Non fa Male



E' stato quasi un riflesso pavloviano. Li ho letti e mi è venuto in mente lui.
Poi, pensando a un titolo per questo post, mi è venuta in mente un'altra battuta famosissima, molto più pop di quella di Moretti. Se non l'avete riconosciuta, è questa:



Quello che unisce queste due citazioni è solo la parola male. Perché, se non lo sapete, il Male è tornato in edicola: e c'è tornato due volte. Con una storia che lascia un gusto acido, come le vignette del Male, quello originale.
E allora cominciamo dall'inizio.
Nel 1978 iniziava ad uscire una rivista di satira, una di quelle che lasciano il segno, Il Male, appunto. E' durata poco, ed ha avuto una vita travagliata. Ed ha lasciato molti rimpianti.
Qualche tempo fa, due degli autori di allora - Vincino e Vauro - hanno deciso di riportarla in vita. Ma colui che ne era stato a lungo il direttore - Vincenzo Sparagna - ha deciso che non era cosa fare la rivista senza di lui: e così ne ha fatta un'altra tutta sua, uscendo qualche giorno prima di quella della W.
Un bel casino: se seguite il link trovate un riassunto, non del tutto imparziale.
E, se vi va di andarvi a leggere i due mali, troverete abbondanza di riferimenti alla vicenda. Qualche esempio?
Il Nuovo Male di Sparagna:
...le amarezza più grandi, sono vedere amici e compagni in cui si aveva fiducia passare armi e bagagli dalla parte dei potenti e dei prepotenti per denaro o per vanità. (...) Questo nostro nuovo Male è anche una risposta ad alcuni di costoro, che, dall'alto di una vita ben nutrita dai padroni del vapore, hanno deciso di scimmiottare la loro lontana giovinezza facendosi finanziare (a quanto mi dicono) una "moderna" versione de Il Male che a me sembra solo la furbata commerciale di ex ribelli con ville e rendite... (p. 11)
L'unico Male di Vauro e Vincino, una vignetta di quest'ultimo:
...mentre noi al Male puzzavamo di fame lui faceva i milioni con Frigidaire. Questa è la verità storica echecazz...
Il lui che faceva i milioni è Sparagna, direttore di Frigidaire, una splendida rivista in cui lavorava gente come Pazienza, Tamburini, Liberatore ecc., che poi sarebbero passati anche al Male.
Insomma, una vicenda non proprio edificante che ha dato un duro colpo a tutta l'operazione. Ma il problema, in realtà, non è questo.
Il problema è che questi due Mali non fanno male.
Non nel senso che non eguagliano l'originale, ma nel senso che non graffiano, non sono urticanti, non riescono proprio - direi - a fare satira. A mio modo di vedere quello di Sparagna ancora meno di quello di W che ha alcuni buoni passaggi (Makkox su tutti: non lo conoscete? accidenti a voi! filate qui, e poi tornate).
Qual è il problema, allora?
Beh, alla fine proprio il confronto con l'originale.
D'accordo, è una questione di marketing editoriale: usare quel mitico nome serve a trovare un primo nucleo di lettori che permettano di contenere le perdite iniziali per arrivare ad un punto di pareggio (o a perdite accettabili) e intanto migliorare la rivista e conquistare nuove fette di pubblico. Però la scelta porta con sé, inevitabilmente, un confronto con l'originale. E la delusione. Perché?
Io credo che l'asticella del ridicolo, o dell'osceno, sia stata portata così in basso in questi ultimi anni che diventa difficile scuotere l'opinione pubblica.
Se compito della satira è dire a tutti che il re è nudo, qui siamo in una situazione in cui il re si vanta di essere nudo, e mostra in giro i propri attributi gloriandosene.

Questo

faceva Male.

Questo

fa sorridere.
Ma, purtroppo, non fa più male.

hungry, fool, different, simple

Tutto il mondo ha detto addio a Steve Jobs, chi lo amava e chi lo detestava.

