tag:blogger.com,1999:blog-8031800118583540502024-03-13T12:20:06.993+01:00Andrea Sangiovanniblog di Andrea Sangiovanni, ricercatore di storia contemporanea e docente all'Università di Teramo. Pensato inizialmente come strumento didattico, funzione che continua ad assolvere, oggi contiene anche riflessioni su storia e immagini, fumetti, storia dei mass media, film e televisione.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.comBlogger264125tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-16904000380855649242014-12-09T10:54:00.002+01:002014-12-09T10:54:50.854+01:00Il west(ern) tra cultura italiana e americana: una lezioneIl 5 novembre (accidenti è già passato più di un mese!) avevo una lezione con una collega statunitense ospite in Università, <span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;"><span style="font-family: inherit;"><a href="http://www.uwyo.edu/history/people/faculty/laegreid.html" target="_blank">Renée M. Laegreid</a>. Avevamo deciso di parlare del western dal punto di vista dei nostri rispettivi paesi, confrontando - per quanto possibile - immaginari e modalità narrative.</span></span><br />
<span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;"><span style="font-family: inherit;">Annuncio sulla mia pagina facebook la lezione e questo è quello che mi appare poco dopo</span></span><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-oRxmeYrsSFk/VITJEmfE4-I/AAAAAAAAA30/Jrt4ejxZNqA/s1600/CatturaFB1.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://2.bp.blogspot.com/-oRxmeYrsSFk/VITJEmfE4-I/AAAAAAAAA30/Jrt4ejxZNqA/s1600/CatturaFB1.JPG" height="283" width="400" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;">I commenti sono tanti e sono entusiasti: simili dimostrazioni di affetto e stima gonfiano a dismisura il mio ego e così </span><span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;">finisce che mi prendo l'impegno che potete leggere qui sotto:</span><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-xD9sMaG5ZI0/VITJIBegjCI/AAAAAAAAA38/6s5q2cQmxBs/s1600/CatturaFB2.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-xD9sMaG5ZI0/VITJIBegjCI/AAAAAAAAA38/6s5q2cQmxBs/s1600/CatturaFB2.JPG" height="400" width="382" /></a></div>
<span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;">Vi avevo promesso i miei appunti. C'ho messo un po' di tempo per metterli qui ma, per chi è ancora curioso, basta andare oltre la linea. </span><br />
<span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;">Vi avviso: non sarà una lettura brevissima. Ma vi ho messo dei titoletti per aiutarvi ad orientarvi un po'. </span><br />
<span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;">Se poi vi piace, fatemelo sapere.</span><br />
<span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;"></span><br />
<a name='more'></a><span style="background-color: #fefdf1; line-height: 24.7999992370605px;"><br /></span><br />
<span style="text-align: justify;">La mia parte della lezione iniziava con la sequenza iniziale del film </span><i style="text-align: justify;">Un americano a Roma </i><span style="text-align: justify;">(Steno, 1954) interpretato da Alberto Sordi.</span><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.blogger.com/video.g?token=AD6v5dzRUDvQXbZwSJsV1JCTgZVIWtKfUoVCQbsJN977n-ZeoxGsJFT75W7vfTiPytHWxEn4Y_vfCyIXSLtd_rrN7w' class='b-hbp-video b-uploaded' frameborder='0'></iframe></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
<br /></div>
<div style="clear: both; text-align: justify;">
Come vedete, il film ironizza sull’infatuazione italiana per gli Stati Uniti e la sua cultura: emerge con chiarezza il fascino che i film western producono nel pubblico, ma questo amore per il west va contestualizzato da due diversi punti di vista. </div>
<h4 style="clear: both; text-align: justify;">
Contestualizzare l'amore per il western in Italia</h4>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il primo è quello dei generi cinematografici: oltre al western americano esisterebbe, secondo Lorenzo Codelli, un “<b>euro-western</b>”, ovvero una tradizione di film ambientati nel west americano ma girati da europei, e quasi sempre anche in Europa, che viene fatta risalire addirittura ad un operatore dei fratelli Lumière, Gabriel Veyre, che tra il settembre e il novembre 1896 aveva girato delle vedute in Messico definendo visivamente una serie di topoi del futuro cinema western, e in particolare i movimenti in campo lungo che caratterizzano questo genere di cinema. Se questa affermazione è certo provocatoria – né alla fine ha molto senso perché un conto è l’immaginario visivo, un conto sono i codici narrativi di un film – è altrettanto certo che sin dagli anni ’10 del Novecento esistono attori e registi europei, francesi, spagnoli, tedeschi e italiani, che mettono in scena film di ambientazione western girati in Europa. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Fra questi cito solamente – e per pura curiosità - un regista italiano, Roberto Roberti, il cui vero nome era Vincenzo Leone e il cui figlio, Sergio Leone, negli anni sessanta, rileggerà e, possiamo dire, rifonderà il western all’italiana. Naturalmente, in questo caso non stiamo parlando di film che hanno un rapporto con i processi di<i> nation building </i>come nel caso statunitense, ma solo di intrattenimento e di un cinema di genere che utilizza stereotipi – visivi e narrativi – nati negli Stati Uniti che riadatta solo in parte. </div>
<h4 style="clear: both; text-align: justify;">
Immaginario western e fumetto</h4>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
È interessante osservare come questo “immaginario western” contagi anche altri settori dell’industria culturale di massa: possiamo prendere ad esempio il caso del fumetto (citato anche nel film che abbiamo visto prima), giusto per ricordare che verso la fine degli anni Trenta esordisce sulle pagine di “Topolino” il primo personaggio western a fumetti scritto e disegnato da un italiano.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-mCdchg43uU0/VITL1ETXGdI/AAAAAAAAA4I/J9194wAz7xE/s1600/2%2B-kit%2Bcarson.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-mCdchg43uU0/VITL1ETXGdI/AAAAAAAAA4I/J9194wAz7xE/s1600/2%2B-kit%2Bcarson.jpg" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Si tratta di <b>Kit Carson</b>, realizzato da <b>Rino Albertarelli</b> nel 1937: la sua genesi ci aiuta a capire meglio dei processi di produzione culturale che stiamo brevemente raccontando. Albertarelli del west non sapeva molto di più di ciò che aveva visto al cinema e, per costruire il suo personaggio, era partito dal nome, letto in un libro, come ha poi raccontato: </div>
<blockquote class="tr_bq" style="clear: both;">
<div style="text-align: justify;">
ne avevo trovato il nome in un libro dello storico Truslow Adams, dove imparai che era stato un famoso cacciatore di pellicce e la guida di John Charles Frémont, nelle sue esplorazioni oltre le Montagne Rocciose e nella conquista della California. Mi bastò e non mi persi a cercare altro. Quello che mi piaceva era il nome, tre sillabe in tutto, con l'accento forte su quella centrale: un nome ideale da eroe fumettistico, come Flash Gordon o Dick Tracy. Soltanto dopo la guerra mi venne la curiosità di sapere chi fosse realmente Kit Carson…. </div>
</blockquote>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
In seguito Albertarelli inizierà a studiare il West e la sua cultura: negli anni Settanta, riverserà queste sue conoscenze in una collana a fumetti intitolata “I protagonisti” che traduceva a fumetti, in modo attendibile, le storie dei protagonisti del west.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il secondo contesto è quello socio-politico: liberazione, gli Alleati (e in particolare gli americani) come simbolo della libertà, la guerra fredda e la scelta di campo dell’Italia. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
C’è quindi, nell’immediato dopoguerra, una vera e propria americanizzazione che significa, come ha scritto Umberto Eco, che </div>
<blockquote class="tr_bq" style="clear: both;">
<div style="text-align: justify;">
l’America come modello, come rassegna e sistema di merci, come influenza politica, come immagine veicolata dai mass media, invade l’Italia. Prima era solo qualcosa che si leggeva sui libri o si vedeva al cinema. Dopo è qualcosa che investe la vita dell’italiano medio, dal chewing-gum ai dischi, sino allo sviluppo della motorizzazione e alla Tv. </div>
</blockquote>
<div class="separator" style="clear: both;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-ZDhNwIkM1jE/VITMmIaSoyI/AAAAAAAAA4U/97MvgvO8m7s/s1600/3-%2BLa%2Bsceriffa.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-ZDhNwIkM1jE/VITMmIaSoyI/AAAAAAAAA4U/97MvgvO8m7s/s1600/3-%2BLa%2Bsceriffa.jpg" height="320" width="222" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
In realtà il termine americanizzazione è stato molto spesso usato con una accezione critica, che rinviava ad una sorta di “colonizzazione” culturale. Io invece vorrei sottolineare che l’adesione da parte del pubblico (dei pubblici) italiano a stili di vita, quadri ideologici, modelli culturali, anche sotto il profilo visuale, provenienti dagli Stati Uniti non è un processo solamente passivo, di pura ricezione, ma un processo attivo, di riadattamento ai propri modelli culturali. In fin dei conti, se ci pensate, Un americano a Roma può mostrarci il “sogno americano” di Nando Meniconi in chiave grottesca proprio perché il suo non è un adattamento di alcuni elementi della modernità (tutto ciò che è americano viene percepito come moderno) al nostro stile di vita ma una ricezione passiva che può essere ridicolizzata (la famosa scena dei maccheroni).</div>
<br />
<div class="" style="clear: both;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-yyXrcooSJ3w/VITMnW1rPaI/AAAAAAAAA4g/WSObrl7tENo/s1600/4%2B-%2Bgli%2Beroi%2Bdel%2Bwest.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://2.bp.blogspot.com/-yyXrcooSJ3w/VITMnW1rPaI/AAAAAAAAA4g/WSObrl7tENo/s1600/4%2B-%2Bgli%2Beroi%2Bdel%2Bwest.jpg" style="cursor: move;" /></a><br />
<h4 style="text-align: justify;">
Il western farsesco </h4>
<div style="text-align: justify;">
Tornando al western, negli anni ’50 e primi ’60 lo troviamo al cinema con quelli che alcuni critici chiamano film “proto-western” (ad esempio la serie di <i>Zorro</i> o del simile <i><a href="http://www.imdb.com/title/tt0047957/" target="_blank">El coyote</a></i>, di produzione spagnola) oppure con film farseschi come <i>Io sono il capataz</i> con Renato Rascel (1951), <i>Il terrore dell’Oklaoma</i> con Maurizio Arena (1959) o <i> <a href="http://www.spaghettiwestern.altervista.org/la_sceriffa.htm" target="_blank">La sceriffa</a></i> (1959) con Tina Pica e Ugo Tognazzi,</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
e, ancora, <i>Gli eroi del west</i> (1963) con Walter Chiari e Raimondo Vianello: sono pellicole che ci raccontano l’infatuazione del pubblico italiano per le ambientazioni western.</div>
<h4 style="text-align: justify;">
Tex</h4>
<div style="text-align: justify;">
Questo “amore” per il west, però, arriva anche attraverso il fumetto: nel 1948 arriva infatti in edicola un albo a strisce intitolato <i>La collana del Tex</i>, il cui primo episodio è <i>Il totem misterioso</i>. Gli autori sono Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini (Galep).</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-12eNXGwXd3E/VITMl_yvYyI/AAAAAAAAA4Q/c0-c9uQMnDs/s1600/5%2B-%2Btex1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-12eNXGwXd3E/VITMl_yvYyI/AAAAAAAAA4Q/c0-c9uQMnDs/s1600/5%2B-%2Btex1.jpg" height="142" width="320" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Contemporaneamente i due mandano in edicola un’altra serie, ambientata tra la Francia e il Canada del XVIII secolo, su cui la casa editrice punta di più come dimostra il formato più grande, e il cui titolo è <i>Occhio cupo</i>.</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-FvvKM3H1-10/VITMpJpjqJI/AAAAAAAAA4o/QFqwjkspJ_c/s1600/6%2B-%2BOCCHIO-CUPO001.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-FvvKM3H1-10/VITMpJpjqJI/AAAAAAAAA4o/QFqwjkspJ_c/s1600/6%2B-%2BOCCHIO-CUPO001.jpg" height="320" width="228" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Ad avere successo però sarà Tex, il cui cognome inizialmente sarebbe dovuto essere Killer e non Willer, com’è diventato in seguito: nella prima vignetta della prima storia lo vediamo infatti ritratto come un fuorilegge braccato dalla legge.</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-kSdOfCjlOf8/VITMuwHjjCI/AAAAAAAAA44/O5SGObDsBLs/s1600/7%2B-%2Btex1_interno.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-kSdOfCjlOf8/VITMuwHjjCI/AAAAAAAAA44/O5SGObDsBLs/s1600/7%2B-%2Btex1_interno.png" height="147" width="320" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
La contrapposizione fra le due testate è interessante perché mostrano – come dire? – la tradizione e l’innovazione nella narrativa a fumetti: il primo rimanda all’approccio anteguerra, fondato sulla cultura popolare diffusa in Italia, con una prevalenza del feuilleton e delle atmosfere avventurose alla Salgari o ai romanzi di “cappa e spada”. Il secondo si lega invece ad un immaginario nuovo, più “moderno”, diciamo così, che, in quegli anni, è ancora una scommessa (che sarà rapidamente vinta perché l’albo tocca in poco tempo le 45.000 copie).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Dicevo che attraverso Tex (e poi le decine di fumetti di ambientazione western che nasceranno negli anni successivi) prende corpo il fascino per il west che arrivava al pubblico italiano attraverso il cinema. In questo modo le vignette di Tex sarebbero una interpretazione grafica delle vedute e delle sequenze dei film di John Ford. In realtà, probabilmente se analizzassimo le modalità della ricezione del fumetto e le confrontassimo con quelle dei film western troveremmo una realtà diversa, che Antonio Canova ha raccontato così:</div>
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
Per me, come per tanti della mia generazione, la Monument Valley e gli assalti alla diligenza, i ranch e i saloon, il profumo della frontiera e i binari della ferrovia in costruzione sono stati prima di tutto “segni” (o sogni…) conosciuti e frequentati sulle pagine di Tex. Erano le storie di Bonelli e i disegni di Galep a costruire un epos collettivo per una generazione – quella fra il dopoguerra e la metà degli anni Cinquanta – che non disponeva di un’epica né nazionale né generazionale, e che cercava di compensare con un immaginario da importazione la tragica mancanza di un immaginario autoctono e originale. (…) Nell’Italia povera degli anni Cinquanta, per i ragazzini che cercavano disperatamente mitologie portatili su cui fondare la propria incerta identità Tex Willer – e (…) i mitici “pards” – venivano prima (e forse arrivavano anche meglio) di John Ford, di John Wayne o di Anthony Mann. Il cinema era festivo, mentre il fumetto era feriale. Il cinema arrivava dopo. Solo dopo. Concettualmente, se non cronologicamente. E confermava, precisava, ribadiva. (…) Grazie al potere di veridizione delle immagini filmiche, il cinema funzionava come dispositivo inverante rispetto alla “realtà” dei sogni che avevano preso forma grazie ai disegni dei fumetti» <span style="font-size: x-small;">(G. Canova, Memorie di un texiano non pentito, “L’Audace Bonelli”, p. 171)</span>.</div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Non sappiamo se arrivi prima e meglio del cinema, però Tex rielabora l’immaginario western contaminandolo con altri immaginari, dal poliziesco all’horror al fantastico e così via, costruendo un “western italiano” che modifica i canoni originari dando vita a qualcosa di nuovo e inedito che ritroveremo, di lì a poco, anche nel cinema. Come ha scritto Sergio Brancato <span style="font-size: x-small;">(<i>Fenomenologia di Bonelli</i>, in “L’Audace Bonelli”, p. 127)</span>, Bonelli sposta gradualmente</div>
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
il suo universo immaginativo dai territori ancora ottocenteschi dell’avventura storica all’immaginario sovranazionale e compiutamente novecentesco del cinema hollywoodiano, rendendo Tex l’espressione di un desiderio diffuso di esperienze “liminali”, evidenziando un aspetto implicito nella moderna mitologia della frontiera, della “terra di confine”.</div>
</blockquote>
<h4>
Lo spaghetti western</h4>
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-TNKlbY1zvR4/VITPbM3B0-I/AAAAAAAAA5E/l7_1hwLPYrg/s1600/10%2B-perunpugnodidollari_locandina.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-TNKlbY1zvR4/VITPbM3B0-I/AAAAAAAAA5E/l7_1hwLPYrg/s1600/10%2B-perunpugnodidollari_locandina.JPG" height="320" width="219" /></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Inizierei ad analizzare il fenomeno che si è soliti chiamare “spaghetti-western” con una citazione, che mi sembra ne mette bene in risalto alcuni aspetti.</div>
<br />
<blockquote class="tr_bq">
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Quando uscì <i>Per un pugno di dollari</i>, nell’autunno del 1964, ricordo che vidi il manifesto in una pasticceria del centro di Grosseto (…) Mio fratello mi spiegò che era un film italiano, ma con nomi americanizzati, tutti finti. Possibile? Andavo pazzo per il cinema e il western era il mio genere preferito. Sapevo a mente <i>I magnifici sette</i>, <i>Un dollaro d’onore</i>, <i>Sfida all’O.K. Corral</i>, <i>Ultima notte a Warlock</i>. Mio padre mi portava a vedere ogni domenica un western (…) ma era stato mio fratello a portarmi a vedere i film che amavo di più, <i>Sentieri selvaggi</i> e <i>Il cavaliere della valle solitaria</i>. (…) Cosa c’entravano gli italiani? Ero già grandino, undici anni, quando [lo] vidi (…) Certo quel film cambiò completamente la mia idea del cinema western, anche se non abbandonai mai i grandi western americani che avevo amato. Rimasi attaccato allo schermo. Non avevo mai visto quei primi piani così ravvicinati, il sole sulle facce dei pistoleri, mai sentito quei suoni e quella musica. (…) Anche i miei compagni di classe andavano pazzi per i film western italiani. Ne mandai un paio a vedere <i>Un dollaro d’onore</i> (<i>Rio Bravo</i>, 1959), ma ritornarono furiosi, dicevano che quel film non c’entrava niente con il western. Cioè con il western italiano. (…) I miei compagni volevano i nostri western perché si sparava sempre, c’erano tanti morti e tanto sangue, poche donne e poche chiacchiere <span style="font-size: x-small;">(Marco Giusti, <i>Introduzione </i>a <i>Dizionario del western all’italiana</i>, 2007)</span>.</blockquote>
</blockquote>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-y8MFu1oR4N8/VITPdUwi7sI/AAAAAAAAA5Y/XjqvIuHB4ug/s1600/11%2B-perunpugnodidollari.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-y8MFu1oR4N8/VITPdUwi7sI/AAAAAAAAA5Y/XjqvIuHB4ug/s1600/11%2B-perunpugnodidollari.JPG" height="228" width="320" /></a></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<div>
<div style="text-align: justify;">
Anche Burt Kennedy, un regista, descriverà più o meno con le stesse parole il western all’italiana: a John Ford che gli chiedeva com’era, meravigliato che se ne girassero anche qui e riscuotendo pure un certo successo, rispose </div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
No story, no scenes. Just killing. </blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Fra l’altro, questa definizione dal tono un po’ supponente ci dice quanto la definizione spaghetti western fosse inizialmente spregiativa (e, per altro, omologa alle altre definizioni di western europei, tortillas western per quelli girati in Spagna e così via).</div>
</div>
<div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Il fenomeno è imponente</b>, così come in generale quello del western europeo: è stato calcolato infatti che tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta in Europa sono stati girati circa 600 film western. Per quanto riguarda <b>l’Italia </b>alcune stime parlano di <b>450 pellicole prodotte o coprodotte tra il 1962 e la metà degli anni Settanta</b>, anche se il periodo del massimo splendore del genere è tra il 1964, anno in cui esce <i>Per un pugno di dollari</i>, e il 1968, quando esce <i>C’era una volta il west</i>, entrambi di Sergio Leone (ma il <i>terminus ad quem</i>, per non essere troppo "leoniani", si potrebbe estendere fino al 1969-1970). Il numero impressionante di pellicole significa che il genere ha un enorme successo: il caso clamoroso è proprio quello di <i>Per un pugno di dollari</i> che, costato circa 120 milioni di lire e uscito un po’ in sordina, arrivò ad incassare più di due miliardi. </div>
