Parliamo tanto di me?

Il punto interrogativo ci vuole, per rispetto verso il maestro Cesare Zavattini che diede questo titolo (ma senza punto interrogativo) al suo primo libro. E, svelata la fonte, eccoci al punto.
Come magari si è accorto qualcuno che segue questo blog, un po' di tempo fa è uscito un mio libro (lo annunciavo qui) e un paio di settimane fa ho avuto la piacevole sorpresa di essere invitato a presentarlo a Fahrenehit, una trasmissione di Radio 3 di cui mi è già capitato qualche volta di essere ospite.
E' stato un enorme piacere andare di nuovo in quegli studi e fare la gradevole conversazione che potete sentire sul podcast della trasmissione, qui.
Dite che non esiste una tecnica di pubblicità a posteriori? Sarà.
Ma magari sarebbe stato difficile ascoltare la puntata in diretta, e quindi eccomi qui a riproporvela una ventina di giorni più tardi.

Che poi, in realtà, tutto questo post è solo una scusa per suggerirvi di sintonizzarvi ancora su Radio Tre, lunedì prossimo, 26 marzo alle 14.
Stavolta ascoltatevi la puntata di wikiradio, una bella trasmissione che racconta giorno per giorno eventi, personaggi, film, programmi, storie: una sorta di enciclopedia libera della radio, che ha festeggiato giusto ieri le sue prime cento puntate.
A me, dunque, se non ho sbagliato i conti, toccherà la puntata 101
(che, se fossi proprio così vanitoso come questo post lascerebbe ad intendere, potrei quasi considerare come la prima di un nuovo ciclo).
E se vi piacerà, non temete, non sarà la sola, come qualcuno potrebbe arguire da questo scatto fatto ieri pomeriggio.
Temo che sarà difficile leggere il titolo del foglio sul tavolo. Peccato: mi sa che vi toccherà aspettare ancora un po' per sapere di che si tratta...

"lascia che il cinema faccia la sua parte"

Cominciamo in questo modo mercoledì prossimo.


Ogni mercoledì, per circa due mesi, lasceremo che siano le immagini del passato più o meno recente a raccontarci il presente.
Sono incontri per riscoprire il piacere di essere spettatori, innanzitutto. Ma anche un modo per ragionare insieme dei modi in cui il cinema - certo cinema - riesce ad essere specchio della società. Uno specchio talvolta concavo o convesso, che ci restituisce un'immagine distorta del mondo per eccesso di prossimità oppure troppo lontana, quasi sfocata. Ma che ha sempre, dentro di sé, una visione del mondo.
Questo è il programma (se ci cliccate sopra, la locandina diventa anche leggibile).

I film sono organizzati in brevi cicli tematici, che affrontano da prospettive diverse, e magari con sguardi divergenti, un aspetto della società contemporanea.
Ogni film sarà introdotto da un docente, che cercherà di dare qualche breve cenno utile a contestualizzarlo. Comincerò io: e sono fortunato perché mi è toccato un film che non esito a definire meraviglioso, Bellissima.
(Sarà facile introdurlo: basterà non dire niente e lasciare la parola alle splendide immagini di Luchino Visconti e allo sguardo intenso di Anna Magnani.)
Poi, alla fine, proveremo a riesumare un'antica tradizione, che aveva finito per diventare un'ossessione, quasi una maledizione a cui ogni visione doveva essere sottoposta: il dibattito.
Chi se la ricorda la rabbiosa supplica di Nanni Moretti ("NO! Il dibattito no!") nel suo primo film?
E a chi non viene in mente l'urlo liberatorio del solitamente succube rag. Ugo Fantozzi di fronte all'ennesimo cineforum organizzato dal suo superiore Guidobaldo Maria Riccardelli (non sapete di che parlo? dài, andate qui e poi riprendete a leggere)?
Ecco, niente di tutto questo. E' solo un modo per recuperare il gusto di condividere il piacere della visione e del pensiero. E poi, lasciate che il cinema faccia la sua parte.



per chi non lo sapesse, il titolo è un verso di una canzone di Ivano Fossati, Ombre e Luce, e dice più o meno così:
...lascia che il cinema faccia la sua parte
come il fischio del vapore incanta i cani
la macchina da presa è amore e commercio
ombre e luce...

