Di quello che vedrete, e presto

E si avvicina la fine dell'anno e sarebbe tempo di bilanci.
Ma mentre sono tutti lì a fare i propri e a stilare le personali classifiche di ciò che va conservato e di quello che invece è meglio buttare, io preferisco darvi un'altra anticipazione di qualcosa che potrete vedere con l'arrivo del 2013.
Ricordate? Prima vi avevo invitato a conoscere nuove persone.
E poi a sentire il respiro del bue.
Adesso è il turno del...

beh, guardatevi questo minutino e scopritelo da soli.



Ci rivediamo con l'anno nuovo.

Si avvicina il tempo...

...e no, non mi riferisco all'avvento ma a quello che succederà a Gennaio, a Loreto Aprutino.
Per il momento vi posso far vedere quest'altra piccola anticipazione.



Spero che vorrete anche voi venire insieme a noi per sentire il respiro del bue.

Iniziate a segnarvi questo appuntamento

Ricordate che qualche tempo fa vi avevo parlato di una grossa donazione di film familiari e amatoriali arrivata all'Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese da Loreto Aprutino ?
Nelle settimane scorse ho lavorato a quelle immagini insieme ad Annacarla Valeriano e abbiamo in preparazione qualcosa di bello.
Dateci un'occhiata, e se vi piace tenete d'occhio queste pagine perché presto ne saprete (e ne vedrete) di più.





Se mai passerà da queste parti, voglio ringraziare Carlo Di Silvestre, autore della splendida musica che una volta mi ha prestato in amicizia e che continuo ad usare. Se volete sapere di più su di lui e sul lavoro de Lu Passagalle, fatevi un giro qui. Se invece volete ascoltarvelo, fate un salto qui

Dell'economia e del gioco


Nel Novecento, l’esaltazione del sesso ha avuto una funzione analoga. Sorge sempre il bisogno di contrapporre all’homo oeconomicus qualcosa che sia dominato da una logica complementare e opposta. Nessuna società si può fondare solo sull’homo oeconomicus: è una logica povera, che schiaccia l’elemento affettivo sotto il puro calcolo, e se ci limitiamo a quella si rischia di limitare le potenzialità inventive della società. Semplificando, possiamo dire che ci sono vari modi di integrare e contraddire insieme l’homo oeconomicus. Nell’Ottocento il modello dominante è la passione, il grande sentimento amoroso: non è né uno strumento né un istinto, è appunto un sentimento che si vuole sconfinato; e su di esso si modellano anche altri aspetti del vivere come l’idea di nazione, o l’amore di patria. All’homo oeconomicus e ai suoi calcoli, nell’Ottocento, si chiede di riservare un’intera sfera privata e anche pubblica, che va dal matrimonio al rapporto con i suoi compatrioti, a un sentimento di amore. Nel Novecento, l’amore e la passione sono portati alla radice erotica: l’erotismo, la pulsione, il desiderio potente. La sessualità nel Novecento ha uno spazio enorme, istintivo e strumentale: istinto perché l’eros è inscritto nella nostra stessa natura corporea, strumento perché il sesso diventa pubblicità e cultura di massa. L’homo eroticus è diventato l’altra faccia dell’homo oeconomicus. L’amore, nonostante che se ne parli da due secoli, non è ancora consumato del tutto come principio propulsore della cultura di massa. La dimensione sessuale si è andata svuotando: tu sei le tue pulsioni, gli istinti diventano la tua identità personale. L’ossessione per il sesso che ha attraversato il XX secolo ne ha fatto alla fine una presenza piuttosto banale.
Ora il complemento dell’homo oeconomicus può essere la ludicità.
L'economia, l'amore e il gioco secondo Peppino Ortoleva (c'è pure bisogno di presentarvelo?): se ti interessa, prosegue qui, nell'intervista-conversazione di Fabio Guarnaccia e Luca Barra Il gioco si fa serio. Leggetela, è interessante.

Qualche aggiunta a "una breve storia del pugno chiuso"

Qualche giorno fa Il Post (se non sapete cos'è, leggete prima wikipedia e poi andate a vedervi la home page di oggi) aveva pubblicato una "breve storia del pugno chiuso" a commento delle polemiche (spicciole e anche un po' ridicole) che avevano seguito la vittoria di Bersani alle primarie del Pd, quando sul palco si erano visti alzarsi alcuni pugni chiusi in segno di felicità (ne volete un assaggio? date un'occhiata qui e qui).

Se non vi basta la "breve storia" del Post e, avendo tempo, pazienza e sufficiente curiosità, volete saperne qualcosa di più, forse vi interesserà leggere un estratto da un articolo sui gesti di opposizione che ho scritto qualche anno fa per un convegno e che ha finalmente visto la luce nel libro I gesti del potere (a cura di Marcello Fantoni, Cariti editrice, Firenze 2011) di cui potete ammirare qui a fianco la copertina.

 Buona lettura

In memoriam

"Posso unirmi anch'io? Ho davanti a me due giorni vuoti, e qui davvero non saprei cosa fare".

Paolo l'ho conosciuto più o meno così. Perché avevamo tanto tempo davanti a noi, tempo vuoto da non sciupare.
Ora tempo non ce n'è più e rimane solo il vuoto.
E la dissipazione, lo spreco, lo sciupìo, lo scialo.
Di una persona bella e gentile, di un sorriso mite, di uno sguardo che pensavi distratto e smarrito - e forse lo era davvero, o forse era solo la miopia, perché poi dietro le lenti scorgevi altri mondi che cercavano sempre una via per venire a galla e una profondità mai ostentata.
Di un'espressione irridente, che però conservava in quella piccola piega all'angolo della bocca altri sentimenti che non sapevi, anche se sapevi che era da lì, da quei moti dell'animo, da quella pieghetta che nasceva il suo modo di guardare al mondo.
Che poi Paolo Zanotti era anche uno scrittore e anch'io lo voglio ricordare come i suoi amici de "Le parole e le cose", con un suo racconto.

Dal libro al film e ritorno: Acciaio (quasi una recensione)


In questi giorni drammatici per Taranto, mentre la questione dell'Ilva è tornata ad occupare le prime pagine dei giornali (dalle quali non avrebbe mai dovuto andar via), anche gli schermi cinematografici raccontano una storia legata in qualche modo alle acciaierie. E' infatti nelle sale cinematografiche il film di Stefano Mordini intitolato "Acciaio", tratto dall'omonimo romanzo di Silvia Avallone e presentato all'ultima mostra del cinema di Venezia nelle giornate degli autori.



E' una pura casualità, ovviamente. E, contrariamente a quanto potreste pensare vedendo il trailer, questo film non vi dirà nulla sul duro mondo delle acciaierie e degli uomini e delle donne che vi lavorano. Le acciaierie - la Lucchini di Piombino, e non l'Ilva di Taranto - sono solo lo sfondo della storia, un luogo come un altro per raccontare una vicenda di ingresso nell'età adulta.
Vi avviso subito: se aveste voglia di leggere qualcosa di positivo sul film vi conviene seguire i link e dare un'occhiata alle recensioni di Roberto Nepoti (la Repubblica)  o Alessandra Levantesi Kezich (La Stampa) .
Io, mi spiace per le buone intenzioni del regista, peraltro bravo nella messa in scena e nel fotografare lo stridente contrasto fra acqua e fuoco che avvicina Piombino a Taranto, non vi parlerò bene di questo film. Che ho apprezzato meno di quanto non abbia fatto con il libro, che - come sapete  - già avevo amato poco.
Di norma, poi, credo che film e libri non vadano messi a confronto: troppo diversi i linguaggi, i formati, gli stili narrativi per poter essere paragonati. Però, in questo caso, il parallelo fa parte della critica al film, e quindi  chi volesse proseguire nella lettura se lo dovrà subire.

Diciamolo subito: sia il libro che il film non raccontano storie di fabbrica. Raccontano la storia di due adolescenti che sbocciano all'età adulta in un mondo sul quale le fabbriche incombono e del quale sembrano costituire l'unico orizzonte, fisico ed esistenziale.
E però, nel libro della Avallone questo mondo duro e rugginoso, di rumore e calore, era in qualche modo delineato: la sua scrittura riusciva in qualche misura a farci entrare in quell'universo aspro, a farci percepire quanto l'acciaio costruito dagli uomini finisse in qualche modo per divorare le loro vite. Nella sua descrizione non mancavano certo eccessi e ridondanze,anzi: il suo è un "luna park arrugginito" in cui gli operai sembrano quasi il grado zero dell'umanità, abbrutiti dalla fatica, preoccupati solo del presente e alla ricerca di un effimero benessere materiale, quasi ad anestetizzare la consapevolezza dell'assenza di futuro. E' un mondo un po' troppo letterario forse (basta confrontarlo con quello reale della acciaierie di Terni, raccontato con partecipazione e consapevolezza da Sandro Portelli), che però le consente di descrivere il contrasto con l'arrogante forza della giovinezza delle due protagoniste. E ha il pregio di descrivere la fine di un certo immaginario sul mondo delle fabbriche, lontane ormai anni luce da quelle dove i lavoratori finivano per acquisire una "consapevolezza di classe".
Questo pregio, invece, manca al film di Mordini, dove, se non proprio una consapevolezza di classe, sembra ad un certo punto emergere una sorta di "dignità operaia": quasi a riscattare uno dei personaggio da quell'orizzonte chiuso, da quel futuro che non può vedere, velato com'è dal fumo degli altoforni.
E del resto, se il mondo del libro era abbrutito, almeno era attraversato da una forza primordiale che si incarnava nel continuo vociare, in una vita brulicante che accompagna le protagoniste nelle loro lunghe giornate di adolescenti. Mordini, invece, sostituisce a questa vivacità lunghi silenzi e spazi vuoti, dialoghi spezzettati e incompiuti.
Chissà, magari è stata una scelta dettata solo dalla mancanza di risorse: e tuttavia è una scelta che depotenzia il racconto e che gli leva quella capacità, che il libro aveva, di dare ad una vicenda personale il sembiante di un afflato collettivo.
Così, sebbene con questo film gli operai  siano tornati sugli schermi, essi non sembrano più essere in grado di farci entrare nel loro mondo. Mi sembra simbolica la curiosa scelta del regista di accompagnare il climax emotivo del suo racconto (di cui è meglio non dire, se qualcuno volesse vedere il film) con una serie di immagini d'archivio, peraltro bellissime, quasi come se volesse chiudere un cerchio, segnalando però allo stesso tempo l'impossibilità di raccontare il presente del lavoro industriale (o forse la sua fine?).