</div>
<div>
<div style="text-align: justify;">
Ma basta guardare un po’ alle <b>classifiche </b>dei maggiori incassi cinematografici di quegli anni per rendersi conto della portata del fenomeno: giusto per fare un esempio, nell’annata cinematografica 1964-1965, oltre al campione del box office <i>Per un pugno di dollari</i>, terzo è <i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Una_pistola_per_Ringo" target="_blank">Una pistola per Ringo</a></i> con un miliardo e 195 milioni e sesto è la parodia western con Franchi e Ingrassia <i><a href="https://www.youtube.com/watch?v=wH63K71I7M4" target="_blank">Due mafiosi nel Far West</a></i> (un miliardo e 69 milioni). L’anno successivo, invece, tra i primi sei al box office, cinque sono spaghetti-western. Primo è <i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Per_qualche_dollaro_in_pi%C3%B9" target="_blank">Per qualche dollaro in più</a></i> (3 miliardi e 82 milioni) ; secondo <a href="https://www.youtube.com/watch?v=Msblm-FgzP4" target="_blank"><i>Un dollaro bucato</i> </a>con Giuliano Gemma (un miliardo e 451 milioni); terzo, sempre con Gemma, <i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Adi%C3%B3s_gringo" target="_blank">Adiòs Gringo</a></i> (un miliardo e 295 milioni); anche il quinto e il sesto incasso hanno per protagonista Ringo, il personaggio lanciato l’anno prima da Gemma (sono, rispettivamente, <i>100.000 dollari per Ringo</i> con un miliardo e 114 milioni, e <i>Il ritorno di Ringo</i> con un miliardo e 99 milioni).</div>
</div>
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-nVfDOem8zoQ/VITPbPqMriI/AAAAAAAAA5I/lYD93AB3HaQ/s1600/12%2B-ritornodiringo3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://2.bp.blogspot.com/-nVfDOem8zoQ/VITPbPqMriI/AAAAAAAAA5I/lYD93AB3HaQ/s1600/12%2B-ritornodiringo3.jpg" height="222" width="320" /></a></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<h4 style="text-align: justify;">
I motivi di un successo</h4>
<div style="text-align: justify;">
Alle origini di questa produzione così intensa, spesso avventurosa e con un forte tasso di improvvisazione, ci sono, da un lato, ragioni culturali e, dall’altro, motivi industriali. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo visto come esistesse un “amore” per le ambientazioni western che si era espresso attraverso le parodie, oppure il successo delle serie dedicate a Zorro. Ma, se si andasse a vedere la presenza dei film in sala nel 1963, si noterebbe l’abbondanza di riedizioni di western classici degli anni precedenti, tornati in sala per soddisfare – pare – proprio questa “voglia di western”. E qui entriamo negli aspetti più industriali: in quegli anni è diminuita la produzione di film hollywoodiani dedicati all’intrattenimento popolare, di cui il western era uno dei generi più caratteristici. La diffusione della televisione (che ha ritmi più rapidi rispetto all’Italia) aveva portato, da un lato, questo genere di produzione negli studios televisivi (con serie come <i>Rawhide </i>e Bon<i>a</i>nza, ad esempio, entrambe iniziate nel 1959), e, dall’altro, aveva indotto gli studios a puntare sui kolossal, che avevano delle caratteristiche che avrebbero dovuto riportare la gente al cinema; per quanto riguarda l’Italia, siamo nella fase della massima diffusione della commedia all’italiana, ma anche del film d’autore che ottiene successo commerciale (da <i>La dolce vita </i>in poi). C’è così spazio per produzioni cinematografiche a basso costo che possano colmare questo vuoto nel mercato: il western, in particolare con i meccanismi delle coproduzioni, si sposa benissimo con questa necessità. Come è stato scritto, </div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
il western all’italiana si dimostra un genere di grande agilità commerciale [che] esalta la capacità di trasformare la precarietà economica in estetica e di ottenere il miglior risultato da una base produttiva di solito piuttosto ristretta <span style="font-size: x-small;">[Luca Beatrice, <i>Il western all’italiana</i>, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. XI, 1965/1969, Marsilio, Venezia, 2002, p. 141]</span>.</blockquote>
<h4 style="text-align: justify;">
Riappropriazione simbolica</h4>
<div style="text-align: justify;">
E tuttavia questi elementi non bastano a spiegare le ragioni di un fenomeno di questa portata: se lo spaghetti western è stato negli anni della sua massima fortuna snobbato dalla critica, che lo giudicava un sottoprodotto (e spesso lo era anche), è però poi stato rivalutato, forse talvolta anche in misura superiore al suo reale valore. Oggi molti critici e storici del cinema tendono a rileggere il fenomeno in chiave culturalista sottolineando, da un lato, come quei film si approprino del topoi culturali e iconografici del cinema western americano reinterpretandoli sulla base di una matrice culturale più schiettamente nazionale; dall’altro, come molti di quei film consentano di capire – insieme ad altri prodotti dell’industria culturale di quegli stessi anni – il crescere delle tensioni sociali che poi sfoceranno negli “anni ‘68”.</div>
<div style="text-align: justify;">
Vediamo il primo aspetto. Quali sono i riferimenti culturali del western all’italiana? È stato scritto che</div>
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
le radici culturali del western all’italiana non hanno (…) alcun rapporto con il western americano, ma risalgono all’epica classica, alle Sacre Scritture, alla tragedia greca, alla letteratura manierista e alla commedia dell’arte <span style="font-size: x-small;">[L. Beatrice,<i> Il western all’italiana…</i>, p. 142]</span>. </div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Per esempio il personaggio di Clint Eastwood nella cosiddetta “trilogia del dollaro” di Leone, lo “straniero senza nome”, pare secondo alcuni critici rimandare, per certi versi, ad Ulisse ("il mio nome è nessuno") e, per altri, ad “Arlecchino, servitore di due padroni”, in particolare in <i>Per un pugno di dollari</i>. In modo ancora più esplicito nei primi due film che hanno per protagonista Ringo (<i>Una pistola per Ringo</i> e <i>Il ritorno di Ringo</i>, entrambi per la regia di Duccio Tessari e con Giuliano Gemma, ed entrambi del 1965) si citano molto liberamente l’Iliade e l’Odissea: in particolare ne <i><a href="https://www.youtube.com/watch?v=OOCXH6AQ2AQ" target="_blank">Il ritorno di Ringo</a></i> (1965)</div>
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
seguiamo il rientro a casa dell’eroe che, creduto morto, viene riconosciuto dal vecchio servo fedele, uccide i nemici e si riprende il maltolto <span style="font-size: x-small;">[L. Beatrice,<i> Il western all’italiana…</i>, p. 142].</span></div>
</blockquote>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-nVfDOem8zoQ/VITPbPqMriI/AAAAAAAAA5Q/CgZcHh0su2E/s1600/12%2B-ritornodiringo3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-nVfDOem8zoQ/VITPbPqMriI/AAAAAAAAA5Q/CgZcHh0su2E/s1600/12%2B-ritornodiringo3.jpg" height="222" width="320" /></a></div>
<span style="font-size: x-small;"></span><br />
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-7zPKVF__lm8/VITPdf5IPTI/AAAAAAAAA5c/1pcPzya8-eI/s1600/13%2B-%2Brequiescant.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-7zPKVF__lm8/VITPdf5IPTI/AAAAAAAAA5c/1pcPzya8-eI/s1600/13%2B-%2Brequiescant.jpg" /></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Alcuni critici hanno individuato dei riferimenti alle Sacre Scritture sia negli aspetti iconici (il Franco Nero di <i>Keoma</i>, film del 1976 di Enzo G. Castellari, con barba e capelli lunghi può rinviare alla classica iconografia cristologica, così come a quella hyppie), sia, semplicemente, in un certo tipo di titoli (<i>Dio perdona … io no</i> o <i>Un minuto per pregare, un istante per morire</i>, tanto per fare un paio di esempi) o nell’uso di oggetti che rimandano alla religione. </div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Non sempre però i rimandi sono così superficiali: in <i>Requiescant </i>(Carlo Lizzani 1967) ad esempio il personaggio principale prega sempre dopo aver ucciso un uomo, e c’è una figura di guerrigliero “pacifista” interpretato da Pier Paolo Pasolini che rimanda in modo abbastanza trasparente ai sacerdoti combattenti dell’America Latina degli anni ’60.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-hV0_PmO6ZJU/VITPeFUte5I/AAAAAAAAA5o/JUPOi8xdOBY/s1600/14%2B-%2BLIZZANI_requiescant02.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-hV0_PmO6ZJU/VITPeFUte5I/AAAAAAAAA5o/JUPOi8xdOBY/s1600/14%2B-%2BLIZZANI_requiescant02.jpg" height="246" width="320" /></a></div>
<h4 style="text-align: justify;">
La componente politica</h4>
<div style="text-align: justify;">
Questo ci porta al secondo aspetto, che costituisce un altro elemento che caratterizza fortemente i western italiani: la loro componente politica. Secondo lo studioso di cinema Steve Della Casa</div>
<blockquote class="tr_bq">
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
il western all’italiana era sì un cinema d’avventura, ma aveva soprattutto un contenuto politico molto forte. (…) Il western all’italiana non si spiega se non considerando gli anni in cui è nato, quel periodo ricchissimo tra 1965 e 1968, in cui si fecero strada il desiderio di rivolta a sinistra, la contestazione cattolica, il terzomondismo guevarista.</blockquote>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Da testimonianze dell’epoca sembra di capire che capitasse di frequente che i ragazzi si identificassero con gli eroi dei film e con il loro essere dalla parte degli sfruttati e degli oppressi. Ancora Steve Della Casa:</div>
<blockquote class="tr_bq">
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Se si è parlato di politica tra i ragazzi che andavano al cinema il sabato e la domenica, ciò è dovuto più al western che ai film degli autori giovani, come I pugni in tasca di Bellocchio, pure considerato film generazionale. Nel cinema western capivi che se Volonté rubava o ammazzava Castel lo faceva in senso politico, capivi la sua ribellione contro le figure degli imperialisti americani ed europei.</blockquote>
</blockquote>
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-gIMjXtOX6WQ/VITPg52F_xI/AAAAAAAAA5w/RZMlMXfVzlU/s1600/15%2B-la_resa_dei_conti_italian.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-gIMjXtOX6WQ/VITPg52F_xI/AAAAAAAAA5w/RZMlMXfVzlU/s1600/15%2B-la_resa_dei_conti_italian.jpg" height="320" width="228" /></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Ci sono film “politici” in senso dichiarato, come <i>Quien sabe?</i> (Damiani) o <i>Requiescant </i>(Lizzani) , o anche <i>Giù la testa </i>di Leone, e film di genere i cui personaggi assumono, nella ricezione del pubblico, una valenza politica: per esempio Sergio Sollima inventa nel film <i>La resa dei conti</i> il personaggio di Cuchillo Sanchez (interpretato da Thomas Milian), che diventa, nella ricezione del pubblico, un simbolo degli oppressi del terzo mondo e della loro possibilità di riscatto. Solo che questo carattere, come racconta lo stesso Sollima, è del tutto involontario:</div>
<br />
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
Cuchillo ha funzionato anche perché le platee, e i giovani in particolare, lo vivevano come uno di loro, Non era il supereroe freddo alla Clint Eastwood, era uno molto umano, che se doveva rubare rubava, che mentiva continuamente, che aveva tutti i difetti umani ed era di una classe sociale che nel western non era mai stata raccontata. E poi era il periodo del ’68, della contestazione, e anche se per parte mia non c’era nessuna intenzione di fare un film specificamente per quel pubblico, è andata così: il film è caduto in quel periodo, ed è stato visto e amato da quel pubblico.</div>
</blockquote>
<br />
<h4 style="text-align: justify;">
Un "metagenere"?</h4>
<div style="text-align: justify;">
Altri registi, invece, puntano esplicitamente ad utilizzare il western in chiave di metafora. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/-Dx60lsIMxgA/VITPiDS_u-I/AAAAAAAAA54/Qha3PHvgFCQ/s1600/16%2B-%2Bse%2Bsei%2Bvivo%2Bspara.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://1.bp.blogspot.com/-Dx60lsIMxgA/VITPiDS_u-I/AAAAAAAAA54/Qha3PHvgFCQ/s1600/16%2B-%2Bse%2Bsei%2Bvivo%2Bspara.jpg" height="320" width="239" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
E' il caso di Giulio Questi (<a href="http://www.pagina99.it/news/cultura/7637/Addio-a-Giulio-Questi-il-partigiano.html" target="_blank">recentemente scomparso</a>), autore di <i>Se sei vivo spara</i> (1967), che – ha raccontato - riversa nella pellicola le sue esperienze della guerra partigiana, dando vita ad un racconto molto crudo e violento, con sfumature quasi horror .</div>
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="285" src="//www.youtube.com/embed/ZTb-8xFArsk" width="530"></iframe><br />
<div style="text-align: justify;">
Tuttavia, sarebbe un errore cercare di individuare forzatamente dietro ogni spaghetti western delle interpretazioni politiche o sociali. Innanzitutto perché stiamo parlando di film di genere, che rispondono sia ad una logica narrativa che ad una logica commerciale, e spesso la seconda detta la prima (ad es. la nascita e il supersfruttamento di personaggi come Ringo, Django, Sartana ecc). In secondo luogo perché il capostipite del genere, Sergio Leone, intendeva il western "essenzialmente [come] favola e fantasia" (lo dice nella trasmissione tv <a href="http://www.raiscuola.rai.it/articoli/western-allitaliana/6091/default.aspx" target="_blank"><i>Western primo amore</i> del ciclo “Sapere”</a>). Così le sue storie non hanno un preciso riferimento (almeno apparente) con la Storia (tranne <i>Giù la testa</i>) ma soprattutto con il mito, con l’idea di west che hanno raccontato i film statunitensi: non è un caso che le sue pellicole più di tutte le altre siano state in grado di ridisegnare i modelli del racconto e i topoi iconografici del genere western, perché partivano da una profonda conoscenza e da una profonda riflessione proprio su di esso.</div>
<div style="text-align: justify;">
Così il suo ultimo film western, che non per caso s’intitola <i><b>C’era una volta il West</b></i>, segna in qualche misura l’addio ad un genere, e, allo stesso tempo, la definitiva sovversione delle regole del suo linguaggio cinematografico (a cominciare da Henry Fonda nel ruolo del cattivo): com’è stato scritto,</div>
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
è un’opera maestosa, dedicata alla grande mitologia del cinema americano e ai suoi eroi visti attraverso gli occhi di un grande cineasta europeo. Favola di un’epoca passata, <i>C’era una volta il West</i> punta sul tema del ricordo, ed è un vero e proprio dizionario enciclopedico in cui si ritrova tutto ciò che rende mitico il western, dalle suggestive locations della Monument Valley, omaggio ai western di Jhon Ford, fotografata da Tonino Delli Colli, alla evocativa scelta dei costumi, con la citazione dei lunghi spolverini, ancora dal fordiano <i>The Man Who Shot Liberty Valance</i> (1962). (…) La fine del West, la fine di un’epoca, sta tutta nella frase pronunciata da Fonda-Frank nel duello con Bronson-Armonica: “Il futuro non riguarda più noi due”.</div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Solo che sarà proprio la sovversione delle regole del genere operata da Leone a rilanciarlo, anche negli Stati Uniti, dove gli spaghetti western hanno un grande successo: parte della fortuna di <i>Per un pugno di dollari </i>deriva proprio dall’essere stato distribuito dalla United Artist negli Stati Uniti (anche se alcuni anni dopo la sua uscita italiana per una <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Per_un_pugno_di_dollari#Questione_legale" target="_blank">lunga causa legale</a>). Quando il film usci in Italia Tullio Kezich, critico del "Corriere della Sera", scrisse: </div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Niente da dire: il film è realizzato con competenza, il paesaggio spagnolo non è diverso da quello del New Mexico, gli effetti non hanno nulla da invidiare a quelli degli specialisti hollywoodiani. C'è tuttavia nel film qualcosa di eccessivo, che denuncia la mancata appartenenza al filone originario. Abbiamo visto western violenti di marca americana, ma in <i>Per un pugno di dollari</i> si esagera: stragi salgariane, torture sadiche, sangue che imbratta tutto il film. E nessun legame, ormai, con i miti della giustizia, della fantasia e della libertà. </blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Non poteva sapere che proprio questa libertà creativa e questa stilizzazione sarebbero state fatte proprie da registi americani come Sam Peckinpah, a cui si devono western come <i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Il_mucchio_selvaggio_(film)" target="_blank">Il mucchio selvaggio</a></i> (1969). Leone l’ha raccontata così: </div>
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Sam Peckinpah mi ha detto che Il mucchio selvaggio non sarebbe stato possibile senza i miei film. Fino a un certo momento i western sono stati una specie di gioco infantile, i personaggi morivano cadendo in avanti invece di essere spinti all’indietro. Le pallottole li penetravano senza lasciare traccia. Credo che <i>Per un pugno di dollari</i> abbia introdotto una svolta nella rappresentazione della violenza, e che abbia introdotto una forma di forma di realismo che adesso si può usare in questi film.</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Realismo e stilizzazione che trasformano il film in un modello per generazioni future di registi, così come le sue invenzioni, ad esempio il "triello", poi diventato "<a href="http://en.wikipedia.org/wiki/Mexican_standoff#In_film" target="_blank">stallo alla messicana</a>" e luogo comune della filmografia di Quentin Tarantino.</div>
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="285" src="//www.youtube.com/embed/Kmh6rdRhcOw" width="530"></iframe></div>
<div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
E così, dopo aver brevemente citato l'inizio della decadenza del genere con i film della serie <a href="https://www.youtube.com/watch?v=qxdq-_ZVHR4" target="_blank"><i>Trinità</i> </a>che "regolarizzavano" tutti gli eccessi che fino ad allora avevano fatto la fortuna dello spaghetti western, la lezione terminava sottolineando in modo circolare (avevamo iniziato con una citazione da Tarantino) i lasciti di una importante stagione cinematografica.</div>
</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-13339248355905350312014-12-09T09:30:00.000+01:002014-12-09T09:30:00.166+01:00Trasporti alimentari, "Cosmopolita", 9 dicembre 1944<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3k/yw-K_-u8mA8/s1600/cosmpolita_testata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://2.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3k/yw-K_-u8mA8/s1600/cosmpolita_testata.jpg" height="96" width="400" /></a></div>
Lo so, ho saltato una settimana ma per la puntata del 2 dicembre non avevo abbastanza materiale. L'articolo che uscì il 2 dicembre di settanta anni fa era intitolato "L'industria è ferma" e l'autore era Giovanni Mariotti: solo che nei miei appunti ho trovato solo poche righe generiche, che non dicevano molto più del titolo. Nell'impossibilità di tornare a vedere l'originale, era inutile farci un post.<br />
E così eccoci qui, all'articolo che, sempre settanta anni fa, scriveva su "Cosmopolita" Brunello Vandano: tema, i trasporti alimentari.<br />
L'articolo raccontava come erano organizzati i trasporti dell'Annona, accentrati in un Ufficio trasporti che coordinava le diverse imprese già esistenti come la Gondrand, la Fornari o Sagim. Ognuna di esse metteva a disposizione un certo numero di macchine e prendeva il 10% del guadagno di ciascun automezzo:<br />
<blockquote class="tr_bq">
l'Ufficio Trasporti (...) paga (...) lire 0,80 al quintale per ogni chilometro per le macchine che portano fino a 20 quintali. Per le macchine di portata superiore, si scende a lire 0,60.</blockquote>