Cosa dire più di quello che è già stato detto e scritto? Cosa dire di diverso?
Niente, credo.
Non per ora.
Ora, del resto, ogni cosa che si potrebbe dire entrerebbe in un circuito di ridondanza che la rendebbe del tutto inutile, puro rumore di fondo.
Allora, come sempre in questi momenti, occorre ripartire da sé. Da quello che l'industria culturale ti ha lasciato dentro, come spettatore, come fruitore, come pubblico, anche se attivo.
Perché anche di questo si parla, quando si parla di quello che ha fatto Steve Jobs.
Perché dietro le sue macchine c'era questo



e questo



Qualcuno ha detto che la Apple è stata prima di tutto una grande azienda di marketing. E forse in parte è vero.
Ma ciò non basterebbe a spiegarne il successo.
C'è la tecnica, certo. E c'è il design, ovvio. E c'era, all'inizio, anche il piacere di sentirsi diversi.
Ma soprattutto c'era, e c'è, l'applicazione pratica di una delle intuizioni di McLuhan (ancora lui, sempre lui): che i media sono estensioni dei nostri sensi.
Anche prima dell'I-Pad i libri si potevano leggere su uno schermo. Ma era un gesto artificioso. Poi arriva l'I-Pad e si sfogliano, così come si fa con i libri di carta.
E se risaliamo all'indietro, ho l'impressione che troveremo sempre lo stesso primato: anche prima quelle cose si potevano fare, ma non si facevano in modo naturale.
La via è quella della semplicità: una ricercata semplicità, come quei maglioncini neri che, ho letto ieri, costavano uno sproposito.
Ecco, a me quello che è sempre piaciuto della mela è la semplicità. Per esempio, quando presi questo
quello che mi piaceva era che non sembrava nemmeno vero per quanto era semplice e divertente (sì, divertente: sembrava di avere in mano un computer uscito da Paperopoli).
E come questa semplicità avesse l'incredibile, inquietante capacità di cambiare in modo sottile ma definitivo il tuo modo di pensare e di agire quando eri in quella dimensione: e come quella dimensione sembrasse il futuro. Mi ha sempre colpito, per esempio, quanto la gestualità di chi lavora su un I-phone o un I-pad ricordi quella del John Anderton di Minority Report: quella sequenza di gesti per scorrere le immagini mi sembrarono allora il futuro, una delle possibili strade del futuro; e oggi le vedo anche nella pubblicità.
E, allora, sarà forse in questa capacità di costruire un immaginario collettivo, a partire dalla fantasia di pochi, che risiede il segreto del lavoro di Steve Jobs.
Ma, appunto, ci sarà tempo per pensarci.

Ah, ovviamente il titolo si riferisce ad uno dei discorsi più famosi (e belli, ed emozionanti) di Jobs. Se non lo conoscete (ma non è possibile: quindi anche se volete solo riascoltarlo), ve lo metto qui:

E poi, magari, un giorno parleremo della forza dello storytelling, di cui questo discorso è una prova lampante.

E di quello che non mi è mai piaciuto della mela, il suo voler essere un mondo a sé, un mondo chiuso: forse, dal punto di vista del marketing, questa è (è stata?) la sua forza. Ancora oggi continua a non piacerme e, in più, mi sembra una debolezza in un universo collaborativo, oltre che un tratto di arroganza che forse, a quanto si legge, rispecchiava un aspetto del carattere di Jobs. Forse, ora che non c'è più, questa cosa cambierà: se lo facesse, non credo che sarebbe un tradimento della sua eredità.

lezione di cucito

Odoardo Borrani, 26 aprile 1859
Lo ha scritto Gustavo Zagrebelsky. Io lo condivido, insieme a molta altra gente.