Jean Giraud (1938-2012)

Ci sarà tempo per parlare a lungo della sua grandezza, dell'influenza che ha avuto su un'intera generazione di disegnatori, sulla sua capacità di innovare profondamente il linguaggio e la struttura narrativa del fumetto, fin quasi a farla scomparire.
Ci sarà tempo per parlare di Moebius, simbolo dell'infinita potenza della grafica e del segno, spazio libero e senza fine all'interno dei confini di uno spazio chiuso, nel suo caso una vignetta, come l'anello da cui prende il nome. E di Jean Giraud, che aveva scelto questo pseudonimo per dare piena espressione a quello che aveva nella testa e per uscire dalle costrizioni del suo mestiere di disegnatore di fumetti.
Per ora, c'è solo questo suo disegno.
Addio, Jean.

la leva del 12

Un nuovo anno accademico, un vecchio corso, una nuova classe. Questa settimana è iniziato il Laboratorio di comunicazione multimediale che condivido con Gabriele D'Autilia (qui ci sono tutte le informazioni) e, come prima cosa, abbiamo deciso di provare a conoscere un po' meglio i nostri studenti.Così ho approntato un breve (e un po' rozzo) questionario, che ho sottoposto loro. Ne è uscito uno spaccato interessante della dieta mediale dei ragazzi italiani intorno ai vent'anni, che in qualche caso conferma il panorama italiano che ci consegnano ogni anno i rapporti sui media degli istituti specializzati.

Per esempio, la lettura di libri (oltre a quelli di studio) non sembra essere molto diffusa.

Benché il 77,8% dichiari di leggere libri che esulano dallo studio più della metà legge pochissimo, quasi per nulla.


La situazione non  sembra essere diversa con i quotidiani: quasi l'80% dichiara di leggerne

ma se si va a guardare la frequenza, torniamo a rientrare nel quadro delle statistiche nazionali. Interessante il fatto che coloro che affermano di leggere i quotidiani saltuariamente, affermano anche di leggerli solo su internet.

La cosa che mi ha colpito di più, però, è il rapporto con il cinema
poco meno della metà afferma di non andare al cinema, o di andarci raramente: però tutti o quasi guardano quasi esclusivamente film in televisione e li scaricano da internet (si direbbe quasi compulsivamente), avendo così praticamente ucciso il mercato dei dvd (il numero di chi li affitta è bassissimo).
E con internet, come la mettiamo?
Tra gli strumenti tecnologici in possesso del mio campione (del tutto casuale e per nulla esaustivo o rappresentativo), il computer è diffusissimo,
anche se è battuto di gran lunga dagli smartphone che sembrano essere il vero device per la navigazione, in particolare nei social network.
Infatti quello che mi ha sorpreso è il rapporto (passivo?) con internet: i risultati di una domanda in questo senso sono stati questi


pochissimi hanno un blog (la linea più in basso), mentre un numero molto più alto ha dichiarato di avere o gestire un sito (la linea centrale). Una incongruenza che si spiega con il programma di studi, perché è una classe che, in linea di massima, ha già sostenuto l'esame di informatica.
Il dato più significativo, ovviamente, è che la quasi totalità frequenta i social network, e che, appunto, lo fa con lo smartphone. Usi creativi? In linea di massima sembra di no, ci si limita ai rapporti sociali; ma sono diversi coloro che affermano di usarlo per informarsi. Un aspetto interessante, che occorrerà approfondire per capire come si conciclia con la scarsa lettura dei quotidiani e con lo scarso interesse mostrato per le news in televisione.



Insomma, le premesse per un corso interessante e divertente - dal punto di vista didattico - ci sono tutte: vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi.

Lucio Dalla (1943-2012)





Per me Lucio Dalla è sempre stato questo.