Dunque, un viaggio di 100 chilometri con 10 quintali permetterebbe di guadagnare 800 lire ma, considerando che per percorrere 100 chilometri ci vogliono due giorni, calcolando anche la perdita di tempo per la burocrazia e così via, il guadagno non supera le 400 lire. Bisogna poi considerare il costo dei veicoli, spesso molto vecchi e quindi bisognosi di pezzi di ricambio che, a loro volta, costano molto. Così, annotava il cronista, per riuscire a guadagnare qualcosa i proprietari-autisti finiscono per fare della borsa nera, alimentando il circuito del mercato clandestino.<br />
<br />
L'inchiesta su Roma di "Cosmopolita" torna il 23 dicembre, con un articolo sulla delinquenza.<br />
<br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-85104419290398129492014-11-25T10:00:00.000+01:002014-11-30T07:56:28.643+01:00Disoccupazione, "Cosmopolita", 25 novembre 1944<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" height="96" width="400" /></a></div>
<br />
Per introdurre la puntata dell'inchiesta su Roma di "Cosmopolita" del 25 novembre 1944 userò la scena iniziale di un famosissimo film uscito quattro anni dopo, nel 1948: <a href="http://www.treccani.it/enciclopedia/ladri-di-biciclette_(Enciclopedia_del_Cinema)/" target="_blank">Ladri di biciclette</a>, di Vittorio De Sica.<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/JjMWe01CViY" width="420"></iframe><br />
L'inchiesta pubblicata sul n. 17, infatti, è dedicata alla disoccupazione ed è firmata da Oreste Lizzadri (<a href="http://www.treccani.it/enciclopedia/oreste-lizzadri_(Dizionario-Biografico)/" target="_blank">qui </a>trovate la voce a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli Italiani).<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Sono disoccupati da un anno e forse più. Hanno atteso la liberazione di Roma con la duplice speranza della libertà civile e della libertà economica, e ora si accorgono, forse inconsciamente, che senza quella economica, non esiste libertà civile tranne quella di starsene al sole, dir male del governo e morire lentamente di fame. Questa rassegnazione passiva ha qualche cosa di irraggiungibile: il lavoro, fa pena o mette spavento. Fa desiderare le masse irrequiete ed agitate del 1919-21: conscie della loro forza, reclamanti il lavoro come un diritto e non come un bene, che viene dal cielo. E anche questo è colpa del fascismo. Per vent'anni li ha disabituati alla lotta (...)</blockquote>
Ma di che cosa vive chi è disoccupato? Lizzadri lo chiede a cento disoccupati:<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
sedici sono passati alla borsa nera o sono diventati trasportatori; otto eseguono lavori di fortuna: facchini, guide, trasporta-bagagli ecc. Venti vivono aggrappati ad una persona di famiglia: la figlia impiegata, la moglie a servizio, il figlio lustrascarpe; dieci hanno preso la via della campagna (...), quattro hanno trovato un protettore in un ente o in una famiglia che dà loro da mangiare, dodici hanno ammiccato l'occhio senza spiegare le fonti della loro esistenza (borsa nera?). Il resto, maggioranza proporzionale, trenta su cento hanno aperto le braccia. </blockquote>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-49075892797658845902014-11-11T09:00:00.000+01:002014-11-30T07:57:07.577+01:00Dove si gioca, "Cosmopolita", 11 novembre 1944<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" height="96" width="400" /></a></div>
<br />
Post molto breve stavolta. Infatti della terza puntata dell'inchiesta di Cosmopolita, dedicata al <b>gioco clandestino </b>(l'autore è <b>Umberto De Franciscis</b>), mi ero annotato solo una brevissima sintesi: evidentemente allora avevo dato poco peso all'articolo e lo avevo giudicato come di scarso rilievo ai fini della mia ricerca.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/_7cvblEK9n1s/TKPN6fMGtoI/AAAAAAAACd4/05f3AfIh7pU/s400/Zecchinetta+gioco+di+oziosi+(disegno+Pinelli+1815).jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://1.bp.blogspot.com/_7cvblEK9n1s/TKPN6fMGtoI/AAAAAAAACd4/05f3AfIh7pU/s400/Zecchinetta+gioco+di+oziosi+(disegno+Pinelli+1815).jpg" height="180" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">la zecchinetta, in una classica acquaforte di Bartolomeo Pinelli</td></tr>
</tbody></table>
La cosa che però emerge con chiarezza dalle poche righe che avevo appuntato è che il gioco illegale era diffuso in ambienti diversissimi, dai circoli nobiliari e dell'alta società alle case private, che si organizzavano come delle vere e proprie bische, e fino al "gioco volante" in strada, in cui su tavoli richiudibili si organizzavano partite di roulette o di dadi.<br />
Avevo anche annotato che il cronista faceva risalire l'origine della diffusione del gioco d'azzardo al coprifuoco durante l'occupazione nazista.<br />
<br />
<div style="text-align: right;">
</div>
In realtà, come raccontano queste due immagini, e come sottolinea un commento sul sito <a href="http://www.romasparita.eu/foto-roma-sparita/33583/arco-degli-argentari-2" target="_blank">romasparita</a>,<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: right; margin-left: 1em; text-align: right;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://1.bp.blogspot.com/-IWFctqOQVwk/VGJBUmX0QFI/AAAAAAAAA2w/Xl-UWZCMNPk/s1600/arco_argentari_morra.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="238" src="https://1.bp.blogspot.com/-IWFctqOQVwk/VGJBUmX0QFI/AAAAAAAAA2w/Xl-UWZCMNPk/s320/arco_argentari_morra.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il gioco della morra davanti all'Arco degli Argentari, 1860 circa</td></tr>
</tbody></table>
da cui ho preso la fotografia qui accanto, la passione dei romani per il gioco d'azzardo sarebbe cosa ben nota e di lungo periodo. Può essere: certo è che, con ogni probabilità, anche questa voglia di gioco era una delle molte forme che assumeva quella disperata vitalità che aveva invaso la città nei mesi successivi alla guerra, e di cui <i>Cosmopolita</i>, come molta altra stampa di quei mesi, era testimone e protagonista ad un tempo.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-87200337605875924132014-10-28T09:30:00.000+01:002014-11-30T07:57:42.867+01:00La città ha fame, "Cosmopolita", 28 ottobre 1944<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" height="96" width="400" /></a></div>
<br />
La seconda puntata dell'inchiesta di "Cosmopolita" su Roma è dedicata ad uno dei problemi più drammatici della città, la fame. <i>La città ha fame</i> s'intitola infatti il reportage di Igor Stcherbatcheff secondo il quale circa 300.000 romani si nutrirebbero esclusivamente al mercato nero, di cui il giornalista cerca di capire i metodi di approvvigionamento.<br />
<blockquote class="tr_bq">
<div style="text-align: justify;">
Al sabato, in genere, avviene la distribuzione della razione di carne in scatola. al sabato sera o al massimo lunedì mattina, un nuovo quantitativo di scatolame invade il mercato nero. (...) Ogni scatola normale, fornita ai dettaglianti dai grossisti, contiene 800 gr. circa di prodotto netto. L'Udis <span style="font-size: x-small;">[uffici di distribuzione della Sezione Provinciale dell'Alimentazione, Sepral]</span> calcola però il peso netto del contenuto in circa gr. 700. Su ogni dieci scatole, di conseguenza, il dettagliante ne guadagna una.</div>
<div style="text-align: justify;">
Gli ammalati hanno diritto a una determinata razione settimanale di carne fresca. Accade tuttavia sovente che i quantitativi assegnati ai macellai non vengano smaltiti, e ciò specie nei quartieri poveri, a causa dell'alto prezzo di calmiere fissato per questo prodotto. Perché le quantità invendute non si deteriorino viene concessa la vendita libera delle eccedenze. di ciò approfittano i borsisti neri. Comperano la carne a 220 lire al chilogrammo e la rivendono a 380.</div>
</blockquote>
I posti di blocco - continua il cronista - vengono aggirati, sia usando i camion dell'esercito, italiano o alleato, sia le ambulanze, che in genere vengono utilizzate per trasportare la carne. Secondo un funzionario della Sepral combattere il mercato nero è quasi impossibile:<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
Abolire il razionamento sarebbe l'unico mezzo. Ed anche in tal caso i prezzi non scenderebbero, anzi. Vi è un mezzo indiretto che potrebbe avere un'efficacia per indebolire questo flagello: incoraggiare le cooperative di consumo e le mense aziendali. Sviluppare ancor più le cucine popolari.</blockquote>
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://www.romasparita.eu/foto-roma-sparita/files/2014/05/romasparita_12653-520x245.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://www.romasparita.eu/foto-roma-sparita/files/2014/05/romasparita_12653-520x245.jpg" height="299" width="640" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Via di Tor di Nona, luogo simbolo della borsa nera a Roma. <br />
Foto tratta dal sito www.romasparita.eu</td></tr>
</tbody></table>
Il "cuore" del mercato nero è il mercato di Tor di Nona, dove, racconta il cronista, la vendita non è né casuale né libera:<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
l'organizzazione, sin dall'epoca del dominio nazi-fascista ha stabilito che chi fa parte di questo mercato deve mantenere i suoi prezzi entro i limiti fissati dal consiglio dei maggiorenti. Organizzazione e maggiorenti sono tutt'uno: i proprietari dei tuguri, i signori del luogo. Ma poiché il rischio di un mercato all'aperto era troppo forte si ricorse ad una specie di assicurazione, Si pagarono alcuni agenti per essere avvisati di eventuali incursioni dell'Annona. Non so se tale "assicurazione" sia stata rinnovata dopo l'arrivo degli Alleati. Il mercato continua a funzionare come prima e meglio di prima.</blockquote>
Che cosa fosse <i>quella</i> fame lo spiega chiaramente un medico:<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: justify;">
settecento calorie al giorno, pane compreso. Capisci cosa vuol dire? (...) Potranno dire quello che vogliono. Carne di maiale distribuita nel mese di settembre: 2550 quintali? Benissimo. dividi. dividi per trenta giorni, poi per un milione e trecentosessantamila persone. E sai cosa ti dà? Sette grammi al giorno. (...) Sono dieci calorie (...) [e un uomo normale] se lavora consuma almeno duemila e cinquecento calorie.</blockquote>
La conseguenza è un incremento drammatico della mortalità infantile - salita a circa il 40% - e un aumento delle mense popolari, frequentate per la maggior parte da impiegati e professionisti, quasi sempre imbarazzati dal trovarsi lì (il tema tornerà in altre puntate dell'inchiesta): sono centoventitre, gestite da quattro diversi enti, e distribuiscono tra i duecentomila e i duecentotrentamila pasti al giorno.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-67881779587729687822014-10-21T10:30:00.000+02:002014-11-30T07:58:19.027+01:00Gli ospedali, "Cosmopolita" 21 ottobre 1944<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/--jJNEfR9StY/VHq_hurQHqI/AAAAAAAAA3g/7gOy3z925GU/s1600/cosmpolita_testata.jpg" height="96" width="400" /></a></div>
<br />
L'inchiesta di <i>Cosmopolita </i>su Roma inizia con un viaggio negli ospedali cittadini, realizzata da Brunello Vandano, che visita il Policlinico Umberto I - "l'ospedale dei poveri", descritto come un "fortino" - e l'ospedale di San Giovanni, definito "il peggior ospedale di Roma".<br />
Manca tutto, scrive Vandano: non ci sono biancheria e lenzuola, né guanti sterili e al San Giovanni si opera con le formiche in sala, senza anestesia né filo di sutura e, quando manca la corrente elettrica - cosa che avviene spesso -, gli interventi sono fatti alla luce delle lampadine tascabili.<br />
<blockquote class="tr_bq">
Una lotta che ha dell'epico si svolge (...) al Policlinico, come in molti altri ospedali, per sopperire alla mancanza di medicinali. E' avvenuto da qualche tempo un ripiegamento su medicinali vecchi e superati (...). Il laboratorio centrale del Policlinico non è in grado di funzionale. Al laboratorio analisi manca il gas, e spesso anche l'acqua viene meno. Manca o scarseggia il cloruro di sodio, e così l'acido solforico. (...) Infine manca una delle sostanze fondamentali, l'alcool. Eppure - ci si dice - l'alcool a Roma c'è (...) ma solo a borsa nera. Ora, il policlinico non fa borsa nera. (...) Questo è giusto, ma non toglie che si possa rimanere perplessi: di fronte a formidabili necessità è lecito o no venire a patti? (...)</blockquote>
<i>Cosmopolita</i> registrava in questo modo l'assottigliarsi del confine tra il lecito e l'illecito, nella Roma di fine 1944.<br />
Così come, nelle righe dell'inchiesta, emergeva la spinta ad una trasformazione dei costumi e della morale, ad una non meglio indicata palingenesi sociale ed economica che, per il momento, si limitava alla critica, anche radicale. Così, ad esempio, veniva censurato l'istituto delle cliniche universitarie del policlinico dove, sosteneva Vandano,<br />
<blockquote class="tr_bq">
il paziente è sottoposto allo sfruttamento culturale. (...) Ma non è giusto che un ammalato che non ha i mezzi per curarsi in una clinica a pagamento sia costretto per sopravvivere a diventare oggetto d'osservazione e di studio. (...) Siamo di fronte ad una delle mille articolazioni della crudele fondamentale legge della società capitalista, per cui tutto si deve pagare, e pagare in denaro, e pagare a interesse; per cui l'uomo non ha alcun diritto in quanto uomo, e nella vita non è elemento di misura il bisogno, ma il potere che ha l'individuo di restituire assicurando, con la folle distensione della ricchezza nel tempo, il guadagno del creditore.</blockquote>
<br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-13108621373870260972014-10-14T09:30:00.000+02:002014-10-14T09:30:00.784+02:00"Roma". Un'inchiesta, settant'anni dopo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
Settant'anni fa oggi, il 14 ottobre 1944, il settimanale romano <i><b>Cosmopolita</b> </i>iniziava a pubblicare nella sua ultima pagina un'inchiesta su <i style="font-weight: bold;">Roma</i> e sui suoi "problemi sociali ed economici".<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.maremagnum.com/uploads/item_image/image/87/cosmopolita-settimanale-vita-internazionale-diretto-511a91b1-abcb-4da5-b68e-cdfd072ced2e.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.maremagnum.com/uploads/item_image/image/87/cosmopolita-settimanale-vita-internazionale-diretto-511a91b1-abcb-4da5-b68e-cdfd072ced2e.jpg" height="320" width="228" /></a></div>
Essa, scrivevano i redattori,<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<blockquote class="tr_bq">
non avrà intento demagogico ma solo di chiarificazione morale e di avvicinamento spirituale dei cittadini sul piano del coraggio e della sincerità.</blockquote>
<div>
E poi, ancora:</div>
<blockquote class="tr_bq">
se l'inchiesta su Roma scoprirà tragedie, sozzure, bassezze, truffe, servilismi, egoismi, idiozie, impreparazione, scoprirà anche le cause più forti dell'uomo che portano l'uomo a tanta miseria, che però mai riusciranno a svuotarlo della sua essenza triste ma sublime di angelo decaduto.</blockquote>
<div>
C'è in queste parole tutto lo spirito della Roma di fine '44, quando l'euforia della liberazione iniziava ad essere indolentemente sostituita da un sentimento di disincanto, che sarebbe presto scolorato in qualcosa di peggio.</div>
<div>
<br /></div>
<div>
Settant'anni dopo, oggi, vorrei dare il mio piccolo contributo alle celebrazioni del settantesimo della liberazione, trascrivendo in tutto o in parte gli articoli che componevano quell'inchiesta e che, settimana dopo settimana, raccontavano a sé stessa una città dove si viveva come se la guerra fosse già finita e si provava ad immaginare quale strada avrebbe imboccato l'Italia.</div>
<div>
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/ARCH_Immagini/dossier/Tempo%20libero%20e%20Cultura/storie-dalla-storia/roma-1944-alleati-240.jpg?uuid=9cb62a58-504f-11de-a8e8-03a044239209" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/ARCH_Immagini/dossier/Tempo%20libero%20e%20Cultura/storie-dalla-storia/roma-1944-alleati-240.jpg?uuid=9cb62a58-504f-11de-a8e8-03a044239209" /></a></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
Se vi interessa saperlo, io ho "scoperto" <i>Cosmopolita</i>, uno dei settimanali più brillanti e interessanti di quella "vampata" della stampa (per usare le parole di Paolo Murialdi) che caratterizzò il panorama editoriale romano subito dopo la liberazione della città per un paio d'anni, all'epoca della mia tesi di laurea. Poi ci sono tornato con alcuni articoli, in varie occasioni: l'ultima è stata nel giugno 2004, dieci anni fa, nel convegno <i>Roma 1944-45: una stagione di speranze</i>, organizzato dall'Irsifar, Istituto Romano per la Storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza (<a href="http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=12945&Tipo=Libro&strRicercaTesto=&titolo=roma+1944-1945%3A+una+stagione+di+speranze%2E+l++annale+irsifar" target="_blank">qui </a>trovate il volume de <i>L'Annale Irsifar </i>che ne è stato tratto). </div>
<div>
Prima di allora avevo scritto un saggio su <i>Problemi dell'Informazione </i>(n. 2/1997), dedicato in particolar modo al panorama della stampa, e uno sulla <i>Rivista storica del Lazio </i>(n.6/1997) in cui mi occupavo soprattutto delle condizioni della città (potete leggerlo seguendo questo <a href="https://drive.google.com/file/d/0B1vGFbkSi2AvNl9vdWViVmJzb1U/view?usp=sharing" target="_blank">link</a>).<br />
Con questa serie di post, in qualche misura, chiudo un cerchio per tornare dove tutto è iniziato: una bella sensazione, in fin dei conti.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-34814296313778264882014-10-10T10:20:00.000+02:002014-10-10T10:20:59.312+02:00"Fratelli tute blu...": un articolo per "Mondo Contemporaneo"Premessa: più di un anno fa scrivevo questo <a href="http://andreasangiovanni.blogspot.it/2013/04/amerei-dimenticare.html" target="_blank">post</a>, raccontandovi che avrei partecipato ad un convegno sul 1977 organizzato al Senato da un gruppo di giovani storici.<br />
Il convegno - il cui titolo era Italia 1977: ambivalenze di una modernità - andò bene: molte relazioni erano interessanti e lanciavano sguardi non scontati su un anno che è sempre stato difficile raccontare.<br />
<br />
Oggi: i frutti di quel convegno hanno preso la forma di un numero monografico della rivista "Mondo Contemporaneo" (n.1/2014). <a href="http://www.francoangeli.it/riviste/sommario.asp?IDRivista=136" target="_blank">Qui</a> trovate l'indice.<br />
Nel frattempo, il mio intervento ha cambiato titolo.<br />
Più di un anno fa lo avevo intitolato "Amerei dimenticare", prendendo la frase dall'incipit di una scritta su un muro che secondo me spiegava bene il rapporto conflittuale fra mondo giovanile, mondo operaio, lavoro e Pci. (<span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt;">«Sopra un muro ho trovato scritto “Amerei
dimenticare” e falce e martello, specialmente falce e martello, che nel ’77 era
il simbolo del lavoro», diceva la frase).</span><br />
Ora, per esigenze di maggiore chiarezza, ho preferito cambiarlo con la citazione di un frammento di un verso di <i>Coda di Lupo</i>, in cui De Andrè cantava - ve lo ricordate? -<br />
<br />
<blockquote class="tr_bq" style="text-align: center;">
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">Ed ero già vecchio quando vicino a Roma </span></div>
<span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">a Little Big Horn </span></div>
</span><span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">capelli corti generale ci parlò all'Università </span></div>
</span><span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">dei fratelli tute blu che seppellirono le asce </span></div>
</span><span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">ma non fumammo con lui non era venuto in pace </span></div>
</span><span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">e a un dio fatti il culo non credere mai.</span></div>
</span></blockquote>
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: inherit;">Se vi interessa, <a href="http://www.francoangeli.it/riviste/Scheda_Rivista.aspx?IDArticolo=51514&Tipo=Articolo%20PDF&lingua=it&idRivista=136" target="_blank">qui</a>, sul sito dell'editore, trovate l'abstract e l'incipit dell'articolo.</span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-87030037667952877112014-09-26T09:29:00.001+02:002014-09-26T18:31:42.436+02:00una rivoluzione all'indietro (aspettando il nuovo corso di Dylan Dog)Ormai è un anno che il sasso è stato lanciato ma il suo effetto nello stagno dei lettori di fumetti, invece che diminuire col tempo, ha raggiunto le proporzioni di uno tsunami.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://www.mangaforever.net/wp-content/uploads/2014/07/Dylan-Dog-Color-Fest-13-cover-pulita.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://www.mangaforever.net/wp-content/uploads/2014/07/Dylan-Dog-Color-Fest-13-cover-pulita.jpg" height="320" width="226" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: xx-small;">Uno splendido ritratto di Dylan Dog, <br />realizzato da Lorezo Ceccotti (LRNZ) <br />per la copertina dell'ultimo Dylan Dog Color Fest</span></td></tr>