L’anno anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia rischia di concludersi così. Così, come? Con una frattura profonda.
Sempre più e rapidamente, una parte crescente del popolo italiano si allontana da coloro che, in questo momento, sono chiamati a rappresentarlo e governarlo.
I segni del distacco sono inequivocabili, per ora e per fortuna tutti entro i limiti della legalità: elezioni amministrative che premiano candidati subìti dai giri consolidati della politica; referendum vinti, stravinti e da vincere nell’ostilità, nell’indifferenza o nell’ambiguità dei maggiori partiti; movimenti, associazioni, mobilitazioni spontanee espressione di passioni politiche e di esigenze di rinnovamento che chiedono rappresentanza contro l’immobilismo della politica.
Il dilemma è se alla frattura debbano subentrare la frustrazione, l’indifferenza, lo sterile dileggio, o l’insofferenza e la reazione violenta, com’è facile che avvenga in assenza di sbocchi; oppure, com’è più difficile ma necessario, se il bisogno di partecipazione e rappresentanza politica riesca a farsi largo nelle strutture sclerotizzate della politica del nostro Paese, bloccato da poteri autoreferenziali la cui ragion d’essere è il potere per il potere, spesso conquistato, mantenuto e accresciuto al limite o oltre il limite della legalità.
Si dice: il Governo ha pur tuttavia la fiducia del Parlamento e questo, intanto, basta ad assicurare la legalità democratica. Ma oggi avvertiamo che c’è una fiducia più profonda che deve essere ripristinata, la fiducia dei cittadini in un Parlamento in cui possano riconoscersi. Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori della presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso le altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo, mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? Chi ci governa e chi lo sostiene, così sostenendo anche se stesso, vive ormai in un mondo lontano, anzi in un mondo alla rovescia rispetto a quello che dovrebbe rappresentare.
Noi proviamo scandalo per ciò che traspare dalle stanze del governo. Ma non è questo, forse, il peggio. Ci pare anche più gravemente offensivo del comune sentimento del pudore politico un Parlamento che, in maggioranza, continua a sostenerlo, al di là d’ogni dignità personale dei suoi membri che, per “non mollare” – come dicono –, sono disposti ad accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e, con il voto, a trasformare il vero in falso e il falso in vero, e così non esitano a compromettere nel discredito, oltre a se stessi, anche le istituzioni parlamentari e, con esse, la stessa democrazia.
Sono, queste, parole che non avremmo voluto né pensare né dire. Ma non dobbiamo tacerle, consapevoli della gravità di ciò che diciamo. Il nodo da sciogliere per ricomporre la frattura tra il Paese e le sue istituzioni politiche non riguarda solo il Governo e il Presidente del Consiglio, ma anche il Parlamento, che deve essere ciò per cui esiste, il luogo prezioso e insostituibile della rappresentanza.
Dov’è la prudenza? In chi assiste passivamente, aspettando chissà quale deus ex machina e assistendo al degrado come se fossimo nella normalità democratica, oppure in chi, a tutti i livelli, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’adempimento delle proprie responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori i partiti, opera nell’unico modo che la democrazia prevede per sciogliere il nodo che la stringe: ridare al più presto la parola ai cittadini, affinché si esprimano in una leale competizione politica. Non per realizzare rivincite, ma per guardare più lontano, cioè a un Parlamento della Nazione, capace di discutere e dividersi ma anche di concordare e unirsi al di sopra d’interessi di persone, fazioni, giri di potere. Dunque, prima di tutto, ci si dia un onesto sistema elettorale, diverso da quello attuale, fatto apposta per ingannare gli elettori, facendoli credere sovrani, mentre sono sudditi.
Le celebrazioni dei 150 anni di unità hanno visto una straordinaria partecipazione popolare, che certamente ha assunto il significato dell’orgogliosa rivendicazione d’appartenenza a una società che vuole preservare la sua unità e la sua democrazia, secondo la Costituzione. Interrogandoci sui due cardini della vita costituzionale, la libertà e l’uguaglianza, nella nostra scuola di Poppi in Casentino, nel luogo dantesco da cui si è levata 700 anni fa la maledizione contro le corti e i cortigiani che tenevano l’Italia in scacco, nel servaggio, nella viltà e nell’opportunismo, Libertà e Giustizia è stata condotta dalla pesantezza delle cose che avvolgono e paralizzano oggi il nostro Paese a proporsi per il prossimo avvenire una nuova mobilitazione delle proprie forze insieme a quelle di tutti coloro – singole persone, associazioni, movimenti, sindacati, esponenti di partiti – che avvertono la necessità di ri-nobilitare la politica e ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e in coloro che le impersonano. Che vogliono cambiare pagina per ricucire il nostro Paese.

avviso agli studenti - ricevimento 2011/12

Ricominciamo con i post di servizio.
Il corso di quest'anno è previsto per il secondo semestre: come faccio in genere metterò anche qui il programma appena verrà pubblicato sul sito di Ateneo.
Per ora vi avviso che da ottobre, in coincidenza con l'inizio delle lezioni, sono a disposizione degli studenti nel mio studio

tutti i mercoledì, 
dalle 10.00 alle 12.00

Come sempre, comunque, per qualsiasi problema o necessità mi potete contattare via e-mail.

