrizioni giornalistiche dei cortei e delle manifestazioni operaie di quelli stessi giorni davanti ai cancelli della Fiat:
...c'è come un aleggiare di festival dell'Unità col profumo delle salamelle che arrostiscono sulla brace, il puzzo un po' acido del vino versato per terra e le note di una canzonetta di Lucio Dalla. Due ragazzi si baciano.
E ancora, in occasione del corteo del 25 settembre:
Una bella ragazza, sui trampoli, indossa, tipo sandwich, una enorme Mole Antonelliana di cartapesta. Arriva davanti allo striscione rosso dei sindacati, ma è costretta a fermarsi: una grossa mano di gomma sintetica, grande come una jeep, l'avvolge, vuol soffocarla. Ma (...) centinaia di manine rosse, fatte di polistirolo (...) riescono a liberarla.
Ma, ancora una volta, meglio delle parole sono le immagini: Piero Perotti, allora operaio alla Fiat, girò con una cinepresa casalinga queste (ed altre) immagini.


Colore contro grigiore.
Disordine contro ordine.
Confusione contro compostezza.

Anche di questi scontri simbolici fu fatta quella lotta, che racchiudeva in sé le tensioni degli anni settanta. E, su questo piano, le immagini ci aiutano a decifrarla, forse più e meglio di quanto non riescano a fare le spiegazioni economiche o l'analisi delle strategie sindacali e padronali.
Soprattutto ci aiutano a capire perché, subito dopo, gli operai, protagonisti di un decennio, sembrarono evaporare.
Certo, è chiaro che ci fu la precisa volontà di chiudere un ciclo di lotte per riprendere il controllo totale dell'impresa, come racconta Cesare Romiti in un breve documentario realizzato da Repubblica Tv (lo potete vedere qui). Ma quelle immagini ci raccontano che, al di là delle strategie d'impresa, veniva ripristinato un'immaginario, il modello del "vero" lavoratore: disciplinato, inquadrato, rispettoso. Anche dell'organizzazione della circolazione stradale: guardate le immagini, chi sfila  rimane sulla corsia di marcia senza invadere quella opposta.

la strategia della paura

Viviamo in un mondo pericoloso, che mette paura.
E la paura ha il suo fascino. Stiamo alla finestra e guardiamo questo mondo pauroso, ipnotizzati, incapaci di distogliere lo sguardo e chiudere quella finestra.
Dopo la discussa puntata di lunedì scorso di Chi l'ha visto, in cui la madre di Sarah Scazzi ha appreso della morte della figlia scomparsa in diretta televisiva (e la trasmissione ha avuto un'impennata di ascolti, arrivando a toccare il 15,29% di share), i dati di una ricerca dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza ci dicono che i telegiornali italiani sono quelli che hanno il tasso più alto di notizie sulla criminalità e sui delitti.
Dunque l'Italia è un paese di criminali? Non più degli altri, dicono le statistiche.
Non è una questione di criminali, è una questione di televisione.
Il sito della Demos & PI, che ha esseguitola ricerca insieme all'Osservatorio di Pavia, scrive:
Serialità e pervasività: sono questi gli elementi che caratterizzano la trattazione dei casi criminali nei Tg italiani, e che ne determinano la specificità a livello europeo.
(qui trovate i dati)
E questo, inevitabilmente, porta ad una trasformazione della percezione della realtà.
In particolare, sembra che non sia tanto l'abbondanza delle notizie sui crimini a modificare la nostra immagine del quotidiano, quanto il fatto che le notizie siano impaginate per gruppi tematici: si parla dell'aggressione di un cane ad un bambino, e il giorno dopo, o forse anche nella trasmissione successiva, ecco che c'è stato un altro caso di aggressione. E l'Italia sembra trasformarsi rapidamente in una terra dove pochi uomini impauriti sono assediati da branchi di cani feroci.
Secondo Ilvo Diamanti, che commentava i dati su Repubblica di ieri, queste notizie finiscono per avere un effetto rassicurante, perché vengono accolte nella tranquillità del nostro salotto, in un ambiente protetto e sicuro: sono cose che comunque succedono agli altri, mai a noi. (se ti interessa l'articolo, fai click qui)
E' un po' l'effetto catartico del thriller, o del film del terrore. Che però può avere effetti non previsti.
A lungo andare, infatti, questo modo di informare potrebbe produrre una sorta di distacco dalla realtà, proprio perché quello che accade lì, nella finestra televisiva, non viene percepito come ciò che accade in casa nostra. Pensate anche alle immagini: non vi sembra che da qualche anno i telegiornali abbiano cominciato a riprendere le scene del crimine con inquadrature che ricordano tanto CSI?
E allo stesso tempo è una strategia informativa che può essere piegata ad un uso politico: vi ricordate l'ondata di delinquenza che invase i telegiornali nei mesi precedenti le scorse elezioni, che in parte si giocarono proprio sul tema della sicurezza? E vi ricordate che, nei mesi successivi, i dati ufficiali mostravano come la delinquenza non fosse in realtà aumentata?