</tbody></table>
Fuor di metafora (nemmeno tanto riuscita: scusate), è ormai un anno che si aspetta il nuovo corso di Dylan Dog che, voluto dal creatore Tiziano Sclavi, ha investito della responsabilità e dell'onore di rilanciare il personaggio Roberto Recchioni, bravo - in alcune prove anche ottimo - sceneggiatore, disegnatore, profondo conoscitore del medium fumetto e, in generale, dei media, dal cinema al web, che è capace come pochi altri di utilizzare come cassa di risonanza per i propri lavori (prima che lo semi-abbandonasse migrando su facebook, il suo blog <a href="http://prontoallaresa.blogspot.it/" target="_blank">Pronto alla resa</a> era uno dei più seguiti in Italia).<br />
Di recente Recchioni ha rilasciato <a href="http://www.vanityfair.it/show/agenda/14/09/17/dylan-dog-novita-intervista-roberto-recchioni#gallery=19529-5" target="_blank">un'intervista a Vanity Fair</a> (da lui stesso definita come "la migliore intervista che mi è stata fatta a proposito del nuovo Dylan") in cui, in sostanza, parla della imminente "rivoluzione" su Dylan Dog come di un "ritorno alle origini". Probabilmente è proprio la strada giusta per ridare al personaggio quella forza "rivoluzionaria" che aveva avuto nel 1986, quando era arrivato in edicola, e che poi, col tempo, si era smarrita (per ricomparire a tratti).<br />
Ma dove risiedeva quella <i>magia</i> che fece di Dyd, oltre che un successo editoriale, un fenomeno di costume? perché chi lo leggeva - e aveva l'età giusta - scopriva di non essere solo, come annota giustamente il Rrobbe nella sua intervista a Vanity Fair? che cosa faceva, cioè, di Dylan Dog un fenomeno identitario, cosa che gli ha permesso di resistere a lunghi periodi di sceneggiature opache, in cui ciò che lo aveva reso speciale si rovesciava in un odioso luogo comune?<br />
<br />
Le risposte possibili sono davvero molte, e ogni lettore avrà le sue. Le prime che mi vengono in mente (e non penso di essere particolarmente originale) sono: le sceneggiature perfette e geniali di Sclavi, con i loro giochi di citazioni e rimandi, colte e pop allo stesso tempo.<br />
L'originalità dei disegni: il tratto spigoloso, schieliano direi, di Angelo Stano sul primo numero e le ombre alla Battaglia di Roi sul quarto, per non dirne che due, io non le avevo mai viste nelle mie esperienze di lettore fino ad allora (o meglio: le avevo viste sì, ma sulle <i>riviste</i>, non sui fumetti della stessa casa editrice di Tex. E sicuramente non su Tex).<br />
L'ironia.<br />
Il fatto che riuscissi a ritrovare la mia sensibilità di diciassettenne (le mie incertezze, i miei sogni, i miei ideali...) nel protagonista, che sicuramente non aveva diciassette anni.<br />
eccetera<br />
eccetera<br />
eccetera<br />
(e ogni lettore può completare la lista con le sue risposte preferite)<br />
<br />
Se però cerco di andare oltre i ricordi di lettore, con quella patina di nostalgia che inevitabilmente li colora, credo che ci sia qualcosa di più.<br />
Penso infatti che una delle chiavi del successo di Dylan Dog sia derivato dall'essere stato capace di intercettare lo spirito del tempo - degli anni Ottanta, e poi, almeno in parte, dei Novanta -, non per adeguarvisi ma per criticarlo. E criticarlo, diciamo pure <i>smontarlo</i>, con le armi della stessa cultura popolare che stava costruendo quell'immaginario.<br />
Per dire: nel 1986, mentre in edicola arriva Dylan Dog, al cinema c'è <i>9 settimane e mezzo.</i> In quel film, certo, c'è Kim Basinger che si spoglia al ritmo di <i>You can leave your hat on</i> di Joe Cocker: ed è forse questa la scena che è rimasta piantata nell'immaginario collettivo. Ma c'è anche Mickey Rourke che incarna lo spirito yuppie quando spiega che il suo lavoro è "fare soldi con i soldi". Dylan, invece, di soldi ne chiede pochi - appena "cinquanta sterline al giorno più le spese" - e spesso vi rinuncia pure.<br />
Dite che è solo una coincidenza? Ma è proprio questo che mi sembra interessante: non credo che gli autori abbiano cercato questa <i>corrispondenza inversa</i> ed è dunque proprio la sua casualità a renderla significativa di qualcosa di più profondo. Credo allora che se andassimo a guardare con attenzione le storie, cercando i possibili punti di contatto con l'immaginario collettivo che si andava allora formando, ne troveremmo diverse altre. E' un lavoro un po' lungo da fare: quasi un buono spunto per un saggio (se mai ci fosse qualcuno disposto a pubblicarlo...) ma sicuramente troppo per un post.<br />
Però, seguendo questa linea di riflessione, mi sembra chiaro che l'<i><a href="http://www.treccani.it/vocabolario/ethos/" target="_blank">ethos</a></i> <i>individualista</i> degli anni '80 (per dirla con le parole di <a href="http://books.google.it/books/about/Storia_d_Italia_degli_anni_Ottanta.html?id=YO0_AQAAIAAJ&redir_esc=y" target="_blank">Marco Gervasoni</a>) e quello di Dylan Dog sono in perfetta contrapposizione: empatia e attenzione nei confronti dell'altro caratterizzano l'atteggiamento morale e il comportamento dell'indagatore dell'incubo, laddove i modelli di comportamento diffusi sembrano invece indulgere ad un atteggiamento (appunto) individualista, concentrato su se stessi e sulla propria possibilità di raggiungere gli obiettivi che ci si è dati, anche a scapito degli altri (erano gli anni in cui si diffondeva l'idea che, come diceva Margaret Thatcher, "la società non esiste, esistono solo gli individui...").<br />
In realtà, questo scontro fra diversi <i>ethos </i>è addirittura più profondo. Uno dei concetti portanti della "filosofia" di Dylan Dog <span style="font-size: x-small;">(se siete fra coloro che credono che il fumetto sia roba da bambini e che non sia possibile parlarne, ricredetevi: per esempio <a href="http://www.mimesisedizioni.it/Il-caffe-dei-filosofi/Dylan-Dog.html" target="_blank">qui </a>e <a href="https://www.youtube.com/watch?v=RENUHUTYtYQ" target="_blank">qui</a>)</span>, è che "i mostri siamo noi", massima che a me sembra essere un rovesciamento dell'ethos individualistico in una profonda assunzione di responsabilità, piena di senso civico (vi dice niente Johnny Freak?).<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://cdn.komixjam.it/wp-content/uploads/2011/08/johnny_freak_dylan_dog_n_81_dylan_e_johnny1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://cdn.komixjam.it/wp-content/uploads/2011/08/johnny_freak_dylan_dog_n_81_dylan_e_johnny1.jpg" height="148" width="320" /></a></div>
Oppure, ancora, prendete una delle caratteristiche di Dylan, il suo romanticismo: non è in perfetta contrapposizione con il cinismo che sembra diventare così diffuso in quegli anni?<br />
<br />
E allora, tornando all'inizio di questo post, il ritorno alle origini può senz'altro essere una buona strada per un rinnovamento profondo della serie senza che questo significhi stravolgerne la filosofia. A me sembra che alcune delle storie di Roberto Recchioni (o di Paola Barbato, per citare un'altra eccellente sceneggiatrice della serie) si siano mosse in quella direzione: penso ad esempio a <i>Mather Morbi</i> e a <i>Il giudizio del corvo</i>, entrambe vicende che cercano di mettere a nudo il nocciolo pulsante dell'umanità di Dylan scarnificandone il personaggio.<br />
<br />
Rimane un punto interrogativo: Recchioni si è formato <i>con </i>quella e <i>di </i>quella cultura, come appare chiaro in molti suoi lavori, ispirati (oltre che a molte altre cose) all'immaginario degli anni '80 e, soprattutto, '90. Potrebbe quindi venire meno quella distanza critica che - immagino - nutrisse Sclavi quando scriveva alcune storie dylaniate. Ma Recchioni è troppo intelligente per cadere in questa trappola e non aderire al "canone" Dylan Dog, snaturandone una delle intime nature.<br />
Forse, invece, ciò che bisognerà fare (e che mi sembra, dalle anticipazioni che sono state fatte trapelare, abbiano in animo di fare) sarà aggiornare ai nostri tempi quella che ho chiamato una <i>corrispondenza inversa</i>: per rinnovarsi Dylan dovrà tornare ad essere in sintonia con i suoi tempi (che sono quelli dei lettori di oggi, e non quelli in cui è nato), estrarne il nucleo profondo e mostrarlo a tutti, grondante contraddizioni e orrori, insieme al proprio cuore, pulsante e sanguinante.<br />
Insomma, levarsi la maschera, ormai un po' screpolata, dell'indagatore dell'incubo e tornare ad essere Dylan.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-6405476043455493022014-08-15T09:30:00.000+02:002014-08-17T22:38:31.508+02:00un viaggio lungo novant'anni nell'immaginario italiano (sulla mostra del LUCE)<span style="font-size: x-small;"><i>Sono mesi, ormai, che questo blog tace. E allora, per contrappasso, mi sembra divertente tornare a farlo parlare quando tutti gli altri stanno zitti, giustamente impegnati ad arrostirsi sulle spiagge o a far prendere aria ai neuroni in montagna: a ferragosto.</i></span><br />
<span style="font-size: x-small;"><i>A chiunque vorrà perdere un po' di tempo da queste parti, buona lettura.</i></span><br />
<span style="font-size: x-small;"><i><br /></i></span>
C'erano due modi per raccontare i novant'anni dell'Istituto Luce, uno facile e uno difficile.<br />
Si poteva percorrere un sentiero sicuro, poco rischioso, e anche - tutto sommato - poco interessante: rievocarne la storia in modo lineare, utilizzando l'immenso patrimonio di immagini come documenti capaci di parlare da soli. Una via didascalica, già molte volte seguita: forse poco emozionante (se non per le sensazioni che ogni spettatore avrebbe potuto sentire come un'eco in risposta alle immagini) ma in fondo sicura.<br />
E poi si poteva percorrere un sentiero più difficile e pieno di rischi: prendere un concetto quasi abusato, di difficile definizione ma di facile intuizione, l'immaginario italiano, e lavorare su di esso e sul modo in cui l'Istituto Luce lo ha intercettato, attraversato, costruito nel corso dei suoi novant'anni di vita.<br />
E' stata questa la via scelta dai curatori (Gabriele D'Autilia e Roland Sejko, rispettivamente per la parte scientifica e artistica) della mostra <i>LUCE </i>- <i>l'immaginario italiano</i> che sarà in esposizione al Complesso del Vittoriano a Roma fino al 21 settembre.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.educational.rai.it/materiali/immagini_gallery/8777.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.educational.rai.it/materiali/immagini_gallery/8777.jpg" height="320" width="225" /></a></div>
Ho visto la mostra qualche tempo fa e se ve ne parlo è perché vale la pena visitarla, e magari tornarci più di una volta.<br />
Il sentiero impervio che hanno percorso i curatori, va detto subito, paga: hanno rischiato ma hanno ottenuto qualcosa di nuovo e bello. Questo non significa che non ci siano problemi, e ne parleremo. Prima, però, va sottolineato quello che funziona.<br />
Funziona il percorso espositivo, che è <i>allo stesso tempo</i> cronologico, tematico e costruito per assonanze o contrapposizioni visuali.<br />
Funzionano l'allestimento e la scenografia: i testi sono didascalici quel tanto che serve a permettere di orientarsi ai visitatori che non conoscono la storia del Luce (e quella dell'Italia a cui essa si sovrappone). Ma contengono piccole osservazioni, annotazioni, rimandi che coinvolgono - anche in modo critico - il visitatore più attento e lo studioso. La scenografia, poi, rimanda alla grafica degli anni Trenta e Quaranta (e non poteva essere diversamente, vista la storia dell'Istituto) ma la modernizza quel tanto che basta a renderla attuale anche per i decenni successivi.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.artemagazine.it/wp-content/gallery/luce-allestimento/foto-2-2.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.artemagazine.it/wp-content/gallery/luce-allestimento/foto-2-2.JPG" height="238" width="320" /></a></div>
Soprattutto funzionano i video, che inevitabilmente costituiscono l'elemento caratterizzante dell'intero percorso narrativo-espositivo.<br />
E' proprio in questi video che la scelta attualizzante e - oserei dire - ri-semantizzante degli autori emerge con tutta la sua forza. Voglio dire che la filosofia che, secondo me, guida l'allestimento è il <i>far parlare al presente documenti e immagini del passato</i>: non ci sono cartoline dal passato ma - quasi - sguardi sull'oggi, se non addirittura sul domani.<br />
I video originali, così, sono stati mescolati, manipolati, rimontati, in modo che emergessero dalle stesse immagini (sottolineate, evidenziate, decontestualizzate e ricontestualizzate con giochi grafici eleganti e non banali) ciò che le immagini non vorrebbero (o non avrebbero dovuto, per gli anni Trenta e Quaranta) dire.<br />
<br />
<span style="font-size: x-small;">Qui c'è un piccolo saggio di quello che voglio dire: appena un <i>divertissement</i> in realtà, giusto per lanciare la mostra.</span><br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/mK8vnm9gpqc" width="560"></iframe><br />
<br />
Nonostante questa sia la parte migliore della mostra (la regia dei video è di Roland Sejko), è anche la parte in cui si riscontrano alcuni problemi, soprattutto di audio: problemi di allestimento, dunque, mi viene da pensare. In effetti spesso l'audio dei diversi video si sovrappone, creando non poca confusione.<br />
Ma, in realtà (e credo del tutto involontariamente), questo difetto finisce per enfatizzare il rimescolamento che è stato realizzato nei video, accentuando quella ri-semantizzazione delle immagini a cui accennavo prima: così, in una sala dedicata ai video di Mussolini, l'audio che accompagna la carrellata delle facce del Duce che si accinge a parlare alla folla è quello del video che lo fronteggia dall'altra parte del corridoio, dedicato ai cambiamenti del costume: si innesca un cortocircuito straniante ma terribilmente efficace che dà un senso nuovo alle espressioni di Mussolini, viste mille e mille volte nei mille e mille documentari a lui dedicati.<br />
E, per inciso, anche in questo caso gli autori hanno saputo guardare oltre il luogo comune: il luogo comune (per il loro abuso nella storia "televisiva") sono, appunto, i discorsi di Mussolini, già visti e ascoltati decine e decine di volte a partire dall'antico (1998) <i>Parla Mussolini</i> di Nicola Caracciolo. Ma qui si vedono solo gli intermezzi, le attese, i silenzi, l'avvio (muto) dei discorsi o la loro conclusione, come se gli autori avessero voluto sottolineare che sono state soprattutto quelle espressioni, quelle posture, quelle mimiche, più che i contenuti dei discorsi che esse punteggiavano, a depositarsi nel nostro immaginario.<br />
<br />
Un altro problema riguarda gli anni Sessanta e Settanta, perché qui l'immaginario degli italiani cambia anche - e soprattutto - per mezzo della televisione. E la televisione è - gioco forza - assente (o quasi) nei materiali dell'Archivio Luce (che poi sono anche i cinegiornali della Settimana Incom e tutte le altre acquisizioni che negli anni l'Istituto ha potuto fare).<br />
Ancora una volta gli autori cercano di superare il problema giocando sull'allestimento, con pannelli video di grande effetto nei quali ci si perderebbe volentieri.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.culturaeculture.it/wp-content/uploads/2014/07/mostra-luce4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.culturaeculture.it/wp-content/uploads/2014/07/mostra-luce4.jpg" height="239" width="320" /></a></div>
E tuttavia rimane il problema di fondo che è stato soprattutto l'immaginario italiano della prima metà del Novecento ad essere attraversato e modellato - addirittura, in qualche misura, anche fondato - dal Luce. Il suo ruolo nel dopoguerra diventa sempre più marginale e, per quanto i curatori ne siano pienamente consapevoli e siano bravi ad indicare altri percorsi (come quello che vede il Luce produttore cinematografico, o fotografo), l'immaginario nella seconda metà del secolo c'è solo in parte. Li aiuta, certo, il fatto che concentrarsi sull'immaginario abbia voluto dire allontanarsi metaforicamente dalla storia politica per concentrarsi soprattutto su quella sociale (con ampie aperture al costume), cosa che gli permette di sfruttare al meglio le immagini degli anni Sessanta e Settanta quando i cinegiornali hanno sempre più come modello il rotocalco e sempre meno il quotidiano: ma le assenze si sentono.<br />
Così come si sente, almeno in qualche sezione, la mancanza di didascalie che indichino gli autori dei filmati originali: certo, il lavoro di ricontestualizzazione dei video è in contrasto concettuale con questo tipo di didascalie filologiche; e tuttavia la sala d'ingresso (dedicata ai primissimi video Luce, di natura educativa) e quella riservata ai documentari "d'autore" si sarebbero senz'altro giovate di questa ulteriore informazione.<br />
<br />
Ma, in fin dei conti, sono poche e marginali osservazioni critiche (anche se qualcun'altra se ne potrebbe fare) di fronte ad un lavoro notevole che ha il suo maggior pregio nel far "vivere" l'archivio Luce, facendolo parlare al presente e non più solo al passato.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-14259109987484758372014-05-01T17:09:00.000+02:002014-05-01T17:09:00.676+02:00tante immagini per salutare il primo di maggioPer ricordare il primo maggio di quest'anno mi affido a Rai Storia e alla selezione di immagini che hanno fatto. Le trovate se seguite questo link: <a href="http://www.storia.rai.it/articoli/da-chicago-a-roma-storia-per-immagini-del-primo-maggio/24778/default.aspx#.U2EI3V992Iw.blogger">Da Chicago a Roma: storia per immagini del Primo Maggio - Rai Storia</a><br />
Ma se non vi bastano e volete provare a capire un po' meglio che cosa sia stato il primo maggio, eccovene un altro po', tratte dal canale youtube della British Pathé:<br />
<br />
Un primo maggio londinese nel 1920<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/WLkpzJJLWBM?rel=0" width="420"></iframe><br />
<br />
E poi a Roma, nel 1955<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/gxngnMPqe1k?rel=0" width="420"></iframe><br />
<br />
Dite che ci sono un po' poche bandiere rosse? E ci sono un po' troppe immagini di piazza San Pietro? Certo, perché quello del 1955 è stato un primo maggio particolare: la chiesa festeggiava infatti, su indicazione delle Acli, San Giuseppe artigiano (leggete <a href="http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1955/documents/hf_p-xii_spe_19550501_san-giuseppe_it.html" target="_blank">qui </a>il discorso del Papa alle Acli) . E il conflitto simbolico che questa scelta sottendeva è entrato così profondamente nell'immaginario collettivo da diventare la sequenza di apertura de <i>La dolce vita</i><br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/pDHELQ3edlo?rel=0" width="420"></iframe><br />
<br />
Tre anni dopo la Pathé ci racconta l'intervento della polizia a Londra<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/3LDy76_68tk?rel=0" width="420"></iframe><br />
e le sfilate a piazza San Venceslao, in Cecoslovacchia<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/_G_mH_Ql-Zs?rel=0" width="420"></iframe><br />
<br />
...e buon primo maggioAnonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-89031865533820019572014-04-27T18:59:00.000+02:002014-04-27T18:59:16.819+02:00con le ali legateLa cultura in Abruzzo non se la passa bene.<br />
Giusto per dare qualche cifra indicativa, nel 2011 la graduatoria di quelli che si è soliti chiamare "consumi culturali" era questa:<br />su 1.266.000 abitanti (oltre i sei anni), il 58,8% è andata al cinema, il 33,8% ha assistito ad uno spettacolo sportivo, il 24,2% è andata a sentire un concerto (ma solo l'8,1% un concerto di musica classica); il 23,7% è andata in un museo e il 23,2% ha frequentato discoteche, balere o simili, il 19,7% è andato a teatro e il 17% ha visitato un sito archeologico o un monumento (si tratta di dati istat e se vi interessa il dettaglio, andate <a href="http://www3.istat.it/dati/catalogo/20111216_00/PDF/cap8.pdf" target="_blank">qui</a>).<br />
<br />