A proposito di "Le parole e le figure": un'intervista sul Giornale di Brescia

Pubblicata ieri, 28 novembre, su "Il Giornale di Brescia". Grazie a Sergio Caroli per l'intervista e per avermi mandato il file.

Spigolature dal passato

Era il 1974 e la Corte costituzionale stava demolendo a colpi di sentenze il monopolio radiotelevisivo. L'Espresso, che sin dal 1972 aveva lanciato la parola d'ordine della "libertà d'antenna", seguiva con attenzione la vicenda. E usava tutte le notizie, anche le più curiose e aneddotiche, per sostenere le sue tesi e mostrare che "un'altra televisione è possibile", come qualcuno avrebbe detto molti, molti anni dopo.
L'Espresso, 8 settembre 1974

Ecco qui a sinistra l'articolino. Non leggete niente? diceva così:
Via cavo sarò tua

«Torino. Sono da poco passate le ventitré. In un palazzo d’un lussuoso quartiere residenziale alcuni inquilini indugiano ancora davanti al televisore, ascoltando le ultime battute della musica che conclude i programmi. Ma ecco che la musica tace e il programma continua: compare un uomo nudo nella possanza della sua virilità, lo affianca una donna anch’essa nuda, lui ammira lei, lei ammira lui e in quarantacinque minuti d’ininterrotta attività le posizioni dell’Aretino, quelle del codice rosso danese e quelle del Kama Sutra, più una diecina di varianti inedite, e un paio di danze del ventre vengono esibite e consumate davanti agli occhi esterrefatti degli inquilini i quali, rapiti in un tumulto di lussuria e d’indignazione, riconoscono nei due ardenti partner gli sposini del terzo piano appena tornati dal viaggio di nozze. Il fuori programma non è un regalo di Bernabei, ma un incidente tecnico, che tuttavia apre vie promettenti per il futuro. Appassionato di gadgets, lo sposino ha registrato in videocassetta le sue effusioni di qualche giorno prima, e dopo il telegiornale, ha voluto rivederle, dimenticando di staccare l’antenna centralizzata che ha funzionato, ottimamente, da trasmettitrice via cavo»
"l'Espresso", 8 settembre 1974
La notizia sembra quasi uno scherzo, forse una specie di leggenda metropolitana cucinata in redazione: del resto appare in un boxino, senza firma.
E però tra le righe sembra di poter cogliere l'intuizione delle tv di condominio, grado minimo della "libertà di antenna" che iniziavano a nascere in quegli anni, e l'irruzione della pornografia "casalinga" nelle abitudini della classe media. Molto, molto prima di Youporn. Ma anche delle casalinghe che si spogliavano a Teletorino International, passaggio obbligato di ogni storia della televisione locale in Italia. Piccole, trascurabili cose che danno il segno di un mondo che cambia.

strade da esplorare

Ma quanto sono versatili i film privati?
Quanto è potente ed evocativa la loro estetica?


[Lo scorso anno è uscito anche un film di J.J. Abrams che sin dal titolo, Super8,  le rendeva in qualche modo omaggio (insieme a tutte le memorie di una generazione cinematografica, ma questo è un altro discorso) .
(E se non ne sapete niente, fatevi un giro su wikipedia)]

Perché questo post? Non certo per il film di Abrams (sono ormai veramente fuori tempo massimo) ma perché negli ultimi mesi l'Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese ha lavorato ad una nuova, ingente donazione di film privati che proviene da Loreto Aprutino, vicino Pescara. E casualmente, nei "tempi morti" di questo lungo lavoro di riversamento e catalogazione delle pellicole, e poi della loro analisi e della costruzione di un nuovo, piccolo, documentario (di cui vi parlerò quando sarà il momento), è scappato il tempo per provare a fare qualcosa di nuovo: un trailer teatrale (teatrailer?).

E' nato veramente per caso: registrando le memorie di due dei donatori, abbiamo scoperto che uno di loro sta portando in giro un monologo teatrale.
Gli abbiamo detto: facci sentire.
E lui, così, su due piedi, ha cambiato faccia e voce, e ha iniziato a raccontare una storia. Una storia che sembrava perfetta per alcune delle immagini che avevamo appena analizzato. Abbiamo provato a montarle, e questo è quello che è venuto fuori.



Una nuova, esile strada da percorrere nella nostra ricerca sull'uso pubblico delle immagini private. Una strada che sarà bello iniziare ad esplorare.

Qui, se avete voglia, potete dare un'occhiata agli altri sentieri che abbiamo tracciato.

Ed ecco che torniamo alle domande (retoriche) iniziali.  E provo a dargli una qualche risposta.

A me sembra che la forza evocativa dell'estetica dei film privati e familiari risieda, da un lato, nella grana dell'immagine: ora che è a disposizione di ciascuno di noi la tecnologia per produrre immagini così nitide da sembrare irreali, c'è un ritorno alla ricerca dell'immagine "sporca" che caratterizzava i fotogrammi del secolo scorso. Pensate al successo di instagram e dei suoi filtri, tanto per fare un nome. Le immagini dei film privati girati in 8mm e super8 hanno una colorazione caratteristica che ne svela il tempo: una grana che le imperfezioni della pellicola e le sue deformazioni dovute al tempo non sminuiscono, ma anzi, a mio parere, esaltano. Una grana che innesca un immediato riflesso pavloviano che produce in noi un senso di nostalgia.
A questo tratto, dall'altro lato, si aggiunge la scarsa precisione della tecnica di ripresa: balzi, zoom incontrollati, scatti della camera, movimenti imperfetti, inquadrature non allineate, persone che entrano ed escono all'improvviso. Insomma, tutti gli errori possibili dovuti all'inesperienza dell'operatore. Errori che però rimandano alle tecniche più recenti di ripresa, quella "camera a mano" che tutti si sforzano di adottare quando vogliono dare un di più di realtà al loro girato. E così si produce un involontario cortocircuito che fornisce un senso di contemporaneità a quelle immagini vecchie e imperfette.
E questo doppio movimento esalta, in modo involontario e irrazionale, il senso di realtà e di partecipazione che i film privati producono già ad una prima visione.
Capacità che li rende versatili, capaci di raccontare molto più di ciò per cui erano stati girati.

(r)esistere

"Chiudiamo perché non ci stiamo più con le spese", mi dice.
"Non ci vengono più ad affittarli, i film", mi dice.
Poi si guarda attorno, un giro d'orizzonte con una punta di nostalgia negli occhi e il residuo di una rabbia ormai quasi svaporata, e aggiunge: "c'era gente che veniva, si faceva un giro, si appuntava i titoli dei film appena usciti e poi andava a casa a scaricarli.
E così non si può andare avanti".

No, non si può.

In questo dialogo quasi vero c'è tutto quel fenomeno che è emerso alle cronache nazionali con la chiusura di Blockbuster nel giugno di quest'anno ma che, ormai,  non è più nemmeno un evento: qualcuno ha detto che tra il 2008 e il 2009, in venti mesi, siano state chiuse un migliaio di videoteche.

E poi ci sono le politiche di distribuzione dei film, sempre più rapide, che si riflettono sul "ciclo di vita" dei film.
Senza parlare poi di quello che succede alle sale cinematografiche stesse.

L'industria del cinema subisce i colpi di una trasformazione di lungo periodo che gli sta facendo cambiare lentamente volto.
Ma c'è qualcuno che non si rassegna. E che pensa che l'amore per il cinema sia anche amore per la sala, per il sentire un respiro accanto a te nel buio, per quel sussultare insieme per le stesse emozioni, uniche ma condivise.

E questo post, allora, è solo un piccolo riconoscimento alla fantasia e al coraggio di chi pensa che esistere sia anche resistere..
E anche ad una bella storia che sarebbe un gran bel film.
La storia del Kino e dei suoi amici.

Quando è nato il cinema?

Quando è nato il cinema? Chi l'ha inventato?
La risposta è qui sotto. In una forma che vi sorprenderà.



Il video me l'ha suggerito Vanessa Roghi, una collega, un'autrice di documentari storici per la televisione, ma soprattutto una mente aperta e curiosa. Grazie Vanessa!

