Lucio Dalla (1943-2012)





Per me Lucio Dalla è sempre stato questo.


Quando qualcuno che fa parte del tuo immaginario personale e di quello collettivo se ne va, non si può che pensarlo a partire dai ricordi personali.
E per me Dalla era un nastro che mio padre aveva registrato dalla radio e che ascoltava spesso, molto più spesso di quanto non ascoltasse altra musica. C'erano L'ultima luna, Anna e Marco, L'anno che verrà. Oggi so che tutte quelle canzoni facevano parte di uno stesso album che era uscito nel 1979. E immagino che quello fosse, più o meno, il periodo in cui lo ascoltavo.
L'ultima luna mi faceva un po' paura.
Anna e Marco mi piaceva, anche se parlava di cose che ancora non capivo. Ma quando sentivo che Marco ballava come un cavallo, qualcosa risuonava in me, una misteriosa sintonia con quell'inadeguatezza.
Delle tre, la canzone che preferivo era L'anno che verrà: perché mi sembrava una letterina semplice, spiritosa, sorridente. E mi piacevano i muti che possono parlare mentre i sordi già lo fanno. E mi piaceva anche che tutti, finalmente, avrebbero fatto l'amore, che non sapevo esattamente che cosa fosse ma doveva essere qualcosa di bello che ci si era scordati come si faceva.
Avevo circa dieci anni.
Poi, naturalmente, negli anni successivi Dalla continuai a scoprirlo, come tutti gli altri cantautori. E poi me ne dimenticai, preso da altre melodie.
Me ne dimenticai per modo di dire, in realtà, perché le canzoni che molto hai sentito e molto amato rimangono dentro di te, e stanno lì, riposte da qualche parte e pronte a venir fuori quando servono, quando un'emozione, una frase, una parola, un'armonia di qualche tipo risuona dentro di te ed entra in sintonia con quel ricordo sonoro.

Anni dopo, quando stavo facendo le ricerche per Tute blu, ho di nuovo incontrato Lucio Dalla. Un Dalla che non conoscevo, quel Dalla che cantava le parole di Roberto Roversi.
In quelle canzoni, in quelle parole, ho trovato un riflesso delle rappresentazioni degli operai che stavo studiando allora. La mia tesi era che i mondi operai, dopo il 1969, fossero entrati con forza nell'immaginario collettivo: in quelle canzoni trovavo una conferma a questa ipotesi di lavoro.
Ma ci trovavo anche altro, e più importante. C'era l'intuizione che quel mondo stava già finendo, che era entrato in una crisi irreversibile. Una trasformazione profonda che non riguardava solo l'operaio, ma tutto il mondo industriale nel quale si era formato.


L'auto è in crisi profonda
l'auto non ha futuro,
stecco di legno sull'onda...

cantava Dalla nel 1976 (Intervista con l'avvocato).


Ci siamo accorti che il nostro prodotto,  l'automobile, non è più il metro del benessere

avevano detto alcuni operai intervistati dal Corriere della Sera nel 1974.

Erano canzoni che riuscivano a raccontare, in chiave poetica e musicale, una realtà in trasformazione.
Così come faranno, qualche anno dopo, quelle canzoni che ascoltavo da bambino e in cui ora trovavo con un significato nuovo. Erano storie che parlavano della fine di una stagione, cogliendone tutta l'ambiguità. Finalmente si poteva sperare di tornare a uscire fuori la sera, anche se c'era ancora chi metteva dei sacchi di sabbia davanti alle finestre: che trovavo - e trovo - uno splendido modo di raccontare la fine della stagione dei movimenti collettivi e l'inizio del riflusso. Sollievo e delusione, apertura e chiusura: tutto insieme.
C'è stata davvero una splendida età della nostra musica popolare, in cui i cantanti hanno saputo intercettare i cambiamenti profondi che agitavano la nostra società, e li hanno saputi raccontare trasformandoli in inni poetici.


Ciao a te e a me, povero sciocco.
...
Ciao vecchio amore mio
ciao al tuo pugno chiuso
tenero caprone
col pelo sul cuore mai mai deluso.
...
Io vado via, io vado via, io vado via
dove c'è ancora un posto per pensare
due o tre persone e metterci insieme
dove anche senza star bene
ridendo, piangendo, parlando
si può ricominciare.

(Ciao a te, 1981)

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