Lo scandalo che ha visto protagonista l'assessore regionale alla cultura e che, per i suoi toni boccacceschi (o forse da commedia pecoreccia dei tardi anni Settanta, non saprei), ha ottenuto una certa visibilità nelle cronache nazionali (volete un promemoria? ecco <a href="http://www.repubblica.it/cronaca/2014/01/20/news/mi_obbligava_a_fare_sesso_ecco_il_contratto_hard_tra_lassessore_e_la_segretaria-76419468/" target="_blank">qui</a>), non ha fatto che aggravare le cose.<br />
O forse, semplicemente, rivelarle.<br />
<br />
Fatto sta che, nell'imminenza delle elezioni regionali, sono molti i soggetti privati e pubblici che si stanno muovendo per richiamare l'attenzione sul ruolo centrale che la cultura può e deve svolgere nell'agenda politica regionale. Lo sta facendo il Club Unesco Città di Pescara che, attraverso il lavoro di un focus group, vuole individuare i punti centrali di un piano straordinario per la cultura in Abruzzo (<a href="http://www.siamoabruzzesi.net/2014/04/una-politica-culturale-per-labruzzo-un-appello-del-club-unesco-di-pescara/" target="_blank">trovate qui il comunicato stampa</a>). Lo ha fatto l'Università di Teramo che, insieme alla Provincia, ha organizzato l'11 aprile scorso un incontro intitolato <b><a href="http://www.provincia.teramo.it/sala-stampa/tesorocultura-un-manifesto-per-l2019abruzzo-che-vale" target="_blank">#tesorocultura</a></b>: <a href="http://www.unite.it/UniTE/Engine/RAServeFile.php/f/Rassegna_Stampa/130414__01.pdf" target="_blank">qui</a>, <a href="http://www.unite.it/UniTE/Engine/RAServeFile.php/f/Rassegna_Stampa/130414__02.pdf" target="_blank">qui</a>, <a href="http://www.unite.it/UniTE/Engine/RAServeFile.php/f/Rassegna_Stampa/130414__03.pdf" target="_blank">qui </a>e <a href="http://www.unite.it/UniTE/Engine/RAServeFile.php/f/Rassegna_Stampa/130414__04.pdf" target="_blank">qui</a> trovate una breve rassegna stampa dell'evento, in cui si accenna anche al video che ho realizzato insieme ad alcuni studenti della facoltà di Scienze della comunicazione su questo tema.<br />
<br />
Abbiamo scelto di intitolarlo <b>Con le ali legate. Impressioni sulla cultura in Abruzzo</b> e potete vederlo qui sotto <span style="font-size: x-small;">(ma visualizzatelo direttamente su youtube, per vederlo meglio, che qui è un po' costretto)</span>.<br />
<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="255" src="//www.youtube.com/embed/3w2iSc4Fgcw" width="500"></iframe><br />
<br />
Non è un reportage sullo stato della cultura in Abruzzo (che pure avrebbe meritato di essere fatto), né un viaggio sulle possibilità inespresse di una regione (cosa che certo non sarebbe di scarso interesse) ma solo una - come dire? - "fotografia emotiva" di quello che c'è qui ed ora, e dello stato d'animo di chi, per professione e per passione, guarda alla realtà della regione e di coloro che provano a fare cultura.<br />
E' uno sguardo limitato, ristretto, come ristretto è il numero degli interlocutori.<br />
Che tuttavia, per quanto pochi, sono stati pur sempre troppi per il minutaggio che ci eravamo dati come obiettivo iniziale.<br />
Ci eravamo detti, progettando il lavoro: dieci minuti massimo; e pensavamo a sette.<br />
Siamo arrivati a diciotto: e ce ne sarebbero voluti venti, o forse più.<br />
<br />
Il fatto è che ci sarebbe tanto da dire. Tante riflessioni da fare e tante storie da raccontare. Storie di passione e di sacrificio, spesso. E fin troppo spesso, di sprechi e di dissipazioni (di risorse, bellezza, dedizione, amore). Ma anche storie di successi e di inesausta volontà. Tutte storie che aspettavano solo qualcuno che le volesse ascoltare.<br />
<br />
Se questo video sarà anche solo un piccolo tassello di un percorso (lungo e faticoso) di risalita - e di rinascita, diciamolo pure - avrà fatto molto di più di quanto chi lo ha realizzato potesse sperare nel momento in cui lo stava facendo.<br />
<br />
Noi abbiamo lavorato di corsa, come sempre accade in questi casi.<br />
Ma ve lo posso dire con sincerità: è stato bello progettare e discutere con alcuni studenti di un tema del genere, così complesso e scivoloso; ragionare con loro sulle domande da fare; immaginare lo stile da adottare.<br />
E' stato bello anche pensare soluzioni visive che poi non si sono potute adottare.<br />
Scegliere.<br />
Scartare.<br />
<br />
E' stato un bel modo di fare università: certo diverso da una lezione; meno complesso - forse - di una dissertazione teorica. Ma un modo per crescere ed imparare, questo sì: di sicuro. Per loro e per me. E anche questa è cultura e trasmissione di sapere.<br />
<br />
<br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-82726448951305566932014-03-31T10:46:00.002+02:002014-03-31T10:46:38.000+02:00Una generazione d'emergenza ad Ascoli Piceno<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<span style="text-align: start;">Ecco qua:</span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-FqxGaaZq7t0/Uzkk-JBSCmI/AAAAAAAAAvM/HN8z8I-BBEg/s1600/presentazione+Silvia+Casilio-page-001.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-FqxGaaZq7t0/Uzkk-JBSCmI/AAAAAAAAAvM/HN8z8I-BBEg/s1600/presentazione+Silvia+Casilio-page-001.jpg" height="400" width="282" /></a></div>
il <b>4 aprile</b>, venerdì prossimo, alle <b>17,30</b> sono ad <b>Ascoli Piceno</b> per discutere insieme a <a href="http://docenti.unimc.it/docenti/silvia-casilio" target="_blank">Silvia Casilio</a> del suo libro <i><b>Una generazione d'emergenza</b></i> (Le Monnier, Firenze). Il sottotitolo è <i>L'Italia della controcultura </i>e questa qui è la copertina:<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.carmillaonline.com/wp-content/uploads/2013/12/UnaGenerazioneDEmergenza.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.carmillaonline.com/wp-content/uploads/2013/12/UnaGenerazioneDEmergenza.jpg" /></a></div>
<br />
Se volete qualche anticipazione in forma di recensione potete andare <a href="https://www.carmillaonline.com/2013/12/14/silvia-casilio-generazione-demergenza/" target="_blank">qui</a>. E altre ne troverete, se vi farete un giro su internet.<br />
Poi ne riparliamo venerdì.<br />
<br />
Per ora vi dico solo che una delle cose che mi hanno colpito del libro non è nel libro, ma sul sito della casa editrice che sta facendo un lavoro secondo me utile: mettere a disposizione dei lettori dei materiali aggiuntivi, di vario genere (documentario, iconografico), che non sono potuti confluire nel volume. Per vederli <a href="http://www.mondadorieducation.it/media/contenuti/multimediale/casilio_documenti/casilio_una_generazione2.html" target="_blank">seguite il link</a>.<br />
Si tratta di una sorta di compendio al già ricco materiale presente nel libro, utile per approfondire alcuni aspetti, ma anche per cogliere i processi di selezione che ha fatto l'autrice: selezione che, di fronte ad un materiale eterogeneo come quello di cui si è servita, è già parte del processo di analisi e di scrittura.<br />
<br />
Potrebbe essere fatto meglio?<br />
Potrebbe essere fatto meglio.<br />
Non tanto dal punto di vista della selezione, nel cui merito non entro perché il libro non l'ho scritto io, ovviamente, ma da quello dell'organizzazione per il web. L'uso di pdf mi sembra una scorciatoia (di cui capisco le motivazioni, economiche e di funzionalità innanzitutto) che finisce per sminuire la forza dei materiali. Meglio sarebbe stato, secondo me, osare dei percorsi multimediali da consultare on line: si sarebbe, forse, rischiato di fare perdere il lettore fra tutti questi rimandi, ma certo lo si sarebbe portato anche a cogliere - almeno in parte - la complessità e l'eterogeneità di quella cultura a cui Silvia Casilio ha cercato di dare sistematicità.<br />
Comunque una strada interessante che, percorsa in modo sistematico e con un minimo di investimenti, potrebbe rendere molto più permeabile il confine fra libri cartacei e digitali, soprattutto in ambito accademico (ma anche divulgativo).Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-55687045949775437402014-02-25T09:58:00.000+01:002014-02-25T16:02:31.446+01:00Tra luoghi e mestieri, il giorno dopo (quasi una recensione)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/-hYRuBup55Og/UwxSsbdJ8yI/AAAAAAAAAtw/hri-M7I0FDk/s1600/20140224_161401.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://1.bp.blogspot.com/-hYRuBup55Og/UwxSsbdJ8yI/AAAAAAAAAtw/hri-M7I0FDk/s1600/20140224_161401.jpg" height="200" width="150" /></a></div>
Come vi avevo annunciato, ieri sono stato alla Casa della Memoria e della Storia di Roma per presentare <i>Tra luoghi e mestieri</i>, il libro pubblicato dalle edizioni Ca' Foscari e curato da Gilda Zazzara.<br />
E' stata una bella occasione per discutere di lavoro, precarietà, identità, ma non è stata certo una presentazione - come dire? - ordinaria.<br />
"Ragazzi, è stata una bella cosa. Non so esattamente cosa, ma è stata bella", ci hanno detto dal pubblico alla fine.<br />
<a href="http://virgo.unive.it/ecf-workflow/script/copertine/CultureLavoro_1.png" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://virgo.unive.it/ecf-workflow/script/copertine/CultureLavoro_1.png" height="200" width="138" /></a>In effetti, assenze e presenze impreviste hanno finito per stravolgere il classico modulo della presentazione dei libri:<br />
il moderatore introduce<br />
parla il primo relatore<br />
parla il secondo<br />
"ci sono interventi dal pubblico?"<br />
silenzio<br />
"allora grazie a tutti".<br />
E alla fine abbiamo fatto pure un piccolo aperitivo con il pubblico, in cui la discussione è continuata a piccoli gruppi, mischiandosi con le chiacchiere sull'attualità politica.<br />
Naturalmente, non ho potuto usare il testo che avevo preparato. E allora lo metto qui sotto, quasi come se fosse una recensione.<br />
Chi fosse interessato, può continuare dopo il salto.<br />
Chi invece vuole leggersi il libro può seguire il <a href="http://edizionicafoscari.unive.it/col/exp/42/194/CultureDelLavoro/1" target="_blank">link</a>, perché la casa editrice lo ha pubblicato in forma digitale e gratuita.<br />
<br />
<a name='more'></a><br />
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Sono particolarmente lieto di essere qui oggi per parlare di
questo libro insieme a buona parte delle sue autrici innanzitutto perché è un
libro sul lavoro, ed è quanto mai opportuno tornare a parlare di lavoro oggi,
in una fase storica in cui questo tema sembra essere scomparso dal discorso
pubblico se non nella sua forma de-materializzata. Voglio dire che se ne parla
sempre in termini di statistiche, di indicatori economici, di progetti
legislativi (quando va bene), oppure di strategie imprenditoriali, trascurando
– per così dire – il “lato umano”, che poi è quello che dovrebbe interessarci
di più. <b>È come se, di fronte ad un
lavoro sempre più de-territorializzato e smaterializzato si fossero
de-territorializzati e smaterializzati i discorsi che lo riguardano, con il
paradosso che di lavoro si finisce per parlare sempre quando esso non c’è o
rischia di scomparire.</b></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Per inciso, ciò finisce, a sua volta, per condurre ad un
altro paradosso: che oggi le rappresentazioni pubbliche del lavoro somigliano terribilmente
a quelle del passato. Per esempio, quando è scoppiato il caso dell’Electrolux
(o meglio, quando se n’è accorta la stampa nazionale) su un quotidiano ho letto
un <i>reportage</i> molto bello sulla
situazione dei lavoratori dello stabilimento di Porcìa: il giornalista era
tornato davanti ai cancelli di una fabbrica e raccontava quello che aveva
visto, ridava la parola alle operaie e agli operai , come da tempo non vedevo
fare. Ma quello che ho letto era come l’eco di qualcosa che avevo già sentito
prima: infatti mi ha fatto tornare alla mente gli articoli degli anni della
“contingenza” del 1964 quando l’immagine pubblica degli operai, sulle cui
spalle avevano poggiato il miracolo economico, era di nuovo quella dei
“poveri”; oppure i resoconti della fine degli anni Settanta quando, di fronte
alla crisi economica e ai licenziamenti, gli operai tornavano a recitare sulle
pagine dei quotidiani e dei periodici la parte dei “poveri”. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Ciò che si perde in queste rappresentazioni – su cui ci
sarebbe da dire ma che inevitabilmente ci porterebbe lontano dal libro – è il
senso del lavoro, che viene ridotto ad un puro fattore economico. Quando invece
il lavoro è molto più di questo: è rete di relazioni; è conoscenza e
trasmissione della conoscenza; è, in una parola, <b>identità</b>, come questo volume ci mostra molto bene, pur descrivendo
situazioni molto differenti tra loro, per localizzazione geografica, per
tipologia di lavoro, per ambiente, per identità di genere. <b>È come se i saggi contenuti in questo volume, insomma, riuscissero a
dare “corpo” a quel lavoro che oggi si dice smaterializzato e
de-territorializzato.<o:p></o:p></b></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">In secondo luogo, come rileva anche Stefano Musso
nell’introduzione, il libro sembra confermarci che c’è ancora un interesse per
lo studio del lavoro: anzi, questo interesse sembra essere crescente – dopo una
fase in cui questo tipo di ricerche sembrava essere diventato estremamente
residuale – e, soprattutto, esso coinvolge le generazioni di studiosi più
giovani. In realtà, i segnali di una ripresa delle ricerche sul lavoro non sono
moltissimi, anche se sono significativi: un paio d’anni fa, ad esempio, è nata
la <a href="https://storialavoro.wordpress.com/" target="_blank">Sislav </a>(Società Italiana di Storia del Lavoro); e, se pure qualcuno si è chiesto se fosse proprio
necessaria una ulteriore associazione di categoria degli storici, tuttavia essa
mostra comunque l’esistenza di reti di ricerca spesso sganciate dalle
istituzioni come sindacati ecc. e, mi pare che sia l’elemento di maggiore
interesse, potrebbe dare impulso alla formazione di nuove reti tra studiosi. E,
sempre un paio d’anni fa, è iniziato il seminario annuale intitolato “Ascoltare
il lavoro”, dalla cui edizione 2012 questo libro è nato. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Certo, se i segnali di interesse per le ricerche sul lavoro
esistono, c’è anche da dire che non mi sembra (da quello che posso vedere dal
mio punto di osservazione, che è abbastanza defilato) che esse siano “nutrite”
e “sostenute” né da un dibattito pubblico (al quale accennavo prima) né,
soprattutto, sul piano scientifico e culturale. Del resto, i ricercatori che
hanno prodotto questi saggi sono tutti giovani e “precari”, argomento ben
illustrato nelle sue molteplici implicazioni da Gilda Zazzara
nell’introduzione: mi sembra che queste due loro caratteristiche echeggino, si
riflettano, sia nelle metodologie di ricerca, sia – soprattutto – nelle
“domande” che essi fanno alle loro fonti. E così, pur nella loro diversità,
tutti i saggi sembrano essere accomunati da alcuni temi di fondo.</span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Uno, ad esempio, è proprio l’idea della “precarietà”, il
confronto con un lavoro non stabile e incerto, e il modo in cui esso si
riflette sulla costruzione dell’identità del lavoratore. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Il primo dei cinque saggi, in questo senso, è quasi
“programmatico”: si tratta del lavoro di Eloisa Betti intitolato <i>Precarietà e fordismo. Le lavoratrici
dell’industria bolognese tra anni cinquanta e sessanta</i> che analizza un caso
specifico (sia per collocazione geografica e sociale, sia per la prospettiva di
genere) per mostrare come la “precarietà” del lavoro non sia un fenomeno
recente (e quindi collocato in un quadro economico e ideologico neoliberista)
né intrinsecamente legato al sistema di produzione postfordista. Ma anche negli
altri saggi l’attenzione al tema è marcata: la “precarietà”, ad esempio,
finisce per costituire quasi una “caratteristica” del lavoro dei pescatori di
Torre del Greco studiati da Maria Porzio, oppure dei molti mestieri del
proletariato romano, la cui identità operaia è delineata da Stefania Ficacci in
un saggio di lungo periodo, su cui tornerò.</span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Vorrei soffermarmi un momento su un aspetto che emerge dal
lavoro di Betti e che mi sembra apra ad una riflessione di più ampio profilo:
scrive l’autrice che, nonostante la precarietà sia stata una costante
dell’organizzazione del lavoro sin dall’inizio dell’età industriale, perché esso
è sempre stato strutturato «in funzione degli andamenti del mercato» (p. 18),
ancora negli anni Cinquanta e Sessanta «l’espressione “precarietà del lavoro”
(…) non era (…) stata oggetto di una vera e propria concettualizzazione e
quindi era ancora scarsamente utilizzata». D’altronde, aggiunge «non vi era
ancora una definita concezione di stabilità lavorativa in opposizione alla
quale elaborare quella di precarietà»: solo con le conquiste del ciclo di lotte
1968-1973, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, con la
crescita dell’occupazione industriale e il suo diventare la prima forma di
impiego, si arrivò a definire il lavoro stabile come «patrimonio comune» che
«iniziò a tutti gli effetti a connotare la condizione di lavoratori e
lavoratrici industriali» (p. 21). </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Da un lato, dunque, la precarietà non è argomento di
discussione pubblica (salvo che in ambiti ben definiti, all’interno del
sindacato o del Pci, per esempio) perché mancano “le parole per dirlo”;
dall’altro però sembra che sia la stessa situazione socio-economica a farle
mancare, addirittura a non rendere necessario il cercarle. Il caso delle donne,
poi, è particolarmente significativo in questo senso perché, come scrive ancora
l’autrice, «il lavoro femminile era (…) generalmente considerato instabile da
imprenditori, politici ed economisti, a causa di un presunto atteggiamento
delle donne, che si supponeva dessero la priorità ai compiti familiari rispetto
al lavoro» (p. 21). </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">E tuttavia credo che, in aggiunta a questi argomenti, si
possa sostenere anche che fossero le particolari condizioni del mercato del
lavoro e non rendere necessaria la ricerca di quelle parole adatte a definire
una pluriattività lavorativa che oscillava fra il lavoro agricolo e quello
industriale (negli anni cinquanta e sessanta, non a caso, si usava il termine
“metalmezzadri” per indicare queste particolari figure), oppure, come nel caso
della città di Roma, fra molti mestieri. Non è un caso, allora, che la parola
“precarietà” arrivi nel momento in cui si spezza l’equilibrio tra una forte
domanda di lavoro (anche e soprattutto dequalificato) e un’altrettanto
consistente offerta di braccia, che sembrano entrambe rientrare nel quadro di
un progresso lineare e apparentemente inarrestabile: negli anni Settanta la
sociologia introduce categorie come quella di lavoratori marginali (Betti, p.
42), e nell’opinione pubblica si diffonde l’idea di una precarietà del lavoro
che diventa anche precarietà esistenziale. Insomma, ho l’impressione che la
precarietà inizi a diventare un problema quando il lavoro stesso inizia a
diventare un problema, perché sempre più raro: condizione che, peraltro, finiva
per irrigidire le posizioni nelle grandi fabbriche e nell’aprire la strada alla
piccola e media impresa che si scopriva allora caratterizzare quella che si
iniziava a chiamare la “terza Italia”. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">E tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che quando il
termine “precarietà” si fa strada nel dibattito pubblico – e penso in
particolare alla fine degli anni Settanta – esso assume anche un senso
positivo: e non solo in coloro che predicavano un ideologico “rifiuto del
lavoro” nel ’77 e dintorni, ma anche in chi, di fronte alla crisi della
produzione industriale, abbandonava il lavoro in fabbrica per “mettersi in
proprio”. A questo proposito, mi viene in mente una biografia operaia
romanzata, il libro di Alberto Papuzzi intitolato <i>Quando torni. Una vita operaia</i> (Donzelli, 2007). Il protagonista è
Vittorio Sparàti, operaio e sindacalista che all’inizio degli anni 80 abbandona
la fabbrica sia perché intravede in un altro lavoro la possibilità di “fare i
soldi” ma soprattutto perché, per usare le sue stesse parole, «io sto vivendo
la cosiddetta decadenza produttiva della fabbrica. Non è la produttività che
conta, bensì il giro commerciale. Per cui, che spazio resta al lavoro operaio?