Quando qualcuno che fa parte del tuo immaginario personale e di quello collettivo se ne va, non si può che pensarlo a partire dai ricordi personali.
E per me Dalla era un nastro che mio padre aveva registrato dalla radio e che ascoltava spesso, molto più spesso di quanto non ascoltasse altra musica. C'erano L'ultima luna, Anna e Marco, L'anno che verrà. Oggi so che tutte quelle canzoni facevano parte di uno stesso album che era uscito nel 1979. E immagino che quello fosse, più o meno, il periodo in cui lo ascoltavo.
L'ultima luna mi faceva un po' paura.
Anna e Marco mi piaceva, anche se parlava di cose che ancora non capivo. Ma quando sentivo che Marco ballava come un cavallo, qualcosa risuonava in me, una misteriosa sintonia con quell'inadeguatezza.
Delle tre, la canzone che preferivo era L'anno che verrà: perché mi sembrava una letterina semplice, spiritosa, sorridente. E mi piacevano i muti che possono parlare mentre i sordi già lo fanno. E mi piaceva anche che tutti, finalmente, avrebbero fatto l'amore, che non sapevo esattamente che cosa fosse ma doveva essere qualcosa di bello che ci si era scordati come si faceva.
Avevo circa dieci anni.
Poi, naturalmente, negli anni successivi Dalla continuai a scoprirlo, come tutti gli altri cantautori. E poi me ne dimenticai, preso da altre melodie.
Me ne dimenticai per modo di dire, in realtà, perché le canzoni che molto hai sentito e molto amato rimangono dentro di te, e stanno lì, riposte da qualche parte e pronte a venir fuori quando servono, quando un'emozione, una frase, una parola, un'armonia di qualche tipo risuona dentro di te ed entra in sintonia con quel ricordo sonoro.

Anni dopo, quando stavo facendo le ricerche per Tute blu, ho di nuovo incontrato Lucio Dalla. Un Dalla che non conoscevo, quel Dalla che cantava le parole di Roberto Roversi.
In quelle canzoni, in quelle parole, ho trovato un riflesso delle rappresentazioni degli operai che stavo studiando allora. La mia tesi era che i mondi operai, dopo il 1969, fossero entrati con forza nell'immaginario collettivo: in quelle canzoni trovavo una conferma a questa ipotesi di lavoro.
Ma ci trovavo anche altro, e più importante. C'era l'intuizione che quel mondo stava già finendo, che era entrato in una crisi irreversibile. Una trasformazione profonda che non riguardava solo l'operaio, ma tutto il mondo industriale nel quale si era formato.


L'auto è in crisi profonda
l'auto non ha futuro,
stecco di legno sull'onda...

cantava Dalla nel 1976 (Intervista con l'avvocato).


Ci siamo accorti che il nostro prodotto,  l'automobile, non è più il metro del benessere

avevano detto alcuni operai intervistati dal Corriere della Sera nel 1974.

Erano canzoni che riuscivano a raccontare, in chiave poetica e musicale, una realtà in trasformazione.
Così come faranno, qualche anno dopo, quelle canzoni che ascoltavo da bambino e in cui ora trovavo con un significato nuovo. Erano storie che parlavano della fine di una stagione, cogliendone tutta l'ambiguità. Finalmente si poteva sperare di tornare a uscire fuori la sera, anche se c'era ancora chi metteva dei sacchi di sabbia davanti alle finestre: che trovavo - e trovo - uno splendido modo di raccontare la fine della stagione dei movimenti collettivi e l'inizio del riflusso. Sollievo e delusione, apertura e chiusura: tutto insieme.
C'è stata davvero una splendida età della nostra musica popolare, in cui i cantanti hanno saputo intercettare i cambiamenti profondi che agitavano la nostra società, e li hanno saputi raccontare trasformandoli in inni poetici.


Ciao a te e a me, povero sciocco.
...
Ciao vecchio amore mio
ciao al tuo pugno chiuso
tenero caprone
col pelo sul cuore mai mai deluso.
...
Io vado via, io vado via, io vado via
dove c'è ancora un posto per pensare
due o tre persone e metterci insieme
dove anche senza star bene
ridendo, piangendo, parlando
si può ricominciare.

(Ciao a te, 1981)

 
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