numeri di fine anno

Siamo ancora sopra all'80% (l'82,9 per la precisione), una percentuale alta ma decisamente in calo rispetto a tre anni fa, quando ci attestavamo su un secco 87%.
Arriva la fine dell'anno e sto dando i numeri? Poco ci manca ma, no, non è così.
Questi numeri sono la percentuale degli italiani che si informa prevalentemente od esclusivamente attraverso la televisione, secondo le rilevazioni 2010 dell'osservatorio sul capitale sociale degli italiani (qui ci sono le tabelle). Numeri che iniziano a mostrare un primo barlume di cambiamento e con i quali ci si può forse iniziare a congedare dal 2010.
Aggiungiamo altri numeri, quelli dei rilevamenti "qualitel" della Rai.
Infatti è di pochi giorni fa la notizia che una ricerca promossa dalla Rai sulla "qualità percepita" dei propri programmi da parte del pubblico dà il principale telegiornale nazionale, il TG1, in preoccupante caduta. Se non è un crollo poco ci manca, visto che il TG1 passa da una qualità percepita vicina al "buono" (e pari ad un indice di 66) ad una qualità percepita ad un passo dall'"insufficiente" (pari ad un indice 59, quattro punti appena dal 55 che indica - appunto - l'insufficienza. E, per chi fosse curioso, qui ci sono maggiori dettagli).
Una novità? non proprio, visto che sia le ricerche Demos Coop che quelle dell'osservatorio informazione Fullresearch davano risultati simili. Per i primi, la credibilità del TG1 crollava di quasi sedici punti percentuali passando dal 69,0 del 2007 al 53,2 del 2010. Per i secondi, che osservano solo il 2010, il TG1 era il giornale preferito dal 14,3% degli italiani a luglio ma, in ottobre, lo era solo del 12,7. In entrambi i casi era superato dal TG5 (30,8% in ottobre, anch'esso lievemente in calo rispetto a luglio) e dal TG3 (che passava dal 18,2 al 17, 5) e raggiunto e superato dal TG de La7 (13,8 in ottobre).
Non c'è dubbio che il tg di Mentana sia stata la grande novità dell'anno, che ha spiazzato tutti con una ricetta assai semplice: con pochi mezzi (via via aumentati), "mitraglia" è semplicemente tornato sui suoi passi e, rinunciando all'allegerimento che aveva introdotto ai tempi del lancio del TG5, ha iniziato a raccontare la complessità dell'Italia in modo imparziale. Apparentemente almeno, perché non rinuncia ad una sua cifra editoriale.
E non c'è dubbio che sia stato aiutato dalla discussa direzione di Minzolini al TG1, il quale ha contribuito a minare la credibilità del (fu) prinicipale telegiornale nazionale.

Ma quello che si muove in profondità è un cambiamento nelle abitudini di accesso all'informazione. Infatti, di fronte ad un cedimento della credibilità dell'informazione televisiva, i dati indicano che sta lentamente crescendo il flusso di chi si informa attraverso altri canali, la carta stampata e la rete su tutti. Nell'ottobre 2009, per esempio, internet era usata dal 38,2% degli italiani per informarsi quotidianamente. E oggi il 28,8% degli italiani si rivolge contemporaneamente ai giornali cartacei e a quelli on line (sono sempre dati della Demos Coop).
Certo, poi ci sono altri dati (come quelli del rapporto sui media del Censis del 2009) che indicano come il quadro sia fatto anche di ombre: ma in quelle analisi si nota che il digital divide diminuisce in confronto al press divide. E questo è un dato abbastanza in linea con quanto detto finora.

Difficile dire dove andremo. Ma l'evoluzione tecnologica (e bisognerà seguire con attenzione le versioni dei quotidiani per i tablet) e alcuni segnali provenienti dalla programmazione televisiva di quest'anno (il fenomenale successo di Vieni via con me, con il ritorno dell'orazione civile in televisione) lasciano almeno prevedere uno scenario movimentato. 

calendario "Laboratorio di comunicazione multimediale"

Dopo l'anticipazione di qualche settimana fa, domani comincia il mio modulo del "Laboratorio di comunicazione multimediale".
C'è tanto, tanto lavoro da fare, nonostante il drastico calo dei frequentanti (a questo proposito: che sarà successo? qualcuno si è giustificato, ma la maggiorparte è proprio evaporata: troppo lavoro da fare? lezioni poco efficaci?  urgono indagini).
E allora, ecco un calendario delle lezioni: naturalmente, visto che è un "laboratorio", le lezioni saranno soprattutto di carattere seminariale, con esercitazioni e attività. E, sempre per lo stesso motivo, è pure possibile che i tempi slittino in avanti, anche se - in qualche modo - tutti gli argomenti saranno toccati.