(…) Non è più il mio mondo, se mai lo è stato» perché «dopo quasi vent’anni che
faccio l’operaio, che mi vesto da operaio, io non sono quello lì (…) io mi
sento un estraneo» [Papuzzi, pp. 28-29 e p. 19].</span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Si trattava, insomma, di una questione di identità: se in
quegli anni finiva l’equivalenza fra identità personale e identità professionale,
che aveva fatto sì che la prima si formasse in gran parte sulla seconda, la
“precarietà” lavorativa poteva addirittura finire per essere vista come una
risorsa dal punto di vista identitario.</span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Identità, allora. Non mi sembra un caso che questo sia un
altro dei temi che si costituiscono un minimo comune denominatore fra i diversi
articoli: ho l’impressione infatti che l’attenzione a questo tema sia in
qualche misura il riflesso della difficoltà che si sperimenta oggi nel definire
sia un’identità legata al lavoro, sia l’identità del lavoro stesso. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Da questo punto di vista mi sembra che il saggio di Stefania
Ficacci (<i>Tra mestiere e quartiere. La
classe operaia romana alla ricerca di </i>un’identità) sia quello più ricco di
suggestioni perché, pur analizzando il caso molto particolare di Roma (dove si
cerca di limitare la presenza operaia sin dagli anni immediatamente
post-unitari, e dove quindi è particolarmente complesso dire che cosa sia “lavoro
operaio”), ci insegna la complessità e la multifattorialità nella definizione
di identità operaia, e – più in generale – dei lavoratori. Nel caso specifico –
ma su questo magari la chiamerei ad intervenire – le identità operaie, in una
città che tradizionalmente si vuole senza operai, si formano in forte relazione
con l’ambiente, e in particolare con i quartieri. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Se accogliamo questa chiave di lettura, tuttavia,
suggestioni simili si trovano anche in altri saggi come ad esempio quello di
Silvia Segalla, storia di vita di una rammendatrice vicentina (<i>Maria. Una rammendatrice al Lanerossi di
Piovene Rocchette</i>). E – direi – che, in generale, è uno dei molti
insegnamenti che ci viene dall’uso delle fonti orali nelle ricerche sul lavoro:
a me vengono in mente i lavori di Portelli su Terni, ma anche quelli di
Passerini e Filippa su Mirafiori che ci hanno mostrato l’esistenza, già negli
anni Sessanta (ma anche prima), di identità multiple dei lavoratori di
fabbrica, identità che contrastavano con la loro rappresentazione pubblica che
li voleva blocco monolitico e uniforme.</span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Del resto, in questo libro i lavoratori di fabbrica ci sono
poco e, soprattutto, non ci sono quelli che a lungo hanno rappresentato
nell’immaginario collettivo gli operai per antonomasia, coloro che lavoravano
nelle fabbriche ad alto tasso di meccanizzazione e con un’organizzazione di
tipo fordista. Di più: quando il lavoro fordista compare nelle storie
raccontate nel libro, esso introduce soprattutto elementi di criticità. In
particolare ci sono due dei cinque saggi che compongono il libro in cui si racconta
il passaggio da un lavoro qualificato e con forti tratti di artigianalità ad un lavoro di tipo fordista: quello di
Stefano Gallo (<i>“Brave mestole”, “mezze
mestole” e </i>manovali), in cui si racconta la storia dell’edilizia a Livorno
nel secondo dopoguerra attraverso lo sguardo di Giovanni Farneti, una “brava
mestola”, ovvero un muratore dalle alte capacità professionali, che nel 1972
lascia il proprio mestiere per entrare alla Pirelli. E quello, che ho già
citato, di Silva Segalla, la cui protagonista,
Maria, ad un certo punto della propria vita lavorativa passa dallo
stabilimento Numero Uno della Lanerossi, più simile al laboratorio artigianale
in cui era impiegata prima di entrare in fabbrica, allo stabilimento Numero
Tre, dove si applicano procedimenti meccanizzati. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">In entrambi i casi, benché questo cambiamento segni una
svolta nella loro vita lavorativa, nel loro racconto viene liquidato in poche
battute perché rappresenta un adeguamento a qualcosa che non viene sentito
propriamente come un “lavoro”nel senso pieno del termine: non ha, cioè, quelle
caratteristiche di applicazione di intelligenza, manualità, conoscenza che
rendevano i loro lavori generatori di identità. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Così, Stefano Gallo usa le parole della moglie del suo
testimone per spiegare quanto il passaggio da “brava mestola” a operaio di
fabbrica sia stato un passaggio necessario (per ragioni economiche e di
stabilità) ma doloroso: </span></div>
<blockquote class="tr_bq">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">"Lei fu contenta del passaggio di suo marito alla Pirelli?". La risposta ricevuta è stata indicativa: "Sì, da una parte, però dall'altra no, perché ha voluto dire non andare avanti con la sua cosa da muratore, e <i>si è dovuto specializzare come operaio</i>"</span></blockquote>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">E Silvia Segalla sottolinea come l’importanza del lavoro di
rammendo veniva sottolineata mettendola a confronto con la semplicità
dell’attività meccanizzata. Nelle parole di Maria</span></div>
<blockquote class="tr_bq">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">"Il rammendo era veramente un lavoro, perché quello quando lo hai imparato... Invece al Tre sì, impari, però è una cosa più manuale. Anche mio nipote che ha 11 anni quando ha imparato un po' come avviare la macchina... fa presto anche a caricarla, sono cose facili".</span></blockquote>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Addirittura, quando Maria viene
trasferita allo stabilimento Numero 1, il suo racconto si fonda tutto su coppie
oppositive in cui «la soddisfazione è sostituita dalla frustrazione; all’ilare
familiarità del reparto di rammendo si oppone un astio diffuso; all’agio di
star sedute lo stress di stare sempre in piedi; al silenzio rotto solo da voci
e risate il frastuono delle macchine; alla soddisfazione e al piacere la
stanchezza e il logoramento; alla pulizia e agli abiti “da festa” il pantano
oleoso degli ingranaggi, che imbratta i vestiti e l’umore» [pp. 66-67].</span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Insomma, siamo quasi di fronte ad uno slittamento da un
“mestiere” – costruttore di identità e connotato positivamente perché capace di
arricchire sul piano individuale oltre che professionale – ad un “lavoro”, neutro
dal punto di vista della connotazione identitaria ed accettato principalmente
per motivazioni economiche. Si tratta di
un passaggio centrale, che occhieggia in molti dei saggi e che,
cronologicamente, sembra potersi collocare fra anni Sessanta e Settanta, quasi sovrapponendosi
con una cesura nella storia del paese tra una sorta di “età dell’oro” e una
“età della crisi”. Se questo, come credo, è il punto di vista delle fonti che
tendono a sovrapporre la loro soggettività alle vicende del proprio lavoro (per
quanto le coincidenze tra le due esistano, come mostra bene il saggio di
Gallo), mi chiedo se sia lecito rispecchiarvi anche una sorta di lettura generazionale. Mi sono domandato,
cioè, se non vi si possa rintracciare, per quanto sottinteso (e forse
addirittura inconsapevole), anche il punto di vista di una generazione che
l’opinione comune vuole senza lavoro (e, ancora di più, senza mestiere) e
dall’identità liquida (per usare un termine abusato).</span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">E se così fosse, terminando di leggere il libro, è nato in
me il desiderio – direi quasi il bisogno – di leggerne uno che non è stato
ancora scritto, credo, e che indaghi, con gli stessi strumenti e la stessa
capacità analitica, la cultura del lavoro di questa generazione che oggi indaga
le culture del lavoro del passato.</span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Ma, a parte i miei desideri personali, vorrei notare – e con
questo concludere – che una tale attenzione a lavori “altri” è un ulteriore
elemento di interesse, così come la messa in discussione della centralità della
fabbrica fordista. </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: Times, Times New Roman, serif;">Elementi che, in fin dei conti, indicano un’esigenza di
rinnovamento di un tipo di ricerche che sono state a lungo dipendenti dalle
stagioni politiche in cui si svolgevano. </span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-71564650864038304872014-02-20T12:51:00.000+01:002014-02-20T12:51:21.828+01:00Tra luoghi e mestieri: lunedì 24 febbraio<b>Lunedì 24 febbraio </b>sarò alla <b>Casa della memoria e della storia di Roma</b> (Via S. Francesco di Sales, 5) per presentare questo libro.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://edizionicf.unive.it/col/exp/42/194/CultureDelLavoro/1" target="_blank"><img border="0" src="http://virgo.unive.it/ecf-workflow/script/copertine/CultureLavoro_1.png" height="320" width="222" /></a></div>
<br />
Cominciamo alle <b>16</b>, e avrò il piacere di parlarne con tre delle autrici (Gilda Zazzara, Eloisa Betti e Stefania Ficacci) e con <a href="http://www.aisoitalia.it/2008/12/28/giovanni-contini/" target="_blank">Giovanni Contini.</a><br />
Si tratta di un volume a più mani (gli altri autori sono Stefano Gallo, Maria Porzio e Eloisa Betti) che raccoglie alcuni saggi sul lavoro scritti da ricercatori giovani dal punto di vista anagrafico ma maturi per le capacità di ricerca e analisi.<br />
Naturalmente, qui non vi anticipo niente di quello che dirò: se siete interessati - e siete a Roma - venite anche voi alla discussione.<br />
Però voglio segnalarvi qualche elemento in più per inquadrare il libro (e magari farvi venire un po' di curiosità).<br />
I saggi affrontano alcuni temi del lavoro: e già questo è un punto a loro favore, in epoca di deindustrializzazione, esternalizzazioni e lavoro che, dopo essersi fatto immateriale, sembra farsi sempre più evaniescente. Ma lo fanno raccontando lavori tanto inusuali (non perché poco frequenti ma perché poco indagati) quanto interessanti: i mille mestieri dei quartieri popolari di Roma, i lavoratori del mare di Torre del Greco, le rammendatrici vicentine e così via. E lo fanno soprattutto attraverso gli strumenti della storia orale, da una prospettiva che non si può più definire insolita ma che, più la si usa più continua a rivelarsi ricca dal punto di vista euristico.<br />
Del resto, le ricerche nascono all'interno di un seminario dell'Università Ca' Foscari di Venezia chiamato "Ascoltare il lavoro" <span style="font-size: x-small;">(<a href="http://www.aisoitalia.it/2013/04/18/seminario-ascoltare-il-lavoro-4-venezia-ca-foscari-9-10-maggio-2013/" target="_blank">qui il programma dell'edizione 2013</a>)</span>, un'iniziativa che ormai ha qualche anno e che mi auguro continuerà a lungo. Anche perché ascoltando questi lavori del passato (il cuore dei racconti si situa tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta) continuiamo a porci domande sui lavori di oggi, ma anche sul modo in cui il lavoro e i suoi mondi sono stati raccontati fin'ora, all'ombra di idee e categorie la cui compattezza sembra venire sempre più erosa dalle ricerche di oggi.<br />
<br />
Ci vediamo lì, allora. <span style="font-size: x-small;">(questa è la locandina: se ci cliccate sopra si ingrandisce)</span><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-e-RvVMn7YSQ/UwXrbjhfBGI/AAAAAAAAAtg/LIcLCnqXLuk/s1600/invito+24+febbraio-page-001.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-e-RvVMn7YSQ/UwXrbjhfBGI/AAAAAAAAAtg/LIcLCnqXLuk/s1600/invito+24+febbraio-page-001.jpg" height="320" width="226" /></a></div>
Oppure - forse - ci rileggiamo da queste parti, così vi dico com'è andata e vi racconto qualcosa di più sul libro.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-71354871023263524102014-01-27T10:42:00.000+01:002014-01-27T10:42:10.793+01:00Il ricordo non si esaurisce in un giorno27 gennaio, giorno della memoria.<br />
Molti scrivono oggi sulla Shoah. Leggendo qua e là può venire il dubbio che la memoria che oggi ci si ricorda di praticare non sia un vero atto di rammemoriazione, ma solo una forma di partecipazione - più o meno formale - ad un rito civile.<br />
E' utile? La domanda risuona sin da quando, <a href="http://www.camera.it/parlam/leggi/00211l.htm" target="_blank">14 anni fa</a>, questo giorno fu introdotto per legge nel nostro calendario civile. Quanto accaduto l'altro giorno a Roma (i pacchi con le teste di maiale recapitati alla Sinagoga di Roma, al museo che ospita una mostra sulla Shoah e all'ambasciata israeliana: <a href="http://www.corriere.it/cronaca/14_gennaio_25/pacco-testa-maiale-sinagoga-roma-sindaco-un-insulto-giorno-memoria-febb737e-854d-11e3-a075-38de66619eb5.shtml" target="_blank">qui </a>e <a href="http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/01/25/news/teste_di_maiale_inviate_alla_sinagoga-76891584/" target="_blank">qui </a>la cronaca, <a href="http://www.gadlerner.it/2014/01/26/il-maiale-la-shoah-negata-il-ghetto-unoffesa-per-tutti" target="_blank">qui </a>un commento di Gad Lerner) dimostra che sì, è utile. Ancora e sempre.<br />
<br />
Io, oggi, non aggiungerò le mie parole a quelle di chi, con maggiore competenza di me, parla di Shoah e memoria. Preferisco, stavolta, usare quelle di altri, per dare uno sguardo ad un tema che inizia a diventare centrale in questa discussione: il modo in cui questa memoria sia entrata a far parte del nostro immaginario collettivo, passando attraverso una rappresentazione <i>pop</i> ma, allo stesso tempo, diventando anch'essa una rappresentazione <i>pop</i>.<br />
Le parole a cui vi rimando sono quelle di Damiano Garofalo, un ricercatore di storia che è responsabile della videoteca della Fondazione Museo della Shoah di Roma, che riflette sulla forza pop della Shoah in questo articolo:<br />
<br />
<div class="title_page" style="background-color: #f9f9f9; border-bottom-color: rgb(21, 21, 21); border-bottom-style: solid; border-bottom-width: 5px; color: #333333; font-family: Georgia, 'Times New Roman', Times, serif; font-size: 13px; line-height: 22px; margin: 0px 0px 10px; padding: 0px 0px 10px;">
<h1 style="color: #151515; font-family: Oswald, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 36px; font-weight: normal; letter-spacing: -1.5px; line-height: 42px; margin: 5px 0px; padding: 5px 0px; text-shadow: rgb(204, 204, 204) 2px 2px 0px; text-transform: uppercase;">
LA SHOAH È ANCORA “IL MALE ASSOLUTO”?</h1>
<div class="postauthor" style="margin: -5px 0px 5px; padding: 0px;">
<div style="color: #999999; padding: 0px;">
di <b><a href="http://www.minimaetmoralia.it/wp/author/minimaetmoralia/" rel="author" style="-webkit-transition: background 0.25s, color 0.25s; color: #006969; transition: background 0.25s, color 0.25s;" title="Articoli scritti da: minima&moralia">minima&moralia</a></b> pubblicato domenica, 26 gennaio 2014 · <a href="http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-shoah-la-cultura-pop-e-la-giornata-della-memoria/#respond" style="-webkit-transition: background 0.25s, color 0.25s; color: #006969; transition: background 0.25s, color 0.25s;">1 Commento</a> </div>
</div>
</div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; font-family: Georgia, 'Times New Roman', Times, serif; font-size: 13px; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
<em>Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria. Vorremmo approfittare di questa occasione di riflessione per postare una serie di tre, quattro articoli sul temi legati alla Shoah e alla memoria. </em></div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; font-family: Georgia, 'Times New Roman', Times, serif; font-size: 13px; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
di <strong>Damiano Garofalo</strong></div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; font-family: Georgia, 'Times New Roman', Times, serif; font-size: 13px; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
A poco meno di settant’anni dalla fine della guerra e a quasi dieci dall’istituzione internazionale della Giornata della Memoria, è ancora possibile definire la Shoah – lo sterminio di circa sei milioni di ebrei d’Europa – come il paradigma storico del cosiddetto «male assoluto»?</div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; font-family: Georgia, 'Times New Roman', Times, serif; font-size: 13px; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
<em>Adorno, l’indicibile e la cultura pop</em>. Nell’era della post-memoria, tutte le immagini assumono un potere iconico: oltre a essere proiettate nella massmedialità, infatti, esse si pongono in una dimensione dialettica con l’immaginario pubblico del trauma. Il percorso di questo immaginario relativo alla Shoah ha però fatto storicamente i conti con delle resistenze culturali, che ne hanno accompagnato l’intero processo formativo.</div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
<span style="font-family: inherit;"><a href="http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-shoah-la-cultura-pop-e-la-giornata-della-memoria/" target="_blank">Continua qui</a></span></div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
<br /></div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
E poi ad un sito di critica fumettistica,<b><i> Lo Spazio Bianco</i></b>, che ha raccolto le recensioni e le riflessioni che ha fatto negli anni sulle diverse narrazioni grafiche dello sterminio, un utile compendio (al di là delle opinioni sui singoli albi) al discorso introdotto da Garofalo. Li trovate <a href="http://www.lospaziobianco.it/series/fumetto-guerra-olocausto" target="_blank">qui</a>.</div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
Buona lettura.</div>
<div style="background-color: #f9f9f9; color: #333333; font-family: Georgia, 'Times New Roman', Times, serif; font-size: 13px; line-height: 22px; padding: 6px 0px;">
<br /></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-45378342506366758352014-01-08T16:27:00.000+01:002014-01-09T14:43:23.157+01:00Gli anni spezzati (ovvero, della fiction, della storia e del non capirci niente)Cinquemilionicentoquarantunomila spettatori.<br />
Uno share del 18,66%.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://imageshack.com/a/img690/387/ymf4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://imageshack.com/a/img690/387/ymf4.jpg" height="168" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il cast della fiction <i>Gli anni spezzati</i></td></tr>
</tbody></table>
Numeri importanti per la prima puntata di una fiction in tre parti (e sei puntate) di Rai Uno, <i>Gli anni spezzati, </i>per la regia di <a href="http://www.imdb.com/name/nm0224765/" target="_blank">Graziano Diana</a> (se vi è piaciuta, la pagina facebook è <a href="https://it-it.facebook.com/pages/Gli-anni-spezzati-La-serie/651005931606595" target="_blank">qui</a> e <a href="http://www.gliannispezzati.rai.it/dl/portali/site/page/Page-394bea79-e47f-43bb-b2e2-d51a70735845.html" target="_blank">qui </a>c'è il sito dedicato) che racconta, per usare le parole della presentazione ufficiale,<br />
<br />
<blockquote class="tr_bq">
<span style="background-color: white; text-align: center;"><span style="font-family: inherit;">I dieci anni che hanno sconvolto l’Italia, raccontati dal punto di vista di chi ha combattuto cercando di salvare la nostra Repubblica</span></span></blockquote>
<span style="background-color: white; font-family: Arial; font-size: 11px; text-align: center;"><br /></span>
Solo che a questi numeri corrisponde un lavoro che mi limiterò a definire modesto, sia pure entro i canoni della fiction italiana. E poiché non sarebbe corretto pretendere di valutare ore e ore di fiction da una sola puntata, sono sempre pronto a ricredermi se dovessi riuscire a seguire anche le prossime.<br />
<br />
Però non ce la faccio a tenermi dal sottolineare un paio di elementi che sono evidenti sin da ora.<br />
<br />
Il primo è un dettaglio, qualcosa che magari sarà sfuggito a molti.<br />
Esterno giorno. Scontri in strada. Studenti e operai si menano con la polizia.<br />
E' uno snodo importante per la storia (e, <i>en passant</i>, per le vicende di quegli anni): sono gli scontri di via Larga a Milano, in cui muore l'agente Annarumma che, nella fiction, porta uno dei protagonisti ad un momentaneo ripensamento sulla sua scelta di vita. <br />
Ma ciò che mi colpisce è sullo sfondo: un uomo regge un cartello con scritto, stampatello, FIOM CISL.<br />
Un'inquadratura, niente di più.<br />
Ma quanta superficialità, quanta approssimazione, quanta poca attenzione in quell'oggetto di scena.<br />
<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-XAd6c2P7XpQ/Us6nWJjJ9nI/AAAAAAAAArI/kgAJjCY3HiU/s1600/gli+anni+spezzati+FiomCisl.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://2.bp.blogspot.com/-XAd6c2P7XpQ/Us6nWJjJ9nI/AAAAAAAAArI/kgAJjCY3HiU/s1600/gli+anni+spezzati+FiomCisl.JPG" height="223" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">il frame in questione</td></tr>
</tbody></table>
<br />
<br />
Passiamo alle cose più serie.<br />
Quanto sia difficile per il cinema raccontare il terrorismo ormai ce lo hanno detto in molti, da <a href="http://books.google.it/books/about/Schermi_di_piombo.html?id=uPRkAAAAMAAJ&redir_esc=y" target="_blank">Christian Uva</a> a <a href="http://books.google.it/books/about/Tragedia_all_italiana.html?id=irsOKgAACAAJ&redir_esc=y" target="_blank">Alan O'Leary</a> a <a href="http://www.postmediabooks.it/2014/109cinematerrorismo/cinematerrorismo.htm" target="_blank">Luca Peretti e Vanessa Roghi</a>, per non citare che alcuni autori.<br />
Qualche volta la televisione ha dimostrato di saper fronteggiare con capacità la materia: vi ricordate <i>La meglio gioventù</i>? Ecco, con tutti i limiti che gli si possono riconoscere, in quel racconto il tentativo di inquadrare anni difficili era portato avanti con attenzione, cercando di mostrarne la complessità intrecciando continuamente la grande storia e le piccole storie quotidiane.<br />
In questi <i>anni spezzati</i>, invece, c'è qualcosa che lascia perplessi sin dall'introduzione.<br />
Affidata alla voce narrante di un giovane poliziotto, la serie viene aperta da un monologo che, su un montaggio di immagini di repertorio, dice più o meno:<br />
<blockquote class="tr_bq">
quando ero giovane l'Italia usciva dalla guerra, c'era passione e c'era felicità, a casa arrivarono la lavatrice e il frigorifero. Erano anni belli. Poi non ci si capì più niente. Arrivò quella cosa che non ho mai capito bene cosa fosse, la congiuntura, e in strada c'erano scioperi e violenza.</blockquote>
Prima, dunque, gli <i>anni belli</i>, gli anni '60.<br />
Poi, scioperi e violenza: gli <i>anni spezzati</i>, gli anni '70.<br />