16 ottobre 1943

La sera del 15 ottobre, Orfeo Mucci apprende dal centro militare clandestino che si prepara la retata e corre ad avvertire: "da qui dovete spari', dovete anna' via tutti. Villa Borghese, Rocca di Papa, conventi, dove ve pare, dovete anna' via tutti. Perché stanotte ve vengono a ammazza'. Dice: 'No, ma gli abbiamo dato mezzo quintale d'oro...'".
"Però quella notte c'era un silenzio - c'era sempre silenzio, c'era il coprifuoco, i mezzi non c'erano - 'sto silenzio e gli scarponi avanti e indietro, 'sto silenzio e gli scarponi avanti e indietro. Sentiamo i primi rumori e ci mettiamo a vedere e vedevamo porta' via gli ebrei dal portone vicino" (Settimia Spizzichino). "Venne un parente del marito di mia sorella, ce disse andate via, scappate perché stanno a porta' via gli ebrei. Ma io marito, io stavo male dato che ero incinta, mi diceva stai tranquilla che adesso vado a vedere, porteranno via l'òmini... e invece quando arrivò a Monte Savello vide i camion e vide i tedeschi che portavano via bambini, donne. Arrivò a casa mezzo matto: corri, sbrigati, vestiti, scappiamo, scappiamo. Aveva visto tutto 'sto macello lì a Portico d'Ottavia" (Fortunata Tedesco). "Allora noi ciavevamo una casa che era grandissima, era de quattro stanze, enormi poi, una bellissima casa, era. Però c'erano due stanze una dentro l'altra; ci nascondiamo dentro l'ultima stanza e lasciamo tutto aperto in maniera che se entrano vedono [che non c'è nessuno]. Mia sorella, quella più piccola, chissà che le disse il cervello, ebbe paura, scappò. Uscì da casa, è scesa giù il portone pe' scappa' de casa, lei scendeva e i tedeschi salivano, lei se li è visti davanti, è tornata indietro e cià fatto prende' a tutti" (Settimia Spizzichino). La retata si estende a tutta la città, dall'alba al pomeriggio inoltrato. Furono prese 1259 persone (363 uomini, 689 donne, 207 bambini); 237, riconosciute non ebree, furono rilasciate. Dei 1022 deportati, solo quindici tornarono; unica donna, Settimia Spizzichino.
Questo il racconto di quello che accadde 69 anni fa.
La penna, mirabile, è quella di Alessandro Portelli.
Il libro, fondamentale, è L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (Donzelli, Roma 1999).

E questa è una delle pietre d'inciampo (stolpersteine) che ricordano il 16 ottobre 1943.




legami d'acciaio

Quest'estate mi è capitato, per ragioni di lavoro, di rileggere due libri di qualche tempo fa, La dismissione di Ermanno Rea (2002) e Acciaio di Silvia Avallone (2010).
Sono due libri diversissimi.
Per qualità e stile.
Per le storie che raccontano.
Per la complessità di lingua e struttura.
Per ambizione.
Ma sono anche due libri che hanno più di un punto di contatto.
Raccontano entrambi la fine dei mondi industriali del Novecento.
Il primo viene pubblicato negli anni in cui il secondo è ambientato.
E tutti e due hanno ispirato dei film: dalla dismissione è nato La stella che non c'è di Gianni Amelio (2006). Acciaio ha trovato una trasposizione cinematografica nell'omonimo film di Stefano Mordini,  che è stato presentato a Venezia ma non è ancora arrivato nelle sale.

Una (ri)lettura a distanza così ravvicinata mi ha fatto notare qualcosa che sento nell'aria anche in questi giorni di profonda crisi industriale mentre si parla dell'Ilva di Taranto e dell'Alcoa sarda.

Ma prima, forse, devo dirvi in due parole di che parlano questi libri.

La dismissione racconta la storia del lento smantellamento dell'Ilva di Bagnoli dal punto di vista di un operaio specializzato, Vincenzo Buonocore. Il nome è inventato ("nome di fantasia, se non vi dispiace", dice più o meno Ermanno Rea) ed è talmente carico di simboli che, quando Gianni Amelio scriverà La stella che non c'è, cambierà nome al personaggio (in realtà lo stesso personaggio del libro) chiamandolo Vincenzo Buonavolontà.
E in questi nomi-simbolo è racchiusa tutta la differenza tra il libro e il film. Il primo è legato al passato, ad una storia che si sta sgretolando: racconta in qualche modo le ragioni dell'anima di uomini smarriti dalla scomparsa del loro lavoro e del loro mondo. Il secondo racconta invece la volenterosa ricerca di un futuro, in un mondo altro e lontano - la Cina -, dove poter ricominciare a partire da un frammento di passato - un meccanismo della linea di produzione che è stata venduta ai cinesi, ma senza il quale essa funzionerebbe male e che Buonavolontà vuole consegnare ai nuovi proprietari. Quasi, si potrebbe dire, l'ottimismo della volontà, che tuttavia si sgretolerà nell'incontro con il "nuovo" mondo.

Ma sto divagando: scusate.


Acciaio, dunque, si diceva. E' la storia di due adolescenti, legate da un'amicizia che confina con l'amore, sullo sfondo di una Piombino industriale che, per usare l'espressione dell'autrice, somiglia ad un luna park abbandonato. E' una storia che lascia in bocca un sapore di ruggine e nel naso l'odore dell'acido delle batterie abbandonate sul ciglio di strade polverose, se mi perdonate il lirismo.

Nella dismissione il mondo industriale che finisce è il perno della narrazione.
In Acciaio il mondo industriale agonizzante ma ancora vivo è solo lo sfondo del racconto: quasi la giustificazione di un universo sociale e umano che appare regolato da leggi immutabili e impietose.

Coscienza del lavoro da una parte. Quasi nemmeno la coscienza di sé dall'altra.

E' come se il mondo di cui Rea raccontava la scomparsa fosse invece sopravvissuto, ma non fosse altro che un paesaggio di macerie sociali e culturali descritto da Avallone.

E cos'è sparito nel trapasso dall'uno all'altro? Forse l'elemento principale potrebbe essere l'etica del lavoro, per usare un'espressione desueta, quasi arcaica, che ormai sembra quasi priva di senso. O meglio, il senso di identità generato dal lavoro: che è consapevolezza, coscienza, passione, ossessione in qualche caso. Identità che oggi - ci assicurano - è riposta altrove, anche se io non saprei dire dove.

letture: Du service public à la télé-réalité

Ri-eccomi qua. E scusatemi per il lungo silenzio.
Oggi voglio parlarvi brevemente del libro che vedete qui sotto:

Il titolo - riuscite a leggerlo? - è Du service public à la télé-réalité. Une histoire culturelle des télévisions européennes 1950-2010 e l'autore è Jérome Bourdon, che insegna all'Università di Tel-Aviv.
Un libro denso, complesso, interessantissimo che tenta di rispondere ad una domanda: possiamo parlare di una televisione europea?
Lo sapete: la televisione è un medium domestico e questa parola deve essere intesa con un doppio significato. E' un medium domestico perché invoca e organizza la domesticità rivolgendosi al "pubblico da casa". Ma è "domestico" anche nel senso di nazionale: la televisione è un medium, cioè, la cui storia è strettamente legata ai confini nazionali, alle politiche di costruzione della nazione (sul piano simbolico perlomeno) e alla costituzione di un pubblico nazionale, che rispecchi cioè tutti gli strati sociali e i punti di vista della società nazionale. E' un aspetto del medium televisione che in Europa viene rinforzato dal modello di broadcasting adottato in questa parte di mondo, il servizio pubblico.
Eppure, già nel 1950 - dunque ancora prima che in Italia iniziasse il servizio nazionale regolare della Rai - esisteva una Unione Europea di Radiodiffusione, che poi avrebbe dato vita nel 1961 a Eurovision News.
Qualcuno di voi magari ricorderà anche i programmi che andavano in onda in "eurovisione"
e quel curioso programma che andava in onda generalmente d'estate (o almeno io lo ricordo così), i "giochi senza frontiere" (come non sapete di che si tratta: andate qui e guardatevi una puntata che La storia siamo noi ha dedicato al gioco).
Sono tutti esempi dell'esistenza di una collaborazione tra le diverse televisioni nazionali, che però non hanno dato vita ad una vera e propria televisione europea, segno della debolezza intrinseca della "sopranazione" Europa.
 Eppure Bourdon dimostra come si possa parlare di una storia europea della televisione sotto il profilo culturale: le fasi tecnologiche e istituzionali delle molte televisioni europee sono piuttosto differenziate ma non profondamente diverse come si potrebbe immaginare. Così come ci sono molti elementi in comune dal punto di vista dei programmi e dei flussi creativi.
Certo, il quadro è complesso e frastagliato: fare storia europea della televisione significa affrontare un doppio percorso sovrapposto, l'evoluzione delle televisioni nazionali e - allo stesso tempo - l'evolvere di una televisione (intesa come dispositivo narrativo, come contenuti più che come istituzione formale) transnazionale europea. Quindi occorre confrontarsi con le storie nazionali, che è il punto di vista adottato in genere dalla storia dei media, e in particolare dalla storia della televisione, con tutte le difficoltà linguistiche e di ricerca delle fonti che questo tipo di ricerca comporta. Però, allo stesso tempo, occorre misurarsi con la storia europea: ovvero con le divisioni tra un'Europa del sud e una Europa del nord, che - per quanto possa sembrare incredibile - si riflettono nelle storie delle televisioni nazionali. 
E - soprattutto - occorre confrontarsi con ciò che viene da fuori, con quella che Bourdon chiama la americanizzazione della televisione europea, un processo che si sviluppa in tre fasi: invisibilità, dall'inizio delle trasmissioni agli anni '80; trionfo, negli anni '80 e '90; e americanizzazione intima, la definitiva conquista dell'anima si potrebbe dire, a partire dal 2000.

Nonostante la complessità del quadro e delle tematiche, Bourdon riesce a fornire una visione d'insieme in cui tutto si tiene, dalle politiche alle scelte culturali, dalle somiglianze alle eccezioni (come il modello inglese, per certi versi anticipatore delle evoluzioni europee).
E, soprattutto, riesce a spostare in avanti il limite degli studi sulla televisione che occorrerà considerare sempre di più come un'industria culturale transnazionale, in cui l'approccio comparativo diventa sempre più ineludibile.

mentre l'estate finiva...

Mentre l'estate volgeva al termine dal fresco delle valli svizzere mi arrivava una lieta notizia: il mio libro veniva letto e apprezzato in quegli ameni luoghi.
E così, per riprendere bene, vi faccio vedere che cosa scrivevano.
L'articolo è di Sergio Caroli, ed è stato pubblicato il 27 agosto sul Corriere del Ticino.
Se ci cliccate sopra dovrebbe ingrandirsi e dovreste riuscire a leggerlo senza usare una lente d'ingrandimento.

delle cose che accadono in silenzio, o quasi

Oggi prendo a prestito parole di altri per dire cose che sento profondamente.