14 e 15 dicembre 2010
Dedicheremo le lezioni al giornalismo on line: dopo una breve sintesi storica, analizzeremo le caratteristiche del giornalismo on line, confrontandolo con quello cartaceo. Studieremo le similitudini e le differenze fra i due modelli di scrittura, facendo delle esercitazioni.
Infine dedicheremo del tempo alla verifica dei progetti in corso, programmando il lavoro per la pausa natalizia.

11 e 12 gennaio 2011
Dedicheremo le lezioni al cinema documentario: inizieremo con una breve sintesi storica, analizzandone poi le caratteristiche. Cercheremo di capire le differenze fra le varie tipologie di documentario e di capire se il linguaggio cambia a seconda della piattaforma mediale utilizzata. Infine visioneremo e commenteremo alcuni documentari sul terremoto dell'Aquila, che saranno utili per il progetto finale.

18 e 19 gennaio 2011
Affronteremo il montaggio cinematografico, con alcuni cenni sia sulla storia che sulle tecniche. Che poi sperimenteremo in laboratorio.

25 gennaio 2011
Sicuramente il tempo dedicato alle esercitazioni di montaggio non sarà stato sufficiente, così gli dedicheremo qualche altra ora.
26 gennaio 2011
Dopo il montaggio video sarà il turno della radio. Riprenderemo alcuni degli argomenti che avevamo già trattato nella prima lezione e vedremo alcune tecniche per scrivere per la radio e parlare in radio. Se ci sarà tempo, vedremo anche il montaggio audio.


1 e 2 febbraio 2011
Termineremo le esercitazioni di laboratorio sul montaggio audio e faremo la verifica finale dei progetti in corso.

Il ruolo dell'informazione all'Aquila

No, non ne parlerò io. E' uno degli argomenti che stiamo cercando di analizzare con gli studenti del Laboratorio di Comunicazione Multimediale, e non voglio influenzarli con le mie idee, ma sentire le loro analisi.
Dunque, per oggi, mi limito a girare qui una clip realizzata da 3e32 che ha interrogato sulla fondamentale questione del ruolo dell'informazione prima e dopo il terremoto all'Aquila alcuni esponenti dei media, cartacei e televisivi.
E' solo una piccola segnalazione ad usum discipulorum. A cui si aggiunge il suggerimento di andare a sentire le interviste per intero, quando saranno caricate sul sito di 3e32.

Avremo modo di riparlarne.

La protesta sale...