La serie si concluderà nel 1980, con la sconfitta della lotta dei "35 giorni" alla Fiat. Allora, quindi, è lecito ipotizzare sin da ora che, nelle intenzioni degli autori, finiscano gli anni spezzati e comincino anni nuovi, magari <i>da bere </i>e di nuovo belli e spensierati.<br />
Gli anni '70 come parentesi, dunque?<br />
Di nuovo, è solo un'ipotesi che verrà confermata o smentita dal seguito della visione: ma già il fatto che si sia scelto di privilegiare le storie intime e l'intreccio di genere, senza provare neppure ad approfondire il contesto che ha portato a quegli esiti, la dice lunga.<br />
Le strade della fiction e del racconto storico, così, divergono ancora una volta.<br />
E di anni difficili, spezzati o no, sarà difficile capirci qualcosa guardando questo racconto.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-58928998749721343912014-01-07T15:32:00.000+01:002014-01-07T15:32:24.451+01:00Un post lungo un secolo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.ilmuromag.it/wp-content/uploads/2013/05/La-persistenza-della-memoria-Salvador-Dali.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.ilmuromag.it/wp-content/uploads/2013/05/La-persistenza-della-memoria-Salvador-Dali.jpg" height="240" width="320" /></a></div>
Certo che come autore di blog non valgo molto: solo oggi riesco a trovare il tempo - e chissà forse, inconsapevolmente, anche la voglia - di aggiornare queste pagine. E il 2014 è iniziato già da una settimana.<br />
Non vi ho salutato nel 2013 con quelle cose che tutti fanno quando finisce un anno: classifiche delle cose migliori e peggiori e altra roba simile.<br />
Non vi ho accolto nel 2014 con un post di benvenuto: manco un'immagine, un pensiero, qualcosa rubata da qualcun altro.<br />
Niente.<br />
E oggi sono qui a chiedermi pubblicamente se valga ancora la pena tenere un blog se poi non riesci ad aggiornarlo.<br />
Forse arriva un momento in cui bisogna lasciarsi alle spalle qualcosa: le motivazioni, i progetti, le idee cambiano; e ciò che funzionava fino a qualche mese fa, ora non funziona più.<br />
Però.<br />
Però, se gli orologi molli di Dalì con cui ho aperto questo post mi hanno sempre suggerito l'idea di un tempo che fugge, si squaglia e svanisce, il titolo del suo quadro è "la persistenza della memoria".<br />
E dunque non lascio stare.<br />
Non ancora.<br />
Ci proverò a portare avanti queste pagine, magari ripensandole un po'.<br />
E, come si faceva quando eravamo piccoli a inizio anno, formulo i miei buoni propositi per i 12 mesi a venire: una piccola idea per proseguire queste pagine. Se riuscirò a portarla a termine, allora il blog vivrà.<br />
Sennò, vorrà dire che ciò che mi spingeva a tenerlo in piedi non c'è più e, senza rammarico, gli diremo tutti insieme addio.<br />
<br />
Se ti interessa sapere cosa ho in mente (e ti stai chiedendo se il titolo del post ha un senso, oppure se ho solo scritto le prime parole che mi sono venute in mente) prosegui dopo il salto. Altrimenti ci sentiamo un'altra volta.<br />
<br />
<a name='more'></a>Il titolo del post, ovviamente, un senso ce l'ha ed è la sfida (piccola piccola) che mi faccio per il 2014.<br />
Quest'anno, come sapete, ricorrono i cento anni dall'inizio della prima guerra mondiale. E allora la sfida è: ricorrenze, coincidenze, memorie, anniversari lunghi un secolo.<br />
Uno o più post per raccontare ogni anno "4" dei cento anni che passano tra il 1914 e il 2014.<br />
Non lo farò a scadenze fisse, e non rispetterò propriamente gli anniversari; non so, il giorno in cui iniziò la prima guerra mondiale; oppure, per citare una data che ho già perso, il giorno di inizio delle trasmissioni regolari della Rai. In quei giorni saranno (e sono stati, in riferimento al 3 gennaio) troppi quelli che scriveranno (e hanno scritto) di quella ricorrenza perché chiunque abbia voglia di leggere pure le mie cose.<br />
Però ci saranno almeno 10 post in cui affronterò una data di un anno che finisce con il 4. Che, considerando questo, faranno 11 post in un anno: quasi uno al mese.<br />
Poco, ma abbastanza per andare avanti.<br />
Qualche esempio?<br />
La prima guerra mondiale, ovvio (1914), e la nascita della radio in Italia, va da sè (1924).<br />
Ma anche, è chiaro, l'avvio delle trasmissioni televisive regolari in Italia (1954), oppure l'inizio dell'era di facebook (2004).<br />
<br />
Io ho già in mente 10 eventi da raccontarvi in modo più o meno scontato (spero meno).<br />
E voi, avete qualche suggerimento? Magari, alla fine, il numero dei post sarà più di quello che penso ora.<br />
<br />
<br />
<br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-67142209329156973292013-11-18T16:25:00.001+01:002013-11-18T16:25:51.995+01:00No, non è un capolavoro (non ancora, perlomeno)Ieri sera eravamo solo in 689.000 ad aspettarci il capolavoro, il <a href="http://www.masterpiece.rai.it/dl/portali/site/page/Page-461957fc-5f28-4ee2-a0aa-1da517c79b78.html" target="_blank">Masterpiece</a>. E se non è arrivato, pazienza. Il titolo era forse presuntuoso e ci sono ancora molte puntate, e margini di miglioramento. Consola che fossimo in più di quelli che guardavano Mystic River, su Rete 4: perché quel film lo è davvero, un capolavoro, e quindi le aspettative per la nuova scommessa di Rai Tre dovevano essere veramente alte.<br />Perché è di questo che sto parlando.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://media.tvblog.it/3/372/masterpiece-586x140.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="95" src="http://media.tvblog.it/3/372/masterpiece-586x140.jpg" width="400" /></a></div>
Del nuovo talent che ieri sera ha iniziato il suo lungo cammino su Rai Tre, per farci scoprire una nuova promessa della letteratura italiana.<br />
Beh, forse letteratura è una parola grossa: limitiamoci a dire, qualcuno (o qualcuna) che provi a scrivere libri onestamente e con passione. E già sarebbe tanto.<br />
<br />
Con questo programma, un format nostrano, nato nella televisione pubblica, Rai Tre ricorda a tutti le sue due origini: di canale culturale e di canale votato alla sperimentazione e al coraggio. Ci vuole coraggio, infatti, per fare un talent sulla scrittura e sui libri (su quelli ancora da scrivere, e non su quelli già scritti: che lì, di coraggio, e di fantasia, e di talento ce ne vorrebbero veramente molti. Diciamo quelli di un <a href="http://www.youtube.com/watch?v=lWT29G6SKcg" target="_blank">Baricco</a>, quando ancora non faceva Baricco).<br />
<br />
Ce ne vuole, dicevo, di coraggio, in un paese dove nel 2012 solo il 46 per cento della popolazione dichiara di aver letto un libro (<b>un libro</b>, ripeto: uno solo) nel suo tempo libero. Però, si sa, le statistiche sono ingannevoli. E infatti il trend, la tendenza alla lettura è in crescita e (dopo una stasi nel 2011) sembra che il consumo di libri sia in ripresa: certo è che se ne stampano una media di 3,5 a testa. Quindi, questa scommessa di Rai Tre ha un senso, anche commerciale (se vi piacciono i dati e ne volete di più <a href="http://noi-italia.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1[id_pagina]=443&cHash=883178956a0049718cd5ae7c3bcf6353" target="_blank">seguite il link</a>).<br />
Ma più che altro mi pare che la scommessa rimandi a quello che potrebbe essere uno dei compiti della televisione di servizio pubblico: mettere in contatto il paese con le sue parti meno rappresentate, con le sue storie meno note. Quelle storie che spesso si consumano in solitudine, perché scrivere è un atto solitario, e che magari potrebbero non essere raccontate a nessuno. Ma le storie hanno bisogno di un ascoltatore, sennò muoiono.<br />
E allora, da questo punto di vista, la scommessa è vinta.<br />
Perché la trasmissione ci ha raccontato delle storie, qualcuna anche emozionante. E non solo quelle che erano state scritte, ma quelle segnate sulla pelle e nella carne di chi si era sacrificato per trovare le parole adatte a dire quello che aveva dentro.<br />
E, soprattutto, ce lo ha raccontato bene: certo, copiando qua e là dalla narrazione di Masterchef (ma la consonanza nel titolo non può essere un caso, no?), ma riuscendo a rendere appassionanti anche delle persone ferme davanti ad una tastiera, a scrivere.<br />
<br />
Punti deboli ce ne sono, è ovvio.<br />
I "ruoli" dei giudici non sono ancora ben chiari; così come non lo sono le ragioni dei loro giudizi.<br />
La seconda parte, quella relativa all'esperienza e alla prova di scrittura, perde un po' di dinamicità nel montaggio, mentre era quella che si prestava maggiormente ad una narrazione emotiva.<br />
I "trucchi" di regia (le accelerazioni, i cambi di tono e di luce ecc.) sono un po' insistiti, e certe volte gratuiti, così da risultare noiosi.<br />
La suspence non è tenuta bene, perché uno sguardo attento coglie subito chi passa il turno e chi viene respinto (state attenti allo sfondo).<br />
Però il tempo per migliorare ce n'è. Si tratta di correzioni lievi, che si possono fare in corsa.<br />
<br />
Per il momento, a me è venuta la curiosità di leggere il libro dell'unica giurata che non conoscevo: lei.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.leultime20.it/wp-content/uploads/2013/10/6a00d8341bfb1653ef0192ab0a9a57970d.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="192" src="http://www.leultime20.it/wp-content/uploads/2013/10/6a00d8341bfb1653ef0192ab0a9a57970d.jpg" width="320" /></a></div>
Taiye Selasi, autrice de <a href="http://www.einaudi.it/speciali/Taiye-Selasi-La-bellezza-delle-cose-fragili" target="_blank"><i>La bellezza delle cose fragili</i></a>.<br />E se un programma sui libri ti fa venire voglia di leggerne uno, allora ha raggiunto il suo scopo.<br /><br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-2610309362077897732013-11-11T09:16:00.000+01:002013-11-12T14:58:42.076+01:00Ancora sulla cavalleria leggera dell'etere (una lezione)Se andate a cercare nel passato di questo blog, troverete che l'8 novembre 2010 annunciavo che avrei iniziato il corso di quell'anno con una lezione sulla radio. Intitolavo quel post <i><a href="http://andreasangiovanni.blogspot.it/2010/11/arriva-la-cavalleria-leggera.html" target="_blank">arriva la cavalleria leggera</a> </i>e anche oggi non ho trovato di meglio, tanto mi piace quella definizione della radio di Peppino Ortoleva.<br />
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-rj5gzeySeBM/Un0lhpPbAPI/AAAAAAAAAnc/ZNtbliJJF5A/s1600/Diapositiva1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-rj5gzeySeBM/Un0lhpPbAPI/AAAAAAAAAnc/ZNtbliJJF5A/s320/Diapositiva1.jpg" width="320" /></a>Il corso di quest'anno è dedicato ai linguaggi della comunicazione audiovisiva (lo divido a metà con Gabriele D'Autilia) e ho riservato qualche lezione alla radio, al modo in cui il linguaggio radiofonico è nato e si è sviluppato, in stretta correlazione con la storia tecnologica e sociale della radio.<br />
Ve ne parlo perché, anche se questo blog è sempre meno un'estensione delle mie lezioni, gli studenti mi hanno chiesto di fargli avere le slides che ho utilizzato e ho deciso di metterle qui.<br />
Però proverò a fare un esperimento.<br />
Non caricherò semplicemente il power point ma mostrerò le singole slides introducendole brevemente con una sintesi di ciò che mi erano servite ad illustrare: in pratica un riassunto della lezione, in modo che servano anche a chi ha preso degli appunti distratti, o a chi non c'era.<br />
Inoltre, visto che qui ne ho la possibilità, introdurrò una serie di link, utili a chi volesse approfondire alcuni aspetti, o fosse semplicemente curioso.<br />
<br />
Per non annoiare tutti i miei lettori, proseguo dopo il salto: la visione, potremmo dire, è riservata ai soli studenti...<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<a name='more'></a><br />
In questa lezione la radio ci interessa non tanto come <i>medium </i>ma
come linguaggio. Il quale, però, è frutto di un processo storico e
dell'incontro fra trasformazioni tecnologiche e usi sociali del medium.
Per questo, dal mio punto di vista, è utile parlare di "linguaggi",
mostrandone la geneaologia storica e sociale.<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-VCVftdyOHpc/Un0lhlyup8I/AAAAAAAAAng/RIcMRXeTTSg/s1600/Diapositiva2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://3.bp.blogspot.com/-VCVftdyOHpc/Un0lhlyup8I/AAAAAAAAAng/RIcMRXeTTSg/s320/Diapositiva2.jpg" width="320" /></a></div>
Il punto di partenza è, ovviamente, la nascita della radio nel 1895. Che però non nasce già nella forma che le è stata data a partire dagli anni Venti e per circa un secolo, ma nasce radiotelegrafia. Il suo inventore - è quasi superfluo dirlo - è <a href="http://www.radiomarconi.com/" target="_blank">Guglielmo Marconi</a>. Egli però ritiene che la sua invenzione abbia due limiti: la distanza e l'esclusività dell'ascolto. (<a href="http://www.podcast.it/episodi/wikiradio-del-26-03-2012-17790693.html" target="_blank">qui</a>, potete sentire la puntata su Marconi che ho realizzato per <i>wikiradio</i>)<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-0frSEM3fwnY/Un0lhr7VuQI/AAAAAAAAAnk/_3gom0DL4Jg/s1600/Diapositiva3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-0frSEM3fwnY/Un0lhr7VuQI/AAAAAAAAAnk/_3gom0DL4Jg/s320/Diapositiva3.jpg" width="320" /></a></div>
La conquista del suono e della parola avviene all'inizio del '900, e ha molti padri. <a href="http://en.wikipedia.org/wiki/Reginald_Fessenden" target="_blank">Reginald Fessenden </a>è colui che realizza il primo "evento" radiofonico, la cui descrizione ci mostra già il "palinsesto" di future trasmissioni e la necessità di avere un feedback dal pubblico (altra caratteristica fondante della radio).<br />
C'è almeno un altro "padre" della radio da ricordare sul piano del linguaggio, <a href="http://www.leedeforest.org/Home.html" target="_blank">Lee De Forest</a>, il quale usa per la prima volta il termine broadcasting e dedica alcuni anni della sua vita a promuoverlo. Scrive ad esempio sul proprio diario: «il mio compito attuale (particolarmente piacevole) è di diffondere dolci melodie “a spaglio” in tutte le città e i mari, in modo che i marinai lontani possano ascoltare, attraverso le onde la musica di casa loro»<br />
Tra il 1910 e il 1916 è protagonista di molti esperimenti, in cui prova diversi generi di trasmissione: usa la Tour Eiffel come antenna per fare esperimenti di radiofonia in Francia; trasmette un concerto di Caruso da New York, una partita di football e delle elezioni.<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-0Gr4GDbLZv4/Un0lij6u6pI/AAAAAAAAAn0/a8Ph4Fa5Auo/s1600/Diapositiva4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-0Gr4GDbLZv4/Un0lij6u6pI/AAAAAAAAAn0/a8Ph4Fa5Auo/s320/Diapositiva4.jpg" width="320" /></a></div>
Ma la vera prefigurazione di ciò che sarà la radio avverrà con il memorandum di <a href="http://www.davidsarnoff.org/dsindex.html" target="_blank">David Sarnoff</a> intitolato <i>Subject: Radio Music Box</i>. <br />
Ciò che mi sembra importante sottolineare, dal nostro punto di vista, è soprattutto la trasformazione della radio in uno strumento domestico, usata essenzialmente per fare musica, ovvero per il <i>loisir</i>.<br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-7R8UKM75lUM/Un0ljVnQeWI/AAAAAAAAAn4/6YB_Nci1JOs/s1600/Diapositiva5.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-7R8UKM75lUM/Un0ljVnQeWI/AAAAAAAAAn4/6YB_Nci1JOs/s320/Diapositiva5.jpg" width="320" /></a></div>
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-pWivmZV4w4g/Un-2Wotw-4I/AAAAAAAAApQ/baDspJXkuuU/s1600/Diapositiva6.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"></a>In Europa la radio assume la sua forma ufficiale tra il 1922, quando in Inghilterra viene fondata la <a href="http://www.bbc.co.uk/historyofthebbc/wherenext/index.shtml#1" target="_blank">BBC</a>, e il 1924, quando in Italia nasce l'URI. (<a href="http://www.youtube.com/watch?v=ArbnavDdxTk" target="_blank">qui puoi ascoltare l'inizio delle trasmissioni</a>). Sempre all'inizio degli anni '20 negli Stati Uniti le grandi compagnie come la Westinghouse o la General Electric avevano creato delle compagnie radiofoniche, come la <a href="http://explorepahistory.com/hmarker.php?markerId=1-A-30F" target="_blank">KDKA</a> di Pittsburgh, che nasce il 2 novembre 1920 ed è considerata la prima radio commerciale.<br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-pWivmZV4w4g/Un-2Wotw-4I/AAAAAAAAApc/a6wpRH53cy4/s1600/Diapositiva6.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://3.bp.blogspot.com/-pWivmZV4w4g/Un-2Wotw-4I/AAAAAAAAApc/a6wpRH53cy4/s320/Diapositiva6.jpg" width="320" /></a></div>
Quali sono le caratteristiche costitutive della radiofonia, che, per usare l'espressione di <a href="http://www.bobolinkbooks.com/Arnheim/Biography.html" target="_blank">Rudolph Arnheim</a>, "organizza il mondo per l'orecchio"? Intanto, sempre per usare le parole di Arnheim, si può dire che essa «favorisce nel modo più spregiudicato tutto ciò che ha a che vedere con la diffusione e la comunanza, mentre si oppone alla segregazione e all’isolamento».<br />
E poi la radio è <b>vicina</b>: per le voci note, che fanno da tramite tra l'emittente e il pubblico; perché si adatta al tempo dell'ascolto; perché parla la stessa lingua, e perfino lo stesso dialetto; perché "risponde".<br />
E' <b>sonora</b>: non solo perché "organizza il mondo per l'orecchio" ma perché introduce nella vita quotidiana la musica, non come momento di isolamento e svago, ma come colonna sonora.<br />
E' <b>leggera</b>: sia in senso fisico che dal punto di vista del linguaggio, tanto da essere pervasiva.<br />
E' <b>fluida</b>: ovvero è un medium di flusso, secondo la tipica definizione di Raymond Williams.<br />
E' <b>mobile</b>.<br />
E, infine, è <b>invisibile</b>, perché pervade le nostre esistenze senza che - la maggior parte delle volte - ce ne accorgiamo.<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-mtZwI9fBCuc/Un-2W0YUHSI/AAAAAAAAApg/sKIVBVNk-sk/s1600/Diapositiva7.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-mtZwI9fBCuc/Un-2W0YUHSI/AAAAAAAAApg/sKIVBVNk-sk/s320/Diapositiva7.jpg" width="320" /></a></div>
In Italia la radio nasce sotto il regime fascista, ma non sarebbe corretto pensarla esclusivamente dedita alla propaganda. Anzi, inizialmente il fascismo non ne coglie le eccezionali potenzialità comunicative e, appunto, propagandistiche. <br />
Per usare una formula coniata da Franco Monteleone, nell’Italia fascista la radio è inizialmente una <i>scatola sonora</i>, anche abbastanza misteriosa per il suo pubblico, e diventa solo in un secondo momento, durante gli anni Trenta, il <i>megafono del regime</i>.<br />
Il problema principale è quello della diffusione: nel 1926, due anni dopo l’inizio delle trasmissioni regolari, gli abbonati in Italia sono appena 26.000 mentre in Inghilterra sono quasi 2.000.000. Una delle ragioni della scarsa presenza di apparecchi radio è il loro costo eccessivo.<br />
Qui sotto, se volete, c'è una sintesi della storia dei media durante il fascismo, con ampi passaggi dedicati alla radio.<br />
<iframe frameborder="0" height="350" src="http://prezi.com/embed/deqxzwkxeuss/?bgcolor=ffffff&lock_to_path=0&autoplay=0&autohide_ctrls=0&features=undefined&disabled_features=undefined" width="500"></iframe><br />
<br />
<br />
E ora torniamo a noi<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-1nifqiTBVRg/Un-2X_GF6_I/AAAAAAAAAp0/oQ6xQL38Hxw/s1600/Diapositiva8.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-1nifqiTBVRg/Un-2X_GF6_I/AAAAAAAAAp0/oQ6xQL38Hxw/s320/Diapositiva8.jpg" width="320" /></a></div>
Si sviluppano allora forme differenziate di ascolto, fra cui è importante ricordare quello collettivo spontaneo, spesso sostenuto da una vera e propria opera di "apostolato" dei possessori di apparecchi radio, ben contenti di fare delle vere e proprie "radioaudizioni".<br />
Il più importante tentativo del regime fascista di diffondere la radiofonia avverrà con l'<b>Ente Radio Rurale</b>.<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/-2Iy_bJTC9Yk/Un-2X1nN8HI/AAAAAAAAApw/fs420Fusm_w/s1600/Diapositiva9.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://1.bp.blogspot.com/-2Iy_bJTC9Yk/Un-2X1nN8HI/AAAAAAAAApw/fs420Fusm_w/s320/Diapositiva9.jpg" width="320" /></a></div>
La programmazione è ampiamente occupata dalla musica che, negli anni Trenta, ne costituisce quasi il 56% mentre le rubriche propagandistiche occupano circa il 10% dello spazio (anche se sono collocate nelle ore di punta). <br />
Un posto importante hanno anche le trasmissioni di varietà e il radio-teatro. In particolare è fra le prime che si registrano delle grandi novità, come la combinazione fra linguaggio parlato e linguaggio musicale che si avvaleva di citazioni della letteratura popolare, contaminazioni con l’attualità, canzoni adattate a motivi molto popolari: ne nascono trasmissioni come <a href="http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e107c182-3717-4c36-a920-87fd9f343b5c.html" target="_blank">I quattro moschettieri</a> che è un vero e proprio fenomeno di massa della radio italiana (con due edizioni nel 1934 e nel 1936): in particolare alla seconda edizione è abbinata una raccolta di figurine che la renderà ancora più popolare.<br />
Altrettanto rilevanti sono le trasmissioni sportive che contribuiranno a trasformare lo sport in un fenomeno di massa e a rinforzare una delle caratteristiche linguistiche della radio di questo periodo: la diretta. <br />
Ovviamente, per non smentire la propria vocazione pedagogica, ci sono trasmissioni di cultura (conferenze, letture) o programmi per i bambini che uniscono racconti fiabeschi, musica, istruzione. <br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-jDpfIJJ0ueA/Un-2TGRq65I/AAAAAAAAAoY/uoHnd2Ludh0/s1600/Diapositiva10.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-jDpfIJJ0ueA/Un-2TGRq65I/AAAAAAAAAoY/uoHnd2Ludh0/s320/Diapositiva10.jpg" width="320" /></a></div>