Le prime sono quelle che Alessandro Portelli ha scritto ieri su "il manifesto":
Un pomeriggio pochi giorni fa ero nella sala dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi. Stavamo continuando una lunga intervista con Mario Fiorentini, matematico di fama mondiale e protagonista della Resistenza romana. Il racconto si dipanava, digressivo e articolato come quelli di chi ha tanto da raccontare e sente di avere poco tempo per farlo. C’erano i ricercatori e i tecnici dell’Istituto, i microfoni per registrare, un paio di amici venuti a sentire. La registrazione era destinata ad aggiungersi all’incredibile patrimonio di voci e ai circa 500.000 documenti che l’Istituto ha accumulato e reso disponibile dal tempo della sua fondazione negli anni ’20 come Discoteca di Stato. Tutto questo però è come se non fosse mai avvenuto. Infatti quella stessa mattina, nell’ambito della cosiddetta spending review (vuol dire, banalmente, “esame della spesa”; ma in inglese fa tutt’altro effetto) era stata annunciata la soppressione dell’Istituto, senza che nessunp ne fosse stato informato o consultato, senza nessuna verifica della sua utilità e funzionamento, e senza darne nessuna motivazione. In un comunicato dei lavoratori dell’Istituto ci si chiede come mai si scelga di sopprimere “un Istituto storico, unico nel nostro paese, che non ha auto blu, non effettua alcuno spreco di denaro pubblico, con un budget ridotto a livelli di sussistenza”, e che per di più è titolare del diritto di deposito legale di tutte le pubblicazioni sonore e audiovisive (come dire, l’equivalente in questo campo della Biblioteca Nazionale). La politica del “governo tecnico” nei confronti della cultura – scuola, università, istituti di ricerca (come l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) – mi ha convinto di una cosa: un tecnico non è necessariamente una persona colta. Un tecnico è in grado di eseguire una serie di operazioni settoriali in un settore ben definito, ma non è tenuto a capire niente di quello che si muove al di fuori del suo territorio e tanto meno ad avere immaginazione e visione. E siccome l’unico settore che conta e l’unico in cui dichiarino di avere competenza è quello dell’economia di mercato e finanziaria, ecco che si avvera il motto attribuito a Tremonti: con la cultura non si mangia. Che volete che ne importi a Moody’s o ai mitici “mercati” del nostro più grande patrimonio sonoro e audiovisivo, della nostra memoria in immagini e suoni? Il modo frettoloso e irrituale in cui è stata presa e annunciata la decisione di sopprimere una realtà cruciale per la nostra memoria storica e culturale dà l’idea di una straordinaria superficialità. Ma d’altra parte il disprezzo per la cultura e per la ricerca, la convinzione della loro irrilevanza, si armonizzano bene con una prospettiva di declassamento del nostro paese ben più pesante di quello di Moody’s: un paese di seconda categoria, senza passato e senza futuro. Ma con licenziamenti facili e novanta cacciabombadieri.
L'articolo si intitolava "Silenzio di Stato" e se vuoi provare a contribuire anche tu a fermare questo cammino verso il silenzio puoi inviare una mail all'indirizzo nonchiudiamoicbsa@yahoo.it

Le altre parole le prendo in prestito da un grand'uomo che festeggia oggi gli anni e che diceva più o meno
l'istruzione è l'arma più potente che si può usare per cambiare il mondo
Quell'uomo è Nelson Mandela.
Tirate voi le somme, se volete.

Aggiornamento
 Ancora parole di altri, della Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea):
La Sissco esprime forte preoccupazione per la continua e progressiva riduzione di personale, di spazi e di servizi negli archivi pubblici italiani, a seguito della costante riduzione dei fondi a disposizione. La documentazione archivistica costituisce infatti una parte fondamentale del patrimonio culturale italiano, preziosa risorsa del nostro Paese e fondamento della nostra vita civile. La Sissco, in particolare, esprime preoccupazione per le notizie relative ad una possibile diminuzione di personale e di competenze presso l'Archivio Centrale dello Stato. L'Archivio Centrale dello Stato, grazie all'impegno di tutti i suoi componenti, ha finora saputo contenere gli effetti dei progressivi tagli di budget. Ma è inevitabili che un’ulteriore diminuzione delle risorse finirà per incidere negativamente sulla conservazione e sull’accesso ai documenti, con ripercussioni negative anche sulla qualità della ricerca storica. Ci rivolgiamo alle altre società di storia, alle associazioni di archivisti e bibliotecari, perché si levi una voce comune contro la compressione e la mortificazione dei beni archivistici italiani

Revolution Complex - del raccontare la crisi con i fumetti

Mentre qualche giorno fa la Spagna tornava ad esplodere, mostrando come la tensione non fosse mai veramente scesa, ho ripreso in mano un libro che da un po' di tempo mi faceva l'occhiolino dalla pila accanto al letto. 
la copertina italiana
di "Revolution Complex"

Si tratta di Revolution Complex, un insolito lavoro collettivo, una specie di istant visual journalism, che prova a raccontare il movimento 15-M, da noi meglio conosciuto come indignados. Qui trovi il blog del libro, che in Italia è stato pubblicato dalla casa editrice Aurea e distribuito in edicola.
La cosa che rende questo volume tanto particolare quanto degno di attenzione è il fatto che sia un tentativo di raccontare un movimento collettivo attraverso un lavoro altrettanto collettivo. Molti scrittori e disegnatori spagnoli si sono provati a descrivere il movimento degli indignados e le loro ragioni, ma anche le cause profonde della crisi e le trasformazioni che sta portando nel vivo del corpo sociale, attraverso i loro abituali strumenti del mestiere: la tastiera di un computer, la matita, la carta, l'inchiostro.
Una tavola di Josep Homs
tratta da "Revolution Complex"
E come un movimento collettivo è fatto da tante individualità, da tante piccole o grandi vicende, da tante opinioni, magari non tutte egualmente condivisibili, così questo libro è fatto da tante storie, piccole o grandi, di diverso genere, di differente efficacia - o anche solo piacevolezza. Gli stili e i generi sono i più diversi: dalla vignetta satirica allo spaccato di vita quotidiana, dallo humour nero all'uso di animali antropoformizzati (ma non aspettatevi una ripresa del canone disney).
Talvolta la narrazione è più vicina a quella cosa che noi intendiamo comunemente per fumetto.
Talvolta, invece, se ne discosta, per abbracciare canoni narrativi che più facilmente vedremmo in televisione: è il caso, ad esempio, delle interviste che punteggiano il libro, quasi a separare in blocchi le varie storie. Qui la modalità della rappresentazione e della narrazione sono quelle tipiche dell'intervista giornalistica: inquadratura fissa, primo piano, domande, risposte. Solo che invece della telecamera abbiamo una matita, e l'espressività dell'intervistato è filtrata attraverso la personalità del disegnatore, cosa che dona alle parole una efficace forza moltiplicatrice.

Il risultato è ineguale e altalenante ma aggiunge una sfumatura nuova a quel particolare genere che è il graphic journalism. A differenza di questo, però, che, attraverso le storie cerca di andare all'origine della vicenda di cui racconta un frammento, Revolution Complex sembra limitarsi a solcare la superficie di quello che sta accadendo. Talvolta, è vero, dietro una battuta o una storia, si ha l'impressione di veder balenare una qualche verità primigenea: ma - evidentemente - le origini della crisi sono talmente remote da risultare incomprensibili a molti e ciò che merita di essere raccontato è solo la rabbia, l'indignazione appunto, di chi sente la propria vita travolta da qualcosa di estraneo, ma a cui abbiamo pur sempre dato vita.
E allora, perché cimentarsi in un racconto del genere? Che senso ha un lavoro come questo?
Forse la sua forza è solo nel mostrare che che la cronaca grafica è  la migliore forma di narrazione per chi è cresciuto allevato con le immagini. Non solo e non tanto perché le immagini aiutino a spiegare meglio: pensate a quanto spesso le immagini televisive siano solo fantasmi che infestano il vuoto di una cronaca che non sa più raccontare. Quanto, piuttosto, perché le immagini grafiche - i disegni -  possono ribaltare facilmente l'apparente oggettività delle immagini foto(video)-grafiche. Possono graffiare la dura superficie della cronaca mostrando per un istante quello che c'è dietro, o sotto. Possono descrivere l'inspiegabile con il ribaltamento della realtà di un segno metafisico.
E così aiutarci a capire, anche se magari più noi stessi che il mondo della finanza.

una fine e un inizio

Anche quest'anno mi trovo a scrivere qualche appunto sul corso che ho tenuto durante l'ultimo semestre, a tirare le somme del lavoro fatto.
Anche quest'anno il corso era un Laboratorio di comunicazione multimediale. E anche quest'anno io e Gabriele D'Autilia abbiamo cercato di fondarlo su un progetto di gruppo, così come avevamo fatto l'anno precedente. Ma a differenza di quanto era successo allora (me ne lamentavo qui, nelle "notarelle di fine corso"), stavolta la partecipazione c'è stata, ed ha portato buoni frutti: questi.