In cima ai tetti, oltre che nelle piazze, studenti e ricercatori continuano a dire che il disegno di legge in discussione in Parlamento non migliorerà l'università. Molti sono i commenti interessanti che leggo. Moltissime le sciocchezze, qualcuna veramente raccapricciante. E di questo non merita parlare.
Invece quello che mi ha colpito nei giorni scorsi sono alcune delle modalità della protesta.
Partiamo dall'ascesa ai tetti.
Ho letto una intervista a Massimiliano Tabusi, ricercatore quarantaduenne, che studia geografia. È quello che ha proposto di salire sui tetti. E lo spiega così:
...salire sui tetti altera il rapporto tra posizione e funzione. Se un operaio sta dentro la fabbrica è coerente con la sua funzione, allo stesso modo di un ricercatore nell'università, se invece sale sul tetto crea una contraddizione. Dice: sono più importante di quello che c'è sotto, dello spazio vuoto (...) Nello stesso tempo, se ci sali sopra rafforzi anche il rapporto con quell'istituzione. Noi segnaliamo che siamo sopra all'università e che la realtà è diversa da come viene raccontata.
Mi è piaciuta molto questa analisi. Punta diritta al simbolo, che i mass media raccolgono e amplificano, forse senza nemmeno accorgersene.
Sarà forse perché i primi ha salire in alto per esprimere la loro protesta sono stati, negli ultimi anni, gli operai, ma mi ha fatto venire in mente il modo in cui sono cambiati i cortei nei decenni. Da quelli ordinati e composti degli anni Cinquanta, quando gli operai non si spostavano dai dintorni delle fabbriche o, se lo facevano, coordinavano il traffico per non arrecare troppo disturbo, a quelli sempre più chiassosi e "invasivi" dei decenni successivi. Allora gli operai cominciavano a mutuare alcune delle forme della protesta studentesca, utilizzando sit-in e coreografie sempre più complesse.
Il discorso sarebbe troppo lungo, e quello che mi interessa ora sottolineare è la forza simbolica dell'"invasione" delle città da parte dei cortei operai: era un modo per "riprendersi la città", come recitava una delle parole d'ordine degli anni Settanta, per invadere gli scenari della vita quotidiana da cui si sentivano esclusi. Sul piano simbolico, questa "invasione" spaventava perché rappresentava un sovvertimento dell'ordine. E, naturalmente, diventava un modo per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica.
Salire sui tetti, oggi, ha dunque lo stesso impatto simbolico. "Normalizzati" i cortei (a Roma si continua a discutere se vietarli per non perturbare il difficile equilibrio cittadino legati ai flussi di traffico: se dovesse succedere, è facile immaginare che ci sarebbero molti più cortei di quanti non ce ne siano oggi), la via di fuga per esprimere dissenso non resta che il cielo: salire in alto per farsi guardare.
Ma pare che ci sia anche qualcos'altro.
Infatti un gruppo di studenti ha tentato anche di entrare in Parlamento, suscitando riprovazione bipartisan, come scriverebbe un giornalista senza fantasia. Ma, nello stesso tempo, in un'altra parte d'Italia, altri cittadini in protesta volevano entrare in un municipio.
Il giorno dopo, con l'ironia e l'esperienza di chi ci ha creduto in quegli stessi miti e ha accarezzato quegli stessi sogni, Adriano Sofri ha scritto che l'assalto al Palazzo è una vecchia idea che ritorna in modo superfluo
perchè i Palazzi, ad arrivarci dentro, si scoprono vuoti. E a restarci dentri, ci si scopre vuoti, o peggio. (Quei ragazzi sul tetto di un Paese senza poeti, "La Repubblica", 27/11/2010)
Però a me ha colpito, questo ritorno all'assalto al Palazzo, anche solo simbolico.
E non sono così convinto che chi lo ha fatto abbia in mente il mito novecentesco dell'assalto al Palazzo d'Inverno.
Piuttosto, mi viene il dubbio che in questo gesto ci sia un tentativo di colmare - simbolicamente - la distanza fra un popolo che, retoricamente, si vuole protagonista della scena pubblica, e una classe politica che sembra invece allontanarsi sempre più dalla società.
Forse alcuni hanno avuto il dubbio che il Palazzo sia vuoto,  e per questo hanno deciso di andare a vedere.
Non è un tentativo di sostituirsi alla classe politica. E' un modo per dire: eccoci qui, parlate a nome nostro ma non sapete nemmeno che faccia abbiamo.
Noi siamo questi.
Cercate di tenerne conto da ora in poi.

L'Aquila ha chiamato, l'Italia ha risposto

Cinquemila, tredicimila o ventimila, in ogni caso a L'Aquila il 20 novembre c'era tanta gente. C'era anche tanta pioggia, ma questo non ha frenato la partecipazione.
C'erano anche tante telecamere e macchine fotografiche. Troppe in confronto a quelle scarne immagini che ci hanno mostrato la maggior parte dei telegiornali.
Questo è quello che ho visto io. Una parte perlomeno. La qualità del video è quella che è (prendetevela con YouTube, che ieri mi ha fatto perdere l'intera giornata per caricare qualcosa con una qualità decente e poi ha deciso di mandare tutto in crash) ma spero che sia in grado di dare quel senso di partecipazione che si respirava, quella voglia di continuare a vivere la città nonostante tutto. Per questo la musica.

E a proposito di musica, forse qualcuno si chiederà la ragione della scelta.
È una canzone di questua che si canta all'inizio dell'anno e che augura benessere, salute e abbondanza: si chiama Bonnì bonn'anne e, che io sappia, è tipica proprio dell'aquilano.
Una speranza oltre che un augurio.
L'esecuzione, per inciso, è quella del gruppo Lu Passagalle: Claudio (Di Silvestre) non me ne vorrà se me ne sono appropriato una seconda volta.