Notiziari e trasmissioni di propaganda sono ovviamente molto importanti, e il loro ruolo diventerà sempre più incisivo con l'avvicinarsi alla guerra. In particolare vanno ricordate le <i>Cronache del Regime</i> di Roberto Forges Davanzati (15 minuti di commento al giorno dal 27 ottobre 1934 al 15 maggio 1936) nelle quali, per usare le parole del pionieristico studio di Alberto Monticone (<i>Il fascismo al microfono</i>, 1978) c'era un «evidente sforzo di presentare eroicamente il quotidiano, di fare di ogni banale aspetto della vita economica, sociale, agricola una tappa dell’ascesa irresistibile dell’Italia fascista» (p.124), reso efficace da un tono simile a quello «dell’insegnante che richiama una scolaresca poco attenta a scorgere l’ovvia ed evidente lezione che proviene da ogni atto del regime» (p.125). Dopo la morte di Davanzati nel 1936 il programma perde di compattezza stilistica e quindi di capacità persuasiva, e viene quindi chiuso. Il ministro Alfieri aveva intuito chiaramente quale fosse il problema: «la pluralità degli oratori, ciascuno dei quali inseriva saltuariamente nel tessuto delle cronache la conversazione sua propria con criteri che era difficile rendere omogenei, aveva determinato nelle Cronache stesse una ormai troppo visibile caratteristica di improvvisazione individuale e di intima sconnessione» che avevano portato al suo «decadimento». Sarà poi ripresa dal settembre 1938 e continuata fino all’aprile 1943 con un altro nome, <i>Commento ai fatti del giorno</i> che, sin dal titolo, rimanda all’idea di una specie di editoriale: la diversità degli stili e il tono esasperato di alcuni commenti (tipici quelli di Mario Appelius) la renderanno sempre meno popolare e, addirittura, controproducente.<br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-mcQ2bTSY0JQ/Un-2TLa-W7I/AAAAAAAAAoc/Cks0a5KzQOg/s1600/Diapositiva11.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-mcQ2bTSY0JQ/Un-2TLa-W7I/AAAAAAAAAoc/Cks0a5KzQOg/s320/Diapositiva11.jpg" width="320" /></a></div>
L'episodio della trasmissione radiofonica "La guerra dei mondi", realizzata da Orson Welles come adattamento di un testo di H. G. Wells, e trasmessa il 30 ottobre 1938, è, allo stesso tempo, un esempio di uso pienamente consapevole del linguaggio radiofonico e una metafora del ruolo centrale che la radio avrà di lì a poco, durante la seconda guerra mondiale.<br />
Se volete, qui di seguito potete ascoltare il programma di Welles<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/Xs0K4ApWl4g" width="420"></iframe><br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-R5-YoINJslA/Un-2S9KlchI/AAAAAAAAAoU/_6A6IKyqJtY/s1600/Diapositiva12.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-R5-YoINJslA/Un-2S9KlchI/AAAAAAAAAoU/_6A6IKyqJtY/s320/Diapositiva12.jpg" width="320" /></a></div>
La radio durante la seconda guerra mondiale ha svolto un ruolo estremamente rilevante, non solo per la propaganda, ma anche perché ha creato un panorama sonoro sostanzialmente uniforme, sia pure con le differenze dovute alle emittenti e alle ideologie dei contendenti. Se qualcuno fosse interessato a questo aspetto, dovrebbe andare a cercarsi un documentario che Giovanni De Luna ha realizzato nel 1989 per la radio Rai, <a href="http://forum.tntvillage.scambioetico.org/index.php?showtopic=309906" target="_blank">Voci di Guerra</a> in cui aveva individuato il verificarsi di due processi contemporanei e apparentemente antitetici: da un lato, infatti, la radio «enfatizza gli schieramenti e le contrapposizioni politiche e ideologiche, e militari ovviamente, dei (…) belligeranti; dall’altro lato però (…) li annulla, li omologa, li appiattisce nella concretezza dei comportamenti collettivi» che si manifestano in modelli espressivi e linguistici simili.<br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-zQOIaauIerE/Un-2UfcpqUI/AAAAAAAAAow/i0iN1Bkcyf4/s1600/Diapositiva13.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-zQOIaauIerE/Un-2UfcpqUI/AAAAAAAAAow/i0iN1Bkcyf4/s320/Diapositiva13.jpg" width="320" /></a></div>
Una marcata evoluzione di linguaggio della radio arriva con il transistor e la miniaturizzazione dell'apparecchio. Negli stessi anni, inoltre, la nascita del registratore a nastro magnetico portatile cambia profondamente il modo di concepire la produzione radiofonica.<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-V5-zmrv7CZ8/Un-2URTlRKI/AAAAAAAAAos/Ys66iCTeTJ0/s1600/Diapositiva14.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-V5-zmrv7CZ8/Un-2URTlRKI/AAAAAAAAAos/Ys66iCTeTJ0/s320/Diapositiva14.jpg" width="320" /></a></div>
Negli anni Sessanta, mentre il mondo giovanile emerge come il nuovo soggetto sociale (e commerciale), inizia l'avventura delle "radio pirata" che produce un nuovo modo di fare radio. Il nome simbolo è Radio Caroline (per saperne di più andate <a href="http://www.musicaememoria.com/radio_pirata_note.htm" target="_blank">qui</a> e <a href="http://www.storiaradiotv.it/RADIO%20CAROLINE.htm" target="_blank">qui</a>). <br />
<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/h5BgZeOt7Xk" width="420"></iframe><br />
<br />
Nello stesso torno di tempo, in Italia c'è un rinnovamento del linguaggio radiofonico con alcuni programmi come <i>Chiamate Roma 3131</i>, che introduce il telefono, <i>Bandiera Gialla</i> e <i>Per voi giovani</i>, che cambiano il rapporto con la musica, e <i>Alto Gradimento</i>, che rivoluziona il modo di fare radio (come potete sentire in questo breve estratto)<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/ZfGLlPkv5t4" width="420"></iframe><br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-XHwodD_ObVY/Un-2UTaa7GI/AAAAAAAAAo0/KZS8fx8fd98/s1600/Diapositiva15.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-XHwodD_ObVY/Un-2UTaa7GI/AAAAAAAAAo0/KZS8fx8fd98/s320/Diapositiva15.jpg" width="320" /></a></div>
E, come mostra questa slide riassuntiva, negli anni '70 il panorama radiofonico - e più in generale radiotelevisivo - muta completamente. Alle evoluzioni tecnologiche e di linguaggio, stavolta si uniscono quelle istituzionali perché alcune sentenze della corte costituzionale, fra il 1974 e il 1976, demoliscono l'edificio del monopolio. Nascerà allora l'età dei "cento fiori" della radiofonia (e - ma non era oggetto delle lezioni qui riassunte - della televisione libera).<br />
Per approfondire potete dare un'occhiata a questo recente documentario di Rai Storia<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/HkeozW3C450" width="420"></iframe><br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-wAdCN5bPkhw/Un-2VEIPqMI/AAAAAAAAApM/R0QIu3RF50w/s1600/Diapositiva16.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-wAdCN5bPkhw/Un-2VEIPqMI/AAAAAAAAApM/R0QIu3RF50w/s320/Diapositiva16.jpg" width="320" /></a></div>
Tra le radio libere degli anni '70, Radio Alice è, se non la più innnovativa, la più famosa, perché la sua storia si fonde con quella del movimento del '77 nei giorni drammatici degli scontri di Bologna del marzo di quell'anno.<br />
Se volete saperne di più e vedere alcuni materiali, potete seguire il <a href="http://radioalice.org/" target="_blank">link</a>.<br />
E guardarvi questo breve video, che illustra il percorso che ha portato Guido Chiesa a realizzare un film su Radio Alice (<a href="http://www.fandango.it/scheda.php/it/lavorare-con-lentezzaa/301" target="_blank">Lavorare con lentezza</a>, 2004) a partire da un documentario (<a href="http://www.fandango.it/scheda.php/it/alice-e-in-paradiso/241" target="_blank">Alice è in paradiso</a>, 2002)<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/-oRTXURmo-c" width="420"></iframe><br />
<br />
Ma potete anche dare un'occhiata ad un documento del 1977, un'inchiesta di Francesco Barilli e Francesco Bortolini realizzata per <i>Videosera</i> e intitolato <i>Alice nel paese delle radio libere</i><br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/6pWJw_Ee0lw" width="420"></iframe><br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-M4zAAPD9gpU/Un-2VacpKbI/AAAAAAAAApE/6V4Yi-o9gto/s1600/Diapositiva17.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-M4zAAPD9gpU/Un-2VacpKbI/AAAAAAAAApE/6V4Yi-o9gto/s320/Diapositiva17.jpg" width="320" /></a></div>
Negli anni '80, il panorama italiano si modifica profondamente: l'avventurosa storia delle radio libere lentamente si avvia alla conclusione per far posto alla più organizzata vita delle radio commerciali. Anche il linguaggio si modifica e le innovazioni disordinate e rivoluzionarie degli anni '70 si sposano con i modelli che arrivano dagli Stati Uniti.<i> </i><br />
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-7-37sTHp0OQ/Un-2VjMtAoI/AAAAAAAAApI/2DafdkwC87Q/s1600/Diapositiva18.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-7-37sTHp0OQ/Un-2VjMtAoI/AAAAAAAAApI/2DafdkwC87Q/s320/Diapositiva18.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-FP4-R4l9wgc/Un-2WfTc-xI/AAAAAAAAApk/5tSesCOCTwo/s1600/Diapositiva19.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-FP4-R4l9wgc/Un-2WfTc-xI/AAAAAAAAApk/5tSesCOCTwo/s320/Diapositiva19.jpg" width="320" /></a></div>
L'arrivo di internet, poi, cambia tutto ancora una volta. Quali delle caratteristiche originarie della radiofonia (prossimità, sonorità, leggerezza, fluidità, mobilità, invisibilità) vivono ancora nella "radio" on line? Che cosa sta diventando la radio, a patto che si possa ancora parlare di radio?<br />
<br />
<br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-14889933177702043492013-10-17T08:58:00.001+02:002013-10-17T08:58:45.529+02:00MigrarTE, 17 e 18 ottobreEd eccoci arrivati. Oggi e domani, a Teramo. Nella sala polifunzionale della Provincia e all'Università.<br />Il programma lo trovate nella locandina qui sotto.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-7BJ3RW3pCTA/Ul-KGTcJqmI/AAAAAAAAAm0/naP4U06t7Qw/s1600/migrarte.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-7BJ3RW3pCTA/Ul-KGTcJqmI/AAAAAAAAAm0/naP4U06t7Qw/s1600/migrarte.png" height="400" width="300" /></a></div>
<br />
Se ci cliccate sopra diventa <u>molto</u> più grande.<br />
<br />
Poi vi racconto com'è andata.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-86870888788160715442013-10-11T17:38:00.001+02:002013-10-11T17:38:21.482+02:00cose che accadranno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-BYguD5GYNUA/UlgbCWkJLxI/AAAAAAAAAmM/8bOLGApeQEQ/s1600/migrart_invito.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="156" src="http://3.bp.blogspot.com/-BYguD5GYNUA/UlgbCWkJLxI/AAAAAAAAAmM/8bOLGApeQEQ/s400/migrart_invito.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
Intanto segnatevi la data, che poi vi spiego<br /><br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-87321697594747375602013-09-27T10:47:00.003+02:002013-09-27T10:47:44.351+02:00Il giorno in cui tutto ricominciòEsce oggi il numero 325 di Dylan Dog. È intitolato <i>una nuova vita</i> e si presenta con una copertina suggestiva e fortemente simbolica<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.ddcomics.it/wp-content/uploads/2013/07/dylan-dog-325-nuova-vita.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://www.ddcomics.it/wp-content/uploads/2013/07/dylan-dog-325-nuova-vita.jpg" width="243" /></a></div>
Gli appassionati sanno già tutto. Alcuni mesi fa è iniziata a circolare la notizia di un profondo cambiamento nella redazione di Dylan Dog, i cui fili sono stati mossi dal creatore dell'<i>indagatore dell'incubo</i>, Tiziano Sclavi. A Giovanni Gualdoni è subentrato Roberto Recchioni, autore di una delle più belle e intense storie di Dylan Dog di tutti i tempi, <i>Mater Morbi</i>, scrittore e disegnatore molto prolifico che ama spaziare attraverso generi molteplici, che contamina senza pudore e con una forte consapevolezza dei linguaggi, autore di un <a href="http://prontoallaresa.blogspot.it/" target="_blank">blog </a>molto seguito.<br />
Nei mesi successivi, tra indiscrezioni e annunci, le aspettative per questa "rivoluzione" sono aumentate, ed è facile prevedere che, da domani, nella blogosfera si scontreranno critiche feroci e elogi entusiastici. Ovviamente, una trasformazione è qualcosa di lento (in una macchina produttiva complessa come quella dell'industria del fumetto, poi...): come hanno spesso detto gli stessi protagonisti, ne potremo vedere i veri frutti solo fra alcuni mesi.<br />
Ma intanto i segnali ci sono tutti.<br />
Intanto, nell'ultimo numero l'evoluzione è stata annunciata dallo stesso Sclavi in un redazionale: evento eccezionale per due motivi. In genere quello spazio è occupato dall'editore. E in secondo luogo Sclavi parla (e scrive, soprattutto) ormai di rado.<br />
In realtà ci sarebbe anche un terzo motivo che lascia prevedere qualcosa di molto buono: una sorta di "ritorno alle origini", ma senza crogiolarsi nella nostalgia.<br />
Commentando la nuova veste artistica della copertina, Sclavi fa notare la "citazione" della pop art, e commenta:<br />
<blockquote class="tr_bq">
quindi facciamo il fumetto che cita l'arte che cita il fumetto.</blockquote>
Un buon inizio, direi: un ritorno ad una delle innovazioni di linguaggio di Sclavi, con il suo citazionismo così postmoderno (non me ne voglia Tiziano per questa definizione) e, allo stesso tempo, così poco esibito.<br />
Era questa una di quelle cose che facevano grande Dylan Dog negli anni '80, prima che anch'essa diventasse di maniera.<br />
Se la "rivoluzione" in corso tornerà ad alcuni di quegli spunti iniziali, riaggiornandoli alla sensibilità contemporanea, forse si potrà dire riuscita. Mi piacerebbe tornarci appena avrò un po' di tempo. Per ora, mi limiterò ad usare le parole di qualcun altro, che è stato capace di cogliere alcuni degli aspetti di innovazione profonda che Dylan Dog introdusse nel panorama fumettistico nello scorcio finale degli anni '80:<br />
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="tr_bq">
tutti i temi dell'interazione e della contaminazione tra i media (cinema, fumetto, tv, letteratura, teatro, pittura...) vengono attraversati e raccontati. (...) Dylan Dog va oltre ogni limite tracciato per distinguere un fumetto seriale da un cosiddetto fumetto d'autore. (...) Gli autori e l'editore di questa serie hanno pienamente travalicato i confini che una volta tenevano distinti i bacini tematici e le forme espressive in rigide separazioni di generi, di pubblici, di qualità e di quantità. Questa serie a fumetti (...) ha un contorno estremamente serio, una moralità dai tratti perfino illuministici. Tiziano Sclavi e i suoi collaboratori (...) restituiscono la varietà dell'universo mediologico e la consegnano ai giovani lettori in una sorta di adempimento a una funzione - o <i>finzione</i> - <i>iniziatica</i>. Dylan Dog raccoglie un esasperato bisogno di socializzazione primaria e di maturazione individuale spesso negato alle giovani generazioni. Sintomo di disagio (...) questo fumetto è molto di più. Il disagio vi esprime insomma una parzialità politica, radicale, estremamente conflittuale e diretta a uno scopo di individuazione di una moralità insediata nei cuori dei lettori (...) [i quali] sono chiamati a partecipare a una maturazione almeno fantastica del corpo, della psiche, degli equilibri e delle dissonanze tra l'intelligenza e i sentimenti.</blockquote>
</div>
Sono le parole con cui Gino Frezza ha analizzato Dyd, nel saggio <i>La poesia matematica di Dylan Dog</i> (in <i>Le carte del fumetto</i>, Liguori, Napoli 2008).<br />
Ci sarebbe da dire ancora molto sul contesto in cui Dyd nasce e coglie i suoi primi successi, gli anni '80 appunto, e sul rapporto di rispecchiamento oppositivo con lo "spirito del tempo" in cui, secondo me, risiede gran parte del suo successo iniziale.<br />
Mi piacerebbe farlo qui e magari, come si dice, ...continua e finisce in una prossima puntata<br />
<br />
<br />Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-66673162348770544152013-09-15T09:51:00.001+02:002013-09-15T09:51:09.959+02:00I sogni (e gli incubi) di Francesco P.<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Che cosa rimane dell'Aquila dopo quattro anni e mezzo dal terremoto? </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Che cosa rimane per chi, sin dai primi mesi, l'ha raccontata con una videocamera?<br /><a href="http://www.francescopaolucci.it/about-me/" target="_blank">Francesco Paolucci</a> è tornato a raccontarci quello che si muove nel fondo del suo cuore, il suo cuore privato, intimo, ma anche quello pubblico, sociale: la sua città. E ora, dopo averci colpito e commosso con il <i><a href="http://www.youtube.com/watch?v=MXbG203yPAo" target="_blank">diario di un terremutato</a></i>, dopo averci fatto ridere - e pensare - con i suoi <i><a href="http://diceche.com/" target="_blank">dice che</a></i>, ci - e si - chiede: e se fosse stato tutto un sogno?</span><br />
<br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;"></span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;"></span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;"><iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="285" src="//www.youtube.com/embed/B18ar1hzZFM" width="530"></iframe><br /> </span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Ho incrociato la strada di Francesco a Teramo, quando era studente di Scienze della Comunicazione. </span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Poi l'ho ritrovato come studente nel master di giornalismo, affascinato dalle tecniche e dal linguaggio del reportage giornalistico con una chiara preferenza per lo stile di Iacona. </span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Poi l'ho seguito raccontare L'Aquila e il terremoto del 2009 attraverso i suoi video, contemporaneamente dall'interno e dall'esterno: seguendo le storie che si svolgevano nel cratere, e svelando le ambiguità della comunicazione mainstream, da una parte; e raccontandoci i moti del suo animo, dall'altro, inseguendo progetti personali, forse capaci di mostrare con ancora maggiore efficacia quello che stava succedendo. <br />Ora è giornalista e videomaker: segue sempre i suoi sogni e i suoi fantasmi personali, e ancora una volta ci sa raccontare quello che sta succedendo. E che oggi mi sembra che sia quell'impalpabile sfarinamento della voglia di resistere e di combattere che si accompagna al desiderio di normalità.<br /> </span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Una volta, in un intervento a Radiofrequenza, la radio dell'Università di Teramo - se non ricordo male per il primo anniversario del terremoto - mi disse che nei suoi primi video usava la videocamera come un diaframma fra il suo cuore e il mondo, quasi per non avvertire anche sulla pelle quello sgomento, quel dolore e quella rabbia che sentiva nel cuore. Questa commistione fra racconto privato e sguardo oggettivo - capace di rifrangere anche gli altri sguardi pubblici sul terremoto - era la forza dei suoi racconti.<br /> </span><br />
<span style="font-family: inherit; font-size: small;">Col passare dei mesi il Francesco che si nascondeva dietro l'obiettivo ha avuto la forza, e il coraggio, di uscire e mostrarsi. <br />E quelli che oggi possono sembrare veli, l'ironia che caratterizzò i "dice che" e ora il mood cinematografico che si respira nel suo ultimo racconto, mi sembra che siano solo una parte del suo modo di essere. Potrà sembrare contraddittorio, ma proprio ora che Francesco usa la finzione per raccontare quello che succede mi pare che si mostri senza schermi: e sia capace, allo stesso tempo, di percepire e raccontare un sentimento diffuso, pur senza arrendersi ad esso. <br /> </span><br />
<b><span style="font-family: inherit; font-size: small;">Perché, nonostante tutto, L'Aquila c'è ancora:<br />"ha presente?"<br />"sì..." </span></b></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-803180011858354050.post-54044210465641960242013-08-30T17:18:00.000+02:002013-08-30T17:18:23.872+02:00Pubblicità di fine stagione<div style="text-align: left;">
Sarà che l'estate sta finendo e che la mente ama smarrirsi ancora per un po' in pensieri oziosi. <br />
Sarà che se hai la televisione o la radio accesa la vedi e la senti decine e decine di volte al giorno.<br />
Sarà quello che sarà, ma ogni volta che passa questa nuova pubblicità non riesco a non contenere un moto di rabbia.</div>
<div style="text-align: left;">
<br /></div>
<div style="text-align: left;">
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/OL0hYt6BBgE" width="560"></iframe><br />
<br />
Ogni volta - ma, dico, <b>ogni</b> volta - che la vedo o la sento penso che siamo proprio messi male.<br />
<br />
Lo so: <b>siamo messi male</b>, e non l'ho certo scoperto con questa pubblicità.<br />
<br />
Però.<br />
<br />
Però se considerate che fine della pubblicità commerciale è indurre il desiderio del consumo e che lo fa rappresentando aspirazioni e desideri sociali. E che nel rappresentarli, certe volte riesce ad intercettare il senso comune, il sentire profondo di una società.<br />
<br />
Se pensate ad esempio che i manifesti dei magazzini Mele all'inizio del secolo scorso crearono un gusto borghese della moda e insegnarono al ceto emergente dell'Italia da poco unita a vestirsi.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://moda.san.beniculturali.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/09/SA_CAMP_9.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://moda.san.beniculturali.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/09/SA_CAMP_9.jpg" width="224" /></a></div>
<br />
Oppure che negli anni Ottanta la pubblicità dell'amaro Ramazzotti ha dato forma nell'immaginario collettivo al ritratto della città modello di un'Italia nuova. E che, allo stesso tempo, raccoglieva tutte le suggestioni che formavano il desiderio collettivo di un'epoca "rampante", inventando lo slogan che ancora oggi descrive gli anni Ottanta, nel bene come nel male.<br />
<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="//www.youtube.com/embed/2m8jnLuMEYA" width="420"></iframe> <br />
<br />
Ecco, se pensate a questi e ad altri esempi possibili, allora la pubblicità con la Ferilli ci dice più di quanto non voglia.<br />
Da un lato, certo, ci dice di un'epoca in cui, dopo anni di produzione industriale standardizzata, si cerca la cura artigianale del prodotto, il vero "valore" del prodotto (<i>Artigiani della qualità</i>).<br />
Ma cura artigianale vuol dire lavoro -tanto, impegnativo lavoro- di uomini e donne.<br />
E quello spot ci dice anche, dall'altro lato, che il lavoro - quel lavoro che dà valore al prodotto - viene pagato "a metà prezzo". E infine che ogni protesta, anche solo accennata, è inutile: e anzi viene sbeffeggiata e ridotta all'impotenza, neutralizzata, con una battuta.<br />
<br />
Non mi stupisce che il lavoro - e quello artigianale, per di più: che vuol dire lavoro estremamente qualificato, applicazione di passione e ingegno, oltre che di abilità manuale - venga poco considerato. Lo si può leggere con chiarezza nei dati e nelle storie delle fabbriche che chiudono dalla mattina alla sera, di nascosto, con gli "imprenditori" che, come ladri nella notte, se ne vanno da un'altra parte dove il lavoro costa di meno.<br />
Quello che mi fa arrabbiare è che questo stato di cose abbia finito per essere raccontato da un messaggio pubblicitario. Perché se la pubblicità intercetta "lo spirito del tempo" - o, peggio, mostra desideri e aspirazioni di una società -, allora l'idea che oggi abbiamo del lavoro è che esso debba essere pagato solo la metà di quanto merita (e talvolta anche meno).<br />
E ogni volta che sento questi "artigiani della qualità" umiliarsi di fronte alla Ferilli, io non posso fare a meno di pensare che siamo davvero ai saldi di fine stagione: e che la merce che viene svenduta siamo noi. </div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/17875741529378070455noreply@blogger.com1