E questi:
Sono due delle immagini che accoglieranno in un prossimo (molto prossimo) futuro chi si collegherà sul sito della facoltà, comunite.
Questo sito ha una storia relativamente breve, ma intensa: ha accompagnato la facoltà sin dalla sua nascita, ed ha attraversato fasi diverse, altalenanti.
Quando venne creato segnò una discreta innovazione per la facoltà, stimolando molti docenti - spesso completamente a digiuno di nozioni informatiche - a imparare ad usare semplici strumenti per la creazione delle proprie pagine. Aveva delle gabbie un po' rigide, ed era abbastanza schematico: ma era un luogo piuttosto frequentato, ed un buon servizio per gli studenti.
Poi si tentò una ulteriore evoluzione, cercando di lasciare maggiore libertà ai suoi fruitori: ciascuno avrebbe potuto, in teoria, costruirsi le proprie pagine e organizzare al meglio la propria comunicazione. L'idea era buona, ma chi l'aveva avuta non aveva considerato il livello medio di alfabetizzazione informatica e la resistenza all'innovazione che caratterizza ogni struttura organizzata. Per reagire a queste difficoltà si tentò la strada dell'organizzazione verticale, ma l'unico risultato fu la creazione di una serie di colli di bottiglia che rendevano ancora più difficile l'uso del sito.
Che così, a dispetto della buona volontà di chi cercava di usarlo, iniziò ad essere sempre meno aggiornato e a perdere progressivamente di interesse.
Ed è stato allora che l'abbiamo ripreso, prelevandolo da quella sorta di limbo in cui era caduto. Un limbo dove ogni tanto qualcuno coraggiosamente si affacciava per cercare di rianimarlo, dandogli una nuova grafica, tentando una nuova organizzazione. Tutti tentativi - alcuni anche encomiabili - che però - isolati - presto si spegnevano, quando venivano meno l'entusiasmo e la buona volontà di quei coraggiosi esploratori dei luoghi abbandonati della rete .
Stavolta abbiamo provato a cambiare le carte in tavola.
Non siamo partiti da ciò che c'era ma da ciò che i principali fruitori di un sito del genere - gli studenti - avrebbero voluto che ci fosse.
Noi avevamo degli studenti - un'intera classe - e loro avevano delle idee: molte idee.
Una, soprattutto.
Dall'era lontana della nascita del sito (perché, sì, sono passati pochi anni ma sembrano ere geologiche) si era trasformata la stessa concezione della rete: erano arrivati i social network, la partecipazione, la condivisione. E questo aveva cambiato la stessa percezione di che cosa avrebbe dovuto essere un sito di una facoltà di scienze della comunicazione: non solo un luogo di servizio dove trovare informazioni, ma anche un luogo dove stare insieme, condividere le esperienze - di studio, di vita in comune, di pensiero -, sperimentarsi, imparare - magari sbagliando - a mettere in pratica ciò che si studia.
In breve, un luogo che ricreasse la comunità che ogni università dovrebbe essere.

E così ci siamo trovati a cambiare interamente prospettiva, mettendo al centro dell'esperimento intelligenza collettiva, partecipazione, condivisione: tutte quelle che ci dicono essere le parole chiave del nostro tempo.



Ora è arrivato il momento di mettere in pratica quello a cui si è lavorato negli ultimi mesi: domani il sito verrà presentato al Consiglio di Facoltà, che lo analizzerà per decidere se trasformarlo nella faccia in rete della facoltà.

Io so che ci sono una cinquantina di ragazze e di ragazzi che tengono le dita incrociate, pronti a rimettersi al lavoro.
Le incrocio con loro, perché questa piccola storia mi sembra una timida ma ferma risposta alla crisi in cui si dibatte l'università: qualcosa da cui ripartire.

L'Aquila - Viaggio in Abruzzo (6)

La puntata su L'Aquila (in onda ieri, lunedì, dopo la pausa del fine settimana) è stata forse la più dolorosa da realizzare. E' stata pensata come un omaggio alla città, e non poteva che partire dal terremoto del 2009 e procedere a ritroso, mostrandola com'era prima.
E così, ecco apparire tutta la raccolta bellezza dell'Aquila, nelle strade piene di persone e auto, di vita.
O ancora i vicoli alle cui strette finestre si affaccia solo qualche "anziano pigro", come diceva un commento che mi ha colpito per la sua involontaria irriverenza.
Ma ecco anche sfilare tutte le contraddizioni della città, come gli scontri per il capoluogo, o le guide dei musei capaci di parlare solo un italiano fortemente dialettale.

In questo caso, i filmini racconti dall'Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese, non sono stati che un tramite, una coda per uscire da una cronaca o un "gancio" per introdurre un nuovo argomento. Gancio visuale, come le montagne che portavano "fuori" dalla città, o cronologico, giocando sull'assonanza degli anni in cui venivano girati i filmini privati e i reportage pubblici.
E quel senso di sottile nostalgia che, nel confronto con l'oggi, permea tutta la puntata è rafforzato dalla consapevolezza che molta di quella memoria privata contenuta nelle fotografie di famiglia o, peggio ancora, nelle fragili "filmine" dei super8, è probabilmente andata persa.

Così, per inciso, ben vengano le iniziative che a quella memoria guardano, come questa per esempio
 Una memoria che, io credo, non dovrebbe però limitarsi a ricordare ciò che era prima. Ma dovrebbe guardare a ciò che sarà.
Perché, mi viene da dire con un paradosso, il verbo ricordare si declina al futuro.

L'Abruzzo in cammino - Viaggio in Abruzzo (4)

Ed eccoci alla quarta puntata, quella per cui - forse - è stato fatto il lavoro più complesso.
Abbiamo cercato infatti di raccontare due storie in parallelo.
Il racconto pubblico, quello della Rai, si concentrava sulla fase iniziale dell'emigrazione, la partenza: erano storie prevalentemente centrate su chi restava, su quanto l'emigrazione costituisse un depauperamento per le aree di avvio dell'esodo.
L'emigrazione come dramma, insomma: per chi parte e per chi resta.
Il racconto privato suggerisce invece un percorso circolare: dalla partenza da un paese povero al difficile ambientarsi nella nazione di destinazione. Dalla lenta acquisizione di usi e costumi diversi, agli sforzi per mantenere un legame con la terra di origine, legami rinsaldati a tavola, con la musica, con le visite dei parenti e dei compari. E infine, poi, il ritorno, cambiati in un paese che è rimasto lo stesso solo nell'immaginazione di chi è stato lontano per tanto tempo.
L'emigrazione come possibilità, dunque: come speranza e trasformazione.

Certo, provare a raccontare questo lungo percorso esistenziale con poche sequenze è stata un po' una sfida. E a complicarla ulteriormente c'era la contrapposizione fra due punti di vista opposti, che volevamo però ricondurre ad unità, per tentare di descrivere la complessità di un fenomeno senza rinunciare al piacere del racconto.
Solo voi potete dire se e quanto ci siamo riusciti.

Comunque, ci ha aiutato molto  il fatto che alcuni dei filmini donati all'Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese, e in particolare quelli del Signor Renzi (Monticelli, Teramo), sono stati sonorizzati dallo stesso cineamatore. E se questo ha posto dei problemi dal punto di vista del montaggio (come conciliare il fondo musicale scelto dall'autore con quello che avevamo deciso di mettere noi?), ci ha invece permesso di suggerire allo spettatore un preciso punto di vista, senza aggiungere cartelli esplicativi.
In questo senso, forse, la cosa più bella è la lunga sequenza di visite ai parenti e ai compari che il signor Renzi ha filmato con dovizia di particolari, identificando con nome e cognome ogni singolo personaggio su cui si sofferma l'obiettivo. Individuando i luoghi in cui i suoi amici vivevano e quelli in cui avevano lavorato. Come se, attraverso questi dettagli, potesse trovare la loro nuova identità.
Certo, occorre guardare con un po' di distacco a queste immagini, non farsi prendere dalla loro forza affabulatrice. Se non si facesse così, ci si perderebbe in una sequenza di sorrisi, brindisi, scene di serenità familiare che sono solo una parte di quella vita di abruzzesi fuori dall'Abruzzo: tutto il resto - il senso di distacco, la solitudine, le difficoltà di inserimento - rimane per lo più lontano dall'obiettivo. E del resto, anche il film di famiglia non è che la "messa in scena" di un'idea di famiglia, quasi la raffigurazione di un'aspirazione di vita.

Terra di santi e di poeti - Viaggio in Abruzzo (3)

E così è andata anche la terza puntata.
Vi sta piacendo il racconto?
A proposito, questa parola mi fa venire in mente che non vi ho ancora detto una cosa importante (mea culpa, mea culpa): la principale narratrice di queste storie è Marta La Licata e l'artefice del montaggio è Marco Caroni. Grazie a loro siamo riusciti a trovare (credo) un buon equilibrio tra il racconto pubblico della televisione italiana e quello privato delle famiglie abruzzesi.

E questo ci porta alla puntata di ieri che ci ha condotto in un viaggio nella storia dell'Abruzzo attraverso tre grandi personaggi, Celestino V, Gabriele D'Annunzio e Ennio Flaiano.
In questo caso, far incontrare i due sguardi, quello pubblico e quello privato, non è stato facile.
Infatti, se c'è una cosa che i film di famiglia difficilmente ci possono restituire sono le vicende dei grandi personaggi, anche se - ultimamente - capita sempre più spesso di vedere i film privati all'interno dei documentari biografici. Mi viene in mente per esempio Questa storia qua, un film su Vasco Rossi che usa molti materiali privati, video e super8, oltre alle inevitabili fotografie (non lo avete visto? l'uso della memoria audiovisiva familiare è molto evidente anche nel trailer. Dateci un'occhiata, e poi tornate qua).
Ma questa storia qua non è la nostra storia.
Nella nostra storia, stavolta, i film di famiglia sono serviti soprattutto per ambientare il racconto e legarne i vari capitoli, diciamo così. Una funzione di raccordo, insomma.
E però abbiamo cercato di fargli dire qualcosa in più, piccole cose che potessero arricchire la storia.
Quanta distanza c'è, ad esempio, fra la Pescara di Flaiano e quella che filmavano i padri di famiglia solo qualche anno più tardi?
Ed è possibile ritrovare qualcosa dell'Abruzzo di Silone nei fotogrammi sgranati della fine degli anni Quaranta? Oppure in quelli dei decenni successivi, quando piccole cineprese cercano di immortalare la maestosità delle montagne per rievocarle poi sulle pareti di un salotto?
Ecco, forse è questa distanza fra memorie il sottotesto della puntata.
Da una parte la memoria privata degli scrittori, che attraverso l'elaborazione narrativa diventa immaginario collettivo. Dall'altra la memoria privata di una classe media, che, recandosi sui luoghi narrati dagli scrittori cerca di riprodurne le suggestioni, attingendo in questo modo ad un immaginario simbolico di cui è entrata in possesso attraverso la lettura.
Un percorso che ha quasi un andamento circolare, in cui storia, immaginario e memoria si alimentano a vicenda, per raccontarci un paese che - forse - non c'è, ma non per questo è  meno reale.