Prima lezione sulla televisione (letture)

Aldo Grasso lo conoscete tutti, almeno di nome. E', probabilmente, il critico televisivo più famoso del momento, che ci suggerisce con la sua rubrica quotidiana sul "Corriere della Sera" una lettura giornaliera della televisione: compito quanto mai arduo, vista la natura mutevole e istantanea della tv. E' anche uno storico della televisione, anche se di un tipo un po' particolare perché nei suoi lavori sembra preferire la discontinuità dell'acuto spettatore alla linearità espositiva di chi ricostruisce il passato per mestiere: ma del resto fare storia dei mass media è un lavoro liminale, che costringe a confrontarsi con discipline scientifiche diverse e con l'inevitabile, ingombrante ma labile memoria emotiva dello spettatore.
A lui si è rivolta la casa editrice Laterza per scrivere un volumetto della collana "prima lezione" dedicato alla tv. Si tratta di piccoli, agili libri divulgativi che simulano la "prima lezione" di un corso universitario: si tratta quindi di agili sintesi che descrivono i nodi principali della "materia".
In questo caso ci si trova subito di fronte ad un problema: che cosa potrebbe significare, infatti, fare un corso sulla televisione?
Raccontarne la storia? Certo, evidentemente. Ma non solo.
Analizzarne i linguaggi? Sicuro. E allo stesso tempo descriverne i format, e ragionare sulla scrittura televisiva.
Ma anche, inevitabilmente, sullo stretto rapporto fra televisione e società, una relazione che in Italia si fa strettissima, quasi soffocante.
E infine può anche significare trasformarsi da storico in futurologo cercando di immaginare gli scenari prossimi venturi della convergenza realizzata.

Ecco, questo agile volume che non arriva a 140 pagine di piccolo formato - escludendo gli apparati - e che si legge in un paio d'ore, è tutto questo. Che è allo stesso tempo tanto, perché attraversa discipline e approcci completamente diversi, e poco, perché di tutto non c'è che un accenno. Com'è giusto che sia, del resto, in una "prima lezione": saranno le altre ad approfondire i diversi temi.
Però, secondo me, è anche un piccolo saggio di che cosa deve voler dire studiare la televisione: in particolare di quanto questa analisi debba muoversi sul confine tra "alto" e "basso", tra cultura e ciarpame, tra strategie narrative e rumore di fondo. E Grasso lo fa in modo acuto e divertente quando, cercando di spiegare quello strano, difficile mestiere che è il critico televisivo, dopo aver fatto riferimento a Walter Benjamin e aver fatto parlare Achille Campanile (qui, ma per vederlo in tv vai qui), lascia il campo a Anton Ego.
Monsieur Ego al tavolo da lavoro
Come? per quale giornale scrive?
Non ricordo, ma so che è il più temuto critico gastronomico francese e che l'ultima volta l'avevo visto alle prese con una Ratatouille cucinata da un topo.
Un bel modo per scompaginare le regole e ridisegnare i confini, no?

Del resto, il libro è introdotto dall'affermazione che
non credere più ciecamente nella televisione è stata una lunga, lenta conquista.
Un modo ben curioso per introdurre un libro che dovrebbe spiegarci che cos'è la tv e perché, e come, va studiata. E però un passaggio di un racconto di David Sedaris, anch'esso nelle prime righe dell'introduzione, ci illumina su questa apparente contraddizione. Si parla di un tale signor Tomkey che era famoso fra i suoi vicini perché non credeva alla televisione:
il libro di Sedaris di cui sto parlando
dire che non credevi nella televisione era diverso dal dire che non ti interessava. Il verbo "credere" suggeriva che la televisione avesse un qualche piano, e che tu fossi contrario. Suggeriva inoltre che forse pensavi un po' troppo. Quando mia madre ci comunicò che il signor Tomkey non credeva nella televisione, mio padre disse: "Be', buon per lui. Per quel che ne so, nemmeno io". "La penso esattamente come te" disse mia madre, dopodiché entrambi si misero a guardare il telegiornale, e tutti i programmi che seguirono il telegiornale.


Ecco, la televisione va studiata perché non ci crediamo, ma non possiamo fare a meno di guardare tutti i programmi che vengono dopo il telegiornale.
 
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