Certo, il confine di questa discussione è sottile e la paranoia complottistica è sempre in agguato. Pensare che esista un progetto della politica per mutare attraverso l'informazione televisiva la percezione della realtà dei cittadini è forse eccessivo.
E allora, forse, è solo televisione.
Ma se è così, allora quei dati dimostrano che esiste un altro modo di fare televisione, che forme diverse di informazione - probabilmente migliori e più equilibrate - sono possibili.

Auguri Radio Tre

Il primo ottobre 1950, alle 21, iniziava a trasmettere il Terzo Programma, che sarebbe poi diventato, dopo la riforma del 1975, Radio Tre. Oggi festeggia sessant'anni: auguri!
Canale culturale per eccellenza, ha saputo reinventarsi pur rimanendo nel solco della tradizione e conquistare un pubblico non altissimo ma fedele, prevalentemente anziano e maschile, diffuso soprattutto nei centri di media densità abitativa, con picchi di ascolto soprattutto la mattina durante Prima pagina e nel pomeriggio con Fahrenheit.

Sessant'anni fa l'intenzione era fare un canale culturale, secondo la classica tripartizione dei compiti della radio che risaliva a Sir John Reith, informare, educare, intrattenere. L'educazione era il compito che spettava al Terzo Programma (cui venne affiancato anche un periodico), e la si intendeva come elevazione culturale: rivolta dunque a tutti e non solo ai già colti, ai già istruiti. Il modello radiofonico che si aveva in mente era quello anglosassone e il modello culturale era quello tradizionale, della cultura classica, umanistica: musica colta (con una moderata apertura al jazz negli anni sessanta), conversazioni, poesia e letture. E tuttavia non era un modello culturale "ingessato", come verrebbe facile pensare oggi, anzi: proponeva ad esempio inedite letture trasversali di figure storiche o sociali  presentate nelle "serate a soggetto" che montavano ecletticamente contributi di vario genere intorno ad uno stesso argomento, da Cristoforo Colombo al Mito greco nella letteratura tedesca. A tentativi di costruire un modo originale di fare cultura divulgativa, si aggiungeva un linguaggio che, dopo le iniziali rigidità, avrebbe saputo assorbire le indicazioni di Carlo Emilio Gadda delle famose norme per la redazione di un testo radiofonico
Naturalmente, di fronte alle trasformazioni del paese e delle forme della comunicazione degli anni sessanta-settanta, il modello proposto dal Terzo Programma non poteva che risultare vecchio, se non stantio. Ci penserà Enzo Forcella a rinnovarlo, dopo il suo arrivo alla direzione nel 1976 (ci resterà dieci anni, fino al 1986) : un linguaggio nuovo e più attento alle trasformazioni sociali, una leva di giovani conduttori  capaci di fornire uno sguardo nuovo sul mondo culturale, la capacità di cogliere i numerosi stimoli che provenivano da una realtà sociale in continuo fermento, idee innovative come la lettura critica delle prime pagine dei giornali (Prima pagina), sono solo alcune delle caratteristiche che la direzione di Forcella introdurrà nella radio. 
Un insegnamento che ancora oggi, certo rinnovato e attualizzato, sembra aleggiare nelle stanze di via Asiago, sotto la direzione di Marino Sinibaldi, storico conduttore di Fahrenheit.
 
Andrea Sangiovanni © Creative Commons 2010 | Plantilla Quo creada por Ciudad Blogger