La più bella e la più brava d'Abruzzo - Viaggio in Abruzzo (2)

Ieri mi sono dilungato un po' troppo. Il piacere di intraprendere un nuovo viaggio, certe volte, ti fa prendere male le distanze, e la prima tappa è stata forse un po' lunga.
 Lunga come il titolo della seconda tappa,  La più bella e la più brava d'Abruzzo.
Alle orecchie di qualcuno potrebbe sembrare ironico, oppure sfacciato nel suo essere "d'altri tempi".
E, in effetti, è un titolo "d'altri tempi", come potete vedere:

È il fotogramma iniziale di una "Settimana Incom" del 1953 che racconta di un  concorso di bellezza piuttosto anomalo che si svolgeva in Abruzzo e Molise tra gli anni '50 e '60. Era organizzato dagli Enti per il turismo della regione e ambiva ad eleggere, appunto, la ragazza più bella e più brava d'Abruzzo, una ragazza per cui la bellezza non era il primo requisito: ciò che importava era che avesse "le mani d'oro", perché doveva saper cucinare piatti della tradizione e svolgere alla perfezione le tipiche mansioni casalinghe, come spiegava un articolo del 1956.
Nella puntata abbiamo cercato di mettere sotto osservazione questo stereotipo.
E i filmini di famiglia si prestano bene a questo compito perché sono girati prevalentemente dai capifamiglia maschi: ciò che si riflette nel loro sguardo, quindi, è un'immagine tipica della donna, moglie e madre. La donna come desiderano che sia, si potrebbe quasi dire. E così non è difficile leggere nelle loro sequenze quale sia il ruolo della donna in una famiglia ancora fortemente patriarcale: esemplari quei fotogrammi in cui le donne servono in tavole alle quali non siedono.
E però alcune di queste donne rompono le consuetudini, infrangendo l'immagine tradizionale: sono donne che guardano direttamente nella macchina da presa, e che la "usano" per "mettersi in mostra", per dare un'immagine di sé lontana dallo sguardo stereotipato di chi le riprende. Donne che, per esempio, sfidano il proprio fidanzato - e il galateo sociale - rubandogli una sigaretta per fumare in pubblico.
Ed ecco che, ancora una volta, tra i fotogrammi dei film di famiglia si insinua la modernità. Nel loro succedersi si può osservare il lento modificarsi i ruoli sociali. Oppure il modo in cui cambia la percezione del corpo, con donne che non sono più "in posa", immobili davanti ad un obiettivo, ma si "mettono in mostra", giocando con la cinepresa e con lo sguardo che gli sta dietro. E, ancora, le forme tutte nuove in cui manifesta l'affettività.
In questo gioco di sguardi e volti e corpi, c'è anche un piccolo, ulteriore riferimento al titolo: verso la fine della sequenza iniziale che serve per introdurre la puntata, c'è una veloce panoramica su un gruppo di ragazze in fila. Stacco improvviso e tutte le ragazze si abbracciano: sembra quasi di sentirle urlare dalla gioia, mentre si lanciano le une sulle altre. È ancora una volta un concorso di bellezza, ma ora siamo agli inizi degli anni Ottanta, e la modesta esibizione che suscita tutti questi entusiasmi conclude la festa di un paesetto tra le montagne teramane.
Le più belle e le più brave d'Abruzzo sono diventate ragazze come le altre.

La terra si ammala ma non muore - Viaggio in Abruzzo (1)

 Vista la prima puntata del Viaggio in Italia che Rai Storia sta dedicando all'Abruzzo?
 Cominciamo allora questa specie di viaggio parallelo, per approfondire qualche aspetto di quello che è appena andato in onda. Mi piacerebbe raccontarvi qualche retroscena, qualche inside joke che potrebbe esservi sfuggito. Condividere con voi qualche episodica riflessione, anche sulla natura dei film di famiglia.

 Un'immagine diffusa dell'Abruzzo lo vuole regione isolata, chiusa tra le sue montagne, gelosa delle sue tradizioni e impermeabile alla modernità: terra "forte e gentile", di pastori e donne silenziose, lupi e briganti. Un immaginario un po' datato, magari, visto che i lupi sono quasi a rischio di estinzione (per non parlare dei briganti). Ma tant'è.
La puntata di ieri nasceva proprio da questi frammenti dell'immaginario collettivo, sedimentatisi e inspessitisi in luoghi comuni, e li ha fatti incontrare (e scontrare) con le rappresentazioni private dei film di famiglia.
Il problema che abbiamo avuto, in questo caso, è stata la selezione dei materiali: forse ce ne sarebbero stati abbastanza da fare una puntata da un'ora, solo con i film di famiglia. Del resto, la gran parte dei filmini dell'Archivio della memoria di Teramo è degli anni Sessanta e Settanta, gli anni, cioè, della modernizzazione dell'Italia e di quella, leggermente ritardata ma impetuosa, dell'Abruzzo. Insomma, Quasi se giustamente contestualizzata, quasi ogni sequenza conservata nell'Archivio potrebbe essere usata per raccontare questa trasformazione.
La scelta, allora, non poteva che essere diversa: occorreva partire dallo scarto fra l'immaginario pubblico e quello privato. 
E allora, quanto c'è di quest'Abruzzo immaginario nei filmini familiari?
Beh, molte delle immagini che abbiamo visto sembrano raccontare proprio quell'Abruzzo lì, una regione povera, di montagne, pastori, contadini, donne con il fazzuolo in testa.
Sembrano, però.
Perché lo sguardo non è analitico, documentario, tanto meno di denuncia sociale. Piuttosto è uno sguardo complice, di chi si specchia in una realtà che riconosce come propria.
Avete visto, certo, le immagini del 1947 delle campagne intorno a Mosciano Sant'Angelo (TE): immagini di povertà, in cui c'è un contrasto stridente fra i "cafoni" e i "signori", contrasto fatto di abiti e atteggiamenti. Lì sembrerebbe esserci quasi una funzione di denuncia, o, quantomeno, la voglia di documentare una diversa realtà. E invece non è proprio così, perché quelle immagini erano state girate come un "monumento" per un emigrante arricchitosi e tornato in patria: e dunque il contrasto è cercato, quasi a sottolineare la condizione di partenza che ormai si è lasciata alle spalle.
Accanto a quelle, poi, avete visto le immagini della campagna: quei fotogrammi che sembrano usciti da un quadro naif, con una donna che conduce un carro stipato di fieno nella luce infuocata di un tramonto. Sono sequenze del 1968, che poi è l'anno in cui l'Abruzzo si apre al mondo, con le autostrade che lo collegano alla capitale.
Segno di una regione arcaica che finalmente si apre alla modernità?
Sì, certo, se abbiamo presente il contesto. Ma non solo, perché l'obiettivo che riprende quella e altre scene lo fa con naturalezza, direi quasi con orgoglio nel mostrare quel duro, ma quotidiano, familiare, mestiere dei campi.
Quello che si coglie - e che abbiamo cercato di raccontare - è come la modernità arrivi tardi, ma rapida e travolgente.
E allora non sono tanto le macchine per la trebbiatura che colpiscono: dalla prospettiva di chi gira quei film nelle campagne del teramano, la meccanizzazione del lavoro contadino è solo una benedizione, accolta però con ineluttabilità, con naturalezza.
Il cambiamento, la grande trasformazione degli anni '60 e '70 la si coglie invece nelle facce, negli sguardi, nella minore familiarità dei giovani con i mezzi e con i gesti del lavoro agricolo che erano soliti ai loro padri.
Il cambiamento, la modernità, paradossalmente, è proprio in quella piccola cinepresa che riprende il paesaggio agreste e i lavori contadini nelle contrade: lo sguardo del cineamatore è affettuoso, addirittura arcadico. Non sa che sta filmando un mondo destinato a trasformarsi impetuosamente nel giro di pochi anni, le cui prime avvisaglie si scorgono nelle macchine nuove parcheggiate nelle aie, nelle case costruite con i blocchi di cemento e non più con la pietra.
Piccoli segni che, nel racconto pubblico della televisione di stato, diventano la scoperta dei giacimenti di Pollutri o la costruzione dei laboratori di fisica nucleare del Gran Sasso. Cose di cui, nei film privati, girati, per così dire, ad altezza d'uomo, non c'è traccia. Perché quello che interessa ai cineamatori, nella maggior parte dei casi, è la propria, personale vicenda, o al massimo la trasformazione del territorio familiare, quello che si conosce come le proprie tasche: ed è lì che - quasi inaspettata intrusione - arriva la trasformazione dei lavori della Cassa per il Mezzogiorno. Oppure, quel soffermarsi sui grandi alberghi che vengono costruiti nelle località sciistiche montane, segno, per loro, che l'Abruzzo stava definitivamente cambiando e che noi oggi percepiamo come l'inizio di un inaccetabile consumo del territorio.
E allora, ecco ancora una volta quel gioco tra racconto pubblico, sguardi privati e memoria storica che rende questo viaggio così affascinante.

Viaggio in Abruzzo

Inizia stasera il ciclo dedicato all'Abruzzo della serie Viaggio in Italia, realizzato da Rai Storia. Andrà in onda da lunedì 14 a martedì 22 maggio, alle otto di sera: lo potrete vedere sul canale 805 della piattaforma Sky, sul canale 23 di Tivusat e sul 54 del digitale terrestre.

