hungry, fool, different, simple

Tutto il mondo ha detto addio a Steve Jobs, chi lo amava e chi lo detestava.

Cosa dire più di quello che è già stato detto e scritto? Cosa dire di diverso?
Niente, credo.
Non per ora.
Ora, del resto, ogni cosa che si potrebbe dire entrerebbe in un circuito di ridondanza che la rendebbe del tutto inutile, puro rumore di fondo.
Allora, come sempre in questi momenti, occorre ripartire da sé. Da quello che l'industria culturale ti ha lasciato dentro, come spettatore, come fruitore, come pubblico, anche se attivo.
Perché anche di questo si parla, quando si parla di quello che ha fatto Steve Jobs.
Perché dietro le sue macchine c'era questo



e questo



Qualcuno ha detto che la Apple è stata prima di tutto una grande azienda di marketing. E forse in parte è vero.
Ma ciò non basterebbe a spiegarne il successo.
C'è la tecnica, certo. E c'è il design, ovvio. E c'era, all'inizio, anche il piacere di sentirsi diversi.
Ma soprattutto c'era, e c'è, l'applicazione pratica di una delle intuizioni di McLuhan (ancora lui, sempre lui): che i media sono estensioni dei nostri sensi.
Anche prima dell'I-Pad i libri si potevano leggere su uno schermo. Ma era un gesto artificioso. Poi arriva l'I-Pad e si sfogliano, così come si fa con i libri di carta.
E se risaliamo all'indietro, ho l'impressione che troveremo sempre lo stesso primato: anche prima quelle cose si potevano fare, ma non si facevano in modo naturale.
La via è quella della semplicità: una ricercata semplicità, come quei maglioncini neri che, ho letto ieri, costavano uno sproposito.
Ecco, a me quello che è sempre piaciuto della mela è la semplicità. Per esempio, quando presi questo
quello che mi piaceva era che non sembrava nemmeno vero per quanto era semplice e divertente (sì, divertente: sembrava di avere in mano un computer uscito da Paperopoli).
E come questa semplicità avesse l'incredibile, inquietante capacità di cambiare in modo sottile ma definitivo il tuo modo di pensare e di agire quando eri in quella dimensione: e come quella dimensione sembrasse il futuro. Mi ha sempre colpito, per esempio, quanto la gestualità di chi lavora su un I-phone o un I-pad ricordi quella del John Anderton di Minority Report: quella sequenza di gesti per scorrere le immagini mi sembrarono allora il futuro, una delle possibili strade del futuro; e oggi le vedo anche nella pubblicità.
E, allora, sarà forse in questa capacità di costruire un immaginario collettivo, a partire dalla fantasia di pochi, che risiede il segreto del lavoro di Steve Jobs.
Ma, appunto, ci sarà tempo per pensarci.

Ah, ovviamente il titolo si riferisce ad uno dei discorsi più famosi (e belli, ed emozionanti) di Jobs. Se non lo conoscete (ma non è possibile: quindi anche se volete solo riascoltarlo), ve lo metto qui:

E poi, magari, un giorno parleremo della forza dello storytelling, di cui questo discorso è una prova lampante.

E di quello che non mi è mai piaciuto della mela, il suo voler essere un mondo a sé, un mondo chiuso: forse, dal punto di vista del marketing, questa è (è stata?) la sua forza. Ancora oggi continua a non piacerme e, in più, mi sembra una debolezza in un universo collaborativo, oltre che un tratto di arroganza che forse, a quanto si legge, rispecchiava un aspetto del carattere di Jobs. Forse, ora che non c'è più, questa cosa cambierà: se lo facesse, non credo che sarebbe un tradimento della sua eredità.

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Andrea Sangiovanni © Creative Commons 2010 | Plantilla Quo creada por Ciudad Blogger