L'Aquila chiama Italia

Ancora una volta qualcuno cerca di far sentire la propria voce.
Di dire che le cose non stanno esattamente come le hanno raccontate.
Di parlare del futuro, più che del passato.
Ancora una volta, oggi, L'Aquila chiama Italia.

Una parte dell'Italia ha già risposto.
Una parte si sta muovendo in queste ore per andare lì, e unire la propria voce a quella degli aquilani.


Anch'io vado. Per sentire, per vedere ancora una volta, e per unire la mia voce a quella di un coro sempre più forte.
Poi vi racconto.

seminando da Fermo (ripresa, con un pensiero a Brescia)

Torno sul tema dell'ultimo post e parto da Fermo.
La città, intendo. Che è bellissima.
Ed è stato un piacere camminare in quelle strade lastricate, stretto dai muri delle case, fino ad arrivare alla sede della Facoltà di Beni culturali. E poi entrare in quel palazzo, anch'esso bellissimo, ristrutturato di recente: dev'essere un piacere studiarci e lavorarci.
La platea è stata molto attenta, e se devo valutare da come correvano le penne sui fogli, quello che dicevo doveva essere interessante. O magari no, magari scrivevano per non dormire. E qualche ragione l'avrebbero pure avuta, visto che siamo andati avanti per più di due ore senza fermarci mai.

Inizialmente avrei voluto provare ad annoiare pure voi, raccontandovi quello di cui ho parlato. Ma in quelle ore una Corte d'Assise, a Brescia, stava pronunciando il risultato di una settimana di camera di consiglio, due anni di dibattimento e centosessantasei udienze. Era il processo per la strage di Piazza della Loggia, a Brescia, il 28 maggio del 1974.
Otto morti.
Centouno feriti.
Cinque imputati assolti ai sensi dell'articolo 530, comma 2, "perché la prova manca, è insufficiente o contraddittoria".

E adesso ci sono altri fantasmi che si aggirano per la nostra storia nazionale.
Un tunnel di fatti, processi e depistaggi che ieri Benedetta Tobagi ha ben raccontato su Repubblica. Leggetela qui.
E poi tornate da me, che vi racconto un altro pezzo di quella storia. Una cosa a cui ho accennato ai ragazzi di Fermo, e - chissà - se mai qualcuno di loro dovesse capitare da queste parti, forse gli farebbe piacere saperne un po' di più.
Nelle ore e nei giorni successivi alla strage gli operai riuniti in assemblea permanente, insieme a tutti i rappresentanti delle forze antifasciste, decidono di occupare la città, di presidiarla, di assumere su di sé l'onere del controllo: volevano, ha scritto Claudio Sabattini, allora segretario della Fiom bresciana,
tenere occupata Piazza Loggia per tutta la settimana: cioè uscire ora dalle fabbriche e collegarsi alla città. 
Due giorni dopo la strage, sulle pagine de "Il Giorno", Natalia Aspesi scriveva
Brescia ha occupato oggi la piazza, l'ha occupata spontaneamente senza chiedere permesso a nessuno, con la forza dei suoi diritti e la sua disperazione, Non un poliziotto o un carabiniere in giro; solo, attento e instancabile, il servizio d'ordine organizzato dalle tre confederazioni sindacali per evitare ogni provocazione.
In quei giorni la forza operaia e sindacale si manifesta con pienezza: la città appare controllata da un vero "governo operaio" che si sostituisce all'amministrazione cittadina, alle forze dell'ordine e si confronta da pari a pari con le istituzioni statali. Quando arrivano il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e le altre autorità per i funerali sono le rappresentanze operaie ad accoglierle, esautorando di fatto le forze dell'ordine dal controllo della città: "soltanto noi abbiamo la forza e gli uomini necessari per far rispettare l'ordine", dicono i sindacalisti. E anche il cordone di sicurezza del capo dello Stato è fatto da operai.
È il momento in cui si manifesta una delle vie possibili con cui affrontare l'incipiente crisi della Repubblica, i cui tratti si stanno già delineando. "L'Unità" scriveva, nel giorno dei funerali delle vittime:
Ieri a Brescia fisicamente era evidente il ruolo che la classe operaia (...) [ha] assunto a salvaguardia della democrazia costituzionale e a difesa dell'avvenire della nazione. È, questa, una forza che sa di essere essa medesima la garanzia delle conquiste democratiche del Paese e che, dunque, di fronte all'incapacità, alla debolezza o, peggio, al cedimento dei pubblici poteri di fronte all'eversione fascista, ha saputo esercitare fino in fondo la propria funzione.
Però, questa "sostituzione" dello Stato è mescolata al suo rifiuto che si manifesta con i fischi che accolgono il sindaco e i rappresentanti politici. Non è solo la piazza a fischiare, ma anche gli stessi operai che compongono il servizio d'ordine. E la televisione, già allora testimone del tempo e agente di storia, ne amplifica la forza simbolica facendoli sentire nei servizi del telegiornale.
Si contrappongo in quella piazza una "società civile" e le istituzioni che dovrebbero guidarla, e la prima sembra voler esautorare la seconda perchè non le crede più, come scriverà qualche settimana dopo Giuliano Zincone sulle pagine del "Corriere della Sera":
i lavoratori non credono nella buona fede del governo e nelle promesse democristiane.
E dicono che
"chi governa non solo si dimostra incapace di andare incontro agli interessi della popolazione, ma mostra anche un volto ambiguo, una preoccupazione forsennata di comando ad ogni costo, senza assumersi responsabilità".
In quei giorni la repubblica si trova su un crinale.
E comincia a scivolare, spinta dall'incapacità delle istituzioni di dare una risposta radicale e immediata alle nubi di crisi che si accumulavano all'orizzonte. In pochi anni, nel vuoto istituzionale, il sistema dei partiti sembrerà avere le risposte adatte. Mentre il sindacato e il movimento operaio si riveleranno fragili, incapaci di gestire le trasformazioni sociali ed ecomiche, impossibilitati a trasformare la politica. E anche per loro, comincerà la discesa.