Si tratta di un lungo percorso attraverso la storia, le tradizioni e i personaggi delle regioni italiane, realizzato grazie all'immenso patrimonio dell'archivio Rai: non c'è una voce narrante, ma solo un percorso ragionato attraverso ciò che la più importante e capillare industria culturale italiana ha prodotto sulle regioni, realizzato giustapponendo servizi di approfondimento giornalistico, inchieste, speciali e quant'altro.  E così, questo viaggio diventa anche un itinerario nella nostra memoria televisiva. E nel modo in cui la televisione raccontava il paese e i suoi mille campanili. Un racconto pubblico, dunque.
A cui stavolta si è aggiunto un racconto privato, che ho avuto il piacere di contribuire a realizzare insieme ad Annacarla Valeriano, che come me fa parte dell'Archivio audiovisivo della memoria abruzzese, diretto e coordinato da Guido Crainz.
L'Archivio è una struttura dell'università di Teramo. Dal 2004 raccoglie i film di famiglia in diversi formati, dal Pathé Baby al 16 millimetri, dall'8 millimetri al super8. Li riversa in formato digitale, li studia e li utilizza per realizzare dei documentari o dei video-saggi. Se volete saperne di più, andate qui e qui.
Anche Rai Storia ha spesso utilizzato quel patrimonio di film di famiglia che la tv pubblica aveva accumulato nel corso degli anni, almeno a partire da una lontana trasmissione condotta da Francesco Guccini: la rete, poi, aveva realizzato una serie di brevi filler intitolati "come eravamo", che ricostruivano piccole vicende familiari intersecandole con il "racconto" pubblico degli eventi e dei dati significativi delle trasformazioni sociali ed economiche del paese.
Insomma, l'incontro era - si può dire - nelle cose.
E così, quando si è trattato di realizzare un "viaggio in Abruzzo", la Rai ha chiesto la collaborazione dell'Archivio.
Abbiamo ragionato insieme sui materiali più utili per raccontare la regione, o almeno alcuni suoi aspetti, cercando di trovare il punto di intersezione tra storia pubblica e storie private.
Che sarà quello che vedrete, a partire da lunedì sera.
Poi, se ne avrete voglia, passate da queste parti: cercherò di farvi trovare un breve commento, giorno per giorno, a ciò che è andato in onda la sera prima.

le parole, le figure e le recensioni

Ogni tanto appare una nuova recensione a "Le parole e le figure".
Questa l'ha scritta Paolo Di Vincenzo, a lungo giornalista de "Il Centro" per cui si è occupato delle pagine culturali. Oggi cura un sito che si chiama ArteAbruzzo e scrive thriller storici (andate a vedere qui se siete curiosi), oltre a tenere un laboratorio di giornalismo culturale all'università di Teramo.

Inizia così:
Conoscere La storia è fondamentale per capire il presente e per immaginare il futuro. Benvenuti, dunque, sono tutti quei testi che permettono di approfondire il passato anche in un campo, quello dei mass media, che sembra tutto modernissimo. Utilissimo per tutti, studiosi, studenti, semplici fruitori (come alla fine lo sono tutti) dei mass media di oggi il saggio di Andrea Sangiovanni "Le parole e le figure" (Donzelli, 344 pagine, 22 euro) il cui sottotitolo è maggiormente esplicativo: "Storia dei media in Italia dall’età liberale alla seconda guerra mondiale".

Se volete leggerla tutta, fate un salto qui.

ancora una volta, a salutar l'albero del maggio

Come già nel 2010 e nel 2011, ecco un altro post sul Primo Maggio.
Stavolta il titolo che ho scelto rimanda ad una antica tradizione, che mostra la contiguità tra le feste popolari per l'arrivo della primavera e la festa del lavoro e dei lavoratori: proprio in questi giorni è uscito un libro di Gianluca Vagnarelli (L'albero del primo maggio. Memoria e simbolismo politico di un rito laico) che ne racconta la storia nel Piceno dove l'albero del maggio

è anzitutto espressione del movimento contadino che si va lentamente organizzando e per il quale questo simbolo assume il duplice significato di occasione di festa e di sfida nei confronti dell’autorità politica e padronale. [Ma] è anche espressione di quella tradizione laica che aveva la sua origine nei culti rivoluzionati inaugurati in Francia a partire dal 1789 che incontrarono, sin dalla loro nascita, una strenua opposizione da parte della chiesa cattolica. 
(le parole sono tratte dall'introduzione) 
Se voleste sapere qualcosina di più sulle origini e sulla storia del Primo Maggio, potreste ascoltare oggi Wikiradio, il bel programma di Radio Tre che va in onda dalle 14 alle 14.30. Mi hanno chiesto una puntata su questo tema e ho cercato di raccontarlo nello spirito della trasmissione, una sorta di snella enciclopedia radiofonica che consenta agli ascoltatori di farsi un'idea su un argomento, suggerendogli, allo stesso tempo, qualche chiave interpretativa.
Naturalmente molte cose non ci sono entrate: e così, per esempio, non ho potuto parlare del primo maggio 1947
A parte l'inizio e la fine, sono immagini tratte dal film di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano (1962), che raccontano con rigore e in uno splendido bianco e nero lo svolgersi degli eventi. 
Sulla loro interpretazione, invece, ci sono pareri discordanti. E seguirli avrebbe significato raccontare un'altra storia, lontana da quella del Primo Maggio.
Quello che mi premeva raccontare, invece, 
era l'incontro fra i due momenti che caratterizzano il primo maggio, la festa e la lotta: una doppia faccia che descrive bene la complessità e la ricchezza del lavoro.
Una ricchezza e una complessità che oggi bisognerebbe cercare di recuperare, a partire dalle domande sul senso identitario che il lavoro crea, o contribuisce a creare.

aggiornamento del 2 maggio
Se ve lo siete perso e volete sentirlo in podcast, fate clik qui 

una carriola di disegni: una cronaca oggettiva/soggettiva

Questo post non l'ho scritto io.
Però mi ha fatto piacere riceverlo e lo pubblico.

Di che si tratta: mercoledì scorso, 18 aprile, c'è stata all'università una tavola rotonda a conclusione dell'esposizione della mostra Una carriola di disegni. Hanno partecipato urban sketchers e fotografi, e abbiamo cercato di far emergere quella tensione sotterranea che passa tra due differenti forme di rappresentazione della città de L'Aquila, i disegni e le fotografie.
Disegno di Carlo Castellani dal blog una carriola di disegni
Devo ammettere che non c'erano moltissimi studenti (ma quelli che erano lì li ringrazio tutti, uno per uno). Non ne sono molto stupito: un po' ci ho fatto l'abitudine, anche se la scarsa partecipazione ad incontri che vorrebbero suscitare momenti di riflessione fuori dal quotidiano percorso di lezioni mi lascia sempre un retrogusto amaro di disillusione.

Invece mi ha stupito quello che sto per riportare qui sotto.
Sono le parole di una studentessa che ha partecipato all'incontro (e che nei giorni precedenti lo aveva promosso intensamente su facebook). Me le ha mandate in forma di articolo: una sorta di cronaca oggettiva che però non riesce a dissimulare le forti emozioni che la tavola rotonda le ha procurato.

Dopo averle chiesto il permesso, lo pubblico qui. Perché questo spazio è nato proprio per creare uno scambio tra i membri di quella che dovrebbe essere una comunità di studiosi con un diverso grado di formazione.
E perché queste parole sono per me come una sorsata d'acqua fresca che sciacqua via quel sapore un po' amaro.

Una carriola, così.


L’Aquila è come mia nonna malata, con mille cicatrici, intubata: pronta a resistere e lottare per quella vita non ancora perduta.
E’ stata questa una delle immagini più forti e indicative emerse mercoledì 18, in un incontro svolto dalle 10.30 in poi, nella sala conferenze della Facoltà di Scienze della Comunicazione, presso l’Università degli Studi di Teramo. Un appuntamento che il professor Andrea Sangiovanni organizza da tre anni, nei giorni vicini al 6 aprile, per ricordare le 309 vittime delle 3.32.
Una carriola di disegni. Titolo pragmatico: libero come l’atto creativo di un disegnatore seduto sulle macerie, che lascia andare il proprio tratto, per ridar forma a una città che ha ancora necessità di respirare.
L’iniziativa instaura le sue basi nei giorni precedenti, in un piccolo e modesto allestimento che attraversa i corridoi della facoltà, prende per mano gli studenti, li accompagna in un ragionamento sull’uso del disegno, in un dialogo aperto con la fotografia, e affronta, in modo concreto, il suo viaggio, in quel cortocircuito di idee avuto nella tavola rotonda di mercoledì.
E’ stata una rete condivisa, quella vissuta, aperta a un proficuo scambio tra gli urban sketcher Marco Preziosi e Carlo Castellani; i fotografi Daniele Cinciripini e Roberto Grillo; quest’ultimo, poi, aquilano.
Raffaella Morselli, Gabriele D’Autilia, Andrea Sangiovanni - relativi storici dell’arte di fotografia e medium contemporanei -, invece, hanno alimentato il dibattito in una comparazione tra abilità antiche e tecnologicamente riprodotte.
La forza dirompente dei messaggi e il valore dei contenuti espressi non hanno ceduto a una provocazione volutamente politica, giusta ma vecchia, retorica, fuori dalla nuova fase storica che stiamo vivendo, non più necessaria, soprattutto allo spessore intellettuale raggiunto fino a quel momento, in quella sede, parlando di ricostruzione.
Movimento, memoria, tragedia, etica, estetica, dolore, tempo e spazio: senso. Hic et nunc, tempo puro, rovina, nonluogo, hic jacet, riscoperta. Walter Benjamin, Marc Augé, Robert Pogue Harrison, Marcel Duchamp. Filosofia, antropologia, etnografia, letteratura, storia, arte. Una scala ridotta di strumenti acquisiti frequentando un corso in comunicazione. Sostanze base, lanciate quel giorno, essenziali come ingredienti per una formula chimica che si sta miscelando, e che presto, ci auguriamo, diventi composto forte e robusto, indispensabile per L’Aquila.
Eravamo lì, seduti, per capire di più.
Ora siamo in attesa di appendere quel quadro, fotografico o pittorico, vicino a una finestra aperta, per scorgere l’orizzonte, con quella voglia insistente di osservare una città, abitata.
Amalia Temperini

 

un foglio di carta, una matita, eventualmente una vaschetta di colori...