seminando da Fermo

Allora: oggi sono a Fermo, ospite dell'Università di Macerata (facoltà di Beni culturali) e di Silvia Casilio.

Poi vi racconto.

Il gioco degli elenchi (Vieni via con me)

Ascolti record per "Vieni via con me". Garimberti: "Grande esercizio di libertà" (la Repubblica)
Ecco il teorema-Saviano: il Giornale come la mafia (il Giornale)
Saviano: democrazia a rischio per la "macchina del fango" (La Stampa)
Saviano sparge fango e noia (Libero)
Uragano Saviano-Benigni Monologhi contro il fango (L'Unità)
La tv dei faziosi contro il cavaliere (Il Tempo)
Tv, record di ascolti per la trasmissione di Saviano e Fazio: oltre 7,6 milioni (Il Corriere della Sera)

L'invenzione narrativa e retorica degli elenchi con i quali è stata costruita la prima puntata di Vieni via con me, il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano iniziato ieri (ma sarebbe giusto ricordare anche gli altri autori: Pietro Galeotti, Marco Posani, Francesco Piccolo, Michele Serra, Loris Mazzetti, così tantoper rimanere in tema di elenchi) mi è piaciuta così tanto che ho voluto usarla per aprire questo post.
Ecco, quelli sono i titoli - alcuni dei titoli - con cui i giornali di oggi hanno raccontato la serata televisiva di ieri. E mi sembra che descrivano esaurientemente il panorama in cui ci muoviamo. Se qualcuno fosse curioso di conoscere il contenuto di quegli articoli potrebbe seguire i link. E' tutto lì, e io non aggiungerò una parola di più.
Vorrei solo dirvi che cosa mi è piaciuto di quello che ho visto ieri sera.
Forse non è la stessa cosa che è piaciuta agli altri milioni di persone che stavano insieme a me davanti alla tv. O forse no, chissà.
A me sono piaciute due cose. Due cose che in tv non si vedono spesso, almeno non insieme.
L'emozione e il pudore.
E in particolare mi è piaciuto il pudore per le proprie emozioni.
Una cosa rara da vedere. C'erano persone che si mettevano in gioco, e magari sbagliavano. Ma avevano qualcosa da dire.
E questo, secondo me, per ora basta.

arriva la cavalleria leggera

Domani, martedì 9 novembre, faccio la mia prima lezione al corso del Laboratorio di comunicazione multimediale.
Sarà dedicata alla radio, che Peppino Ortoleva ha definito tempo fa con una metafora memorabile: la cavalleria leggera della comunicazione.
Non sarà solo una lezione di storia della radio (per quello ci sarà tempo, anche in altri corsi), sebbene per parlare di radio non si possa evitare di raccontarne, almeno a grandissime linee, anche la storia.
Sarà una lezione in bilico fra storia e linguaggio, in particolare per quello che riguarda il documentario radiofonico, che arriverà fino ad oggi e a quella cosa che oggi ascoltiamo su internet e che continuiamo a chiamare radio solo perché non sappiamo trovarle un nome migliore, oppure siamo troppo pigri per farlo. Di che sto parlando? Andate qui per farvene un'idea e poi apriamo il dibattito.