Un foglio bianco, una matita, eventualmente una vaschetta di colori ad acquarello. E con questi pochi, semplici oggetti, raccontare una città. Com'era, e come forse sarà.

Le infinite possibilità che sono nascoste in questi pochi, semplici strumenti mi hanno molto colpito quando mi sono imbattuto per caso in Una carriola di disegni.
Si tratta di una mostra nata da una iniziativa di urban sketcher (chi sono e cosa fanno? lo vedi qui) che hanno deciso di raccontare L'Aquila con matita e taccuino. Una mostra che quest'anno, grazie al prezioso aiuto del coordinatore Marco Preziosi, abbiamo esposto in facoltà.

Mercoledì 18 aprile ne discuteremo insieme, in un incontro che si terrà nella Sala delle conferenze di Scienze della comunicazione a partire dalle 10,30.
Ci saranno sketchers (lo stesso Marco Preziosi e Carlo Castellani) ma anche fotografi (Daniele Cinciripini e Roberto Grillo) perchè l'obiettivo dell'incontro è anche mettere a confronto due modi apparentemente antitetici di rappresentare e raccontare la realtà. Ad un primo sguardo, infatti, il disegno appare la forma più soggettiva di rappresentazione del reale mentre la fotografia ha ancora la fama di essere la più oggettiva delle forme di raffigurazione del mondo.

Ne parleremo, e parleremo di come disegni e fotografie sono, alla fine, anche un modo di ricostruire una città ancora ben lontana dall'essere ricostruita. Vi aspetto.

Le parole e le figure: due recensioni

A me piace leggere le recensioni.
Mi fanno pensare.
Mi permettono di rimanere aggiornato.
Mi inducono a scegliere.
Qualche volta, semplicemente, sono ben scritte e le leggo per il puro piacere di leggere quel tipo di scrittura.

Quando poi leggo le recensioni ad un mio lavoro, il piacere si accresce di quella tensione sottile che dà l'essere valutati.
E poi c'è sempre da imparare, perché le critiche - che siano velate o palesi - inducono alla riflessione, a ripensare il tuo punto di vista. E non di rado a migliorare.

Ecco perché mi va di condividere con voi la recensione a Le parole e le figure che Luca Malavasi ha scritto su Pulp Libri (qui trovate il link alla pagina facebook).
Poi ci sono altre recensioni che ti fanno semplicemente capire che un libro non è più una cosa tua ma di chi la legge. E che magari dentro ci sono cose che non pensavi proprio di averci messo.
Credevo che questa regola valesse solo per i romanzi.
Evidentemente vale anche per i saggi. Me lo ha dimostrato Diego Gabutti, che ha pubblicato su Italia Oggi questa analisi del mio lavoro (naturalmente è la seconda).

tornando a Draquila

Il 5 maggio 2010, a tredici mesi esatti dal sisma, in Piazza Duomo a L'Aquila veniva mostrato in anteprima il film che Sabina Guzzanti aveva girato nei mesi precedenti. Così ci ricorda wikipedia.

Stesera Enrico Mentana propone un "film evento" su La7, trasmettendo il film che nel 2010 il ministro della cultura Bondi aveva bollato come "propaganda", rifiutando di assistere alla proiezione durante il festival di Cannes. E garantendogli così un altro po' di pubblicità gratuita: quella che, con un'espressione difficile che un ministro della Cultura dovrebbe apprezzare, si potrebbe chiamare eterogenesi dei fini.
Il film l'ho visto una sera a Roma, in una sala quasi vuota. E per una volta ho apprezzato un'abitudine che in genere detesto: il vizio di commentare ad alta voce il film durante la sua proiezione. Nelle parole delle poche persone con cui dividevo la visione sentivo lo stupore e la crescente indignazione per quello che vedevano. E che era molto, molto diverso da quello che gli aveva fino a quel momento raccontato la televisione (ma non tutta la televisione, bisogna riconoscere). Erano cose che, per una serie fortuita di casi (e magari anche perché ho il vizio di approfondire, o almeno provarci), già conoscevo: e che mi avevano fatto già fremere di indignazione. Cose che, quando le raccontavo, venivano accolte da espressioni stupite e incredule.

Questo è il grande merito del film, che ha anche alcuni - e forse non pochi - difetti. Pregi e difetti che, se non lo avete ancora visto, potrete giudicare da soli.

Mi è capitato poi di scriverne per Meridiana in un articolo che s'intitolava Macerie d'Italia.
Magari vi va di leggerne qualche passaggio:

(...) Va detto subito: Draquila è un documentario a tesi, e forse questo è l’aspetto più caduco del film, più ancora dell’essere un istant movie, girato e montato a ridosso degli eventi e quindi inevitabilmente condizionato dalle notizie di cronaca che venivano pubblicate nel periodo in cui era in realizzazione. La tesi è semplice: il terremoto dell’Aquila e la gestione dei mesi immediatamente successivi hanno costituito la prova generale per un’attività di governo che, in nome dell’emergenza e della sicurezza, ha sospeso i diritti arrivando, in pratica, ad esercitare una forma di autoritarismo “morbido”. 
(...)
Sono tesi che espresse in questa forma possono apparire forse eccessivamente semplificatrici ma sulle quali negli anni recenti e sotto la spinta dell’“emergenza” terrorismo si è molto riflettuto in ambito politologico e storico. Del resto – come dimostrano i saggi contenuti in un libro curato da Francesco Benigno e da Luca Scuccimarra, dedicato alcuni anni fa proprio a Il governo dell’emergenza (Viella, 2007) – la logica dell’emergenza è stata chiamata in causa nelle situazioni storiche più diverse per legittimare una radicale trasformazione delle pratiche di governo che ha comportato spesso la sospensione dei diritti civili. Nell’attuale situazione italiana poi, è stato notato, la politica dell’emergenza assume una dimensione del tutto peculiare perché si unisce alla politica-spettacolo, ad una “politica-pop” che «si inscena meglio su rovine fumanti e montagne di spazzatura, tra frane, lacrime e sangue. In questi set si esalta la virtù salvifica del governante che incoraggia, protegge, tranquillizza e lenisce perfino il dolore. Chi governa diventa lo zio buono che ti dà una mano. Così nell’emergenza viene incrociato il paternalismo di tendenza populista e il potere tecnocratico, il carisma massmediatico con il decisionismo» (Carlo Donolo, Il cratere della politica, “Lo straniero”, n. 118, aprile 2010) fino a scavalcare la logica della rappresentanza. Di più: lungo questi percorsi L’Aquila finisce per diventare suo malgrado l’icona di una “politica-pop” che trova la sua massima espressione nel trasferimento del G8 dalla Maddalena – dove era inizialmente previsto – al capoluogo abruzzese, una forma della politica tutta giocata sulla rappresentazione e sul presente, su un “qui ed ora” che assorbe anche la ricostruzione con l’idea delle “new town” che inizia a circolare nei giorni immediatamente successivi al sisma e che, come ben testimonia il film, era già stata applicata in occasione di altre catastrofi naturali. Tutta giocata sul presente, una tale azione politica ignora senza remore il passato: colpisce così sentire l’ex-direttore del servizio sismico nazionale, Roberto De Marco, che nel film ricorda come il terremoto sia stato preceduto da uno sciame sismico di ben quattro mesi, in modo simile a quanto era avvenuto in occasione degli altri terremoti da cui L’Aquila era stata colpita nel corso della sua storia. Concentrata solo su un eterno presente la politica - ma anche la cultura com’è stato notato - finiscono per smarrire anche la capacità di pensare al futuro: le attuali difficoltà legate alla ricostruzione – una ricostruzione che, al di là delle C.A.S.E., non sembra ancora essere iniziata – sono forse figlie anche di questa incapacità di progettazione, oltre che di evidenti difficoltà economiche legate al ciclo attuale.
(...) 
 alla fine, muovendosi in un difficile equilibrio fra grottesco e patetico, fra satira ed informazione, Draquila riesce a dare molte notizie su aspetti meno noti dei processi avviati dal terremoto aquilano e, allo stesso tempo, a tracciare un ritratto impietoso dello stato attuale del nostro paese. Viene da sorridere quando, in una sequenza del film, una signora, grata per i soccorsi ricevuti, identifica lo Stato con il premier: vorrebbe abbracciarlo perché, dice convinta, «lo Stato è Berlusconi», salvo poi aggiungere, di fronte all’espressione perplessa della sua interlocutrice, «o no?». Viene da sorridere, appunto, ma è un sorriso amaro che nasconde l’imbarazzo per il livello di incultura politica diffusa in un paese dove il 23,3% della popolazione non si informa mai di politica e il 60,7% se ne occupa solo una volta alla settimana, secondo quanto sostiene il rapporto Istat del 2009 sulla partecipazione politica. In un simile quadro, certo, il film può risultare fazioso e, come già detto, forse l’aspetto meno convincente è proprio quello legato alla recente cronaca politico-scandalistica; e tuttavia questa faziosità ha il pregio di essere dichiarata, un po’ come nei documentari di Michel Moore al quale, non a caso, molta stampa si è richiamata per descrivere il film di Sabina Guzzanti: ma, contrariamente al regista americano, l’autrice italiana è abile nel defilarsi dalla scena quando mostra la realtà aquilana, per poi riaffacciarvisi quando racconta lo spettacolo della nostra politica-pop, innescando in questo modo un corto circuito che stimola più di una riflessione sui nostri anni recenti.

(qui, sul sito della Viella, la casa editrice, se volete, potete acquistare l'intero articolo in .pdf)


 
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