Nel corso della lezione ascolteremo alcuni documentari radiofonici e li sottoporremo ad autopsia, cercando di sezionarli nelle loro componenti principali.
La mia speranza è che qualcuno decida di realizzare un documentario radiofonico come progetto del corso, sempre che io riesca a fargli apprezzare la forza narrativa e di approfondimentodi questo genere non troppo frequentato: se riuscirò nel mio intento lo scopriremo solo domani e dopodomani.
Non è detto che seguendo l'impeto della carica della cavalleria leggera della comunicazione, questo ipotetico coraggioso non finisca per ritrovarsi qui, nel cantiere di Radio Tre, un posto che vi consiglio di visitare per scoprire nuove strade e nuove forme della comunicazione via radio.

la disponibilità degli indisponibili

Avevo detto in un post precedente che sarei tornato su questo strano fenomeno della disponibilità degli indisponibili.
Eccomi allora.
La promessa riforma dell'Università, fortemente voluta dal ministro Gelmini, ha incontrato lungo il suo cammino due fondamentali ostacoli: la mancanza di fondi e il dissenso di una parte dell'università. Il perché solo una parte dell'università sia contraria ad una riforma che riduce i fondi, non rende più trasparente il reclutamento e sclerotizza le scelte, oltre a rendere le università ancora più dipendenti dalla politica locale è spiegato molto chiaramente in questo articolo (I ricercartori e la riforma Gelmini, o "del prendere coscienza di sé"), a cui vi rimando.
La parte che si è opposta con forza sono stati i ricercatori, che hanno applicato alla loro attività il principio dello sciopero bianco: faccio solo quello che devo. Dichiarando la loro indisponibilità a sostenere quelle ore di didattica che hanno sempre fatto ma che non erano tenuti a fare, hanno messo in crisi l'intero meccanismo, mostrando - innanzitutto - che il loro ruolo (non riconosciuto ufficialmente e ancora più sminuito - o meglio annullato - dalla nuova riforma) è essenziale, e, in secondo luogo, che l'università si regge in gran parte sulle loro spalle.
Questo sembra aver indotto qualcuno sul piano nazionale a riflettere meglio sulle linee portanti di una riforma che, così com'è concepita, taglia il ramo su cui siede l'università. E sembra aver portato qualche piccola novità anche sul piano locale.
E qui veniamo al punto.
Perché la situazione all'università di Teramo, come in molte altre piccole università, è particolarmente complicata, visto che la quota dei ricercatori è molto alta e che buona parte dei corsi si reggono sulle loro spalle. Ci sono alcuni anni di corso le cui lezioni sono interamente affidate ai ricercatori. La loro - la nostra - indisponibilità non impedisce solamente l'avvio regolare delle lezioni, ma rischia anche di mettere in forse la prosecuzione di alcuni corsi di laurea.
E allora abbiamo dovuto scegliere di fare come fanno gli operai addetti agli altoforni a ciclo continuo: qualcuno si deve sacrificare per il bene di tutti ed evitare che gli altoforni si spengano, pena la diminuzione della loro aspettativa di vita. Se ne è discusso con gli altri ricercatori e con la presidenza e si è arrivati a questo compromesso: alcuni ricercatori, con il consenso e il mandato di tutti gli altri, revocano la propia indisponibilità limitatamente ad alcuni corsi, consentendo così l'avvio di tutti gli anni dei diversi percorsi di studio.
In pratica teniamo acceso l'altoforno.

Laboratorio di comunicazione multimediale a.a. 2010/2011

Un nuovo anno.
E due nuovi corsi.

L'agitazione dei ricercatori è ancora in corso, ma ne parleremo in un altro post.
Per ora vi scrivo il programma del Laboratorio di comunicazione multimediale che divido con Gabriele D'Autilia. E' un corso di secondo anno della laurea in Scienze della Comunicazione, comune ai due indirizzi di Scienze della Comunicazione e Comunicazione aziendale, pubblicità e marketing.
Questo è il programma.


Obiettivi generali
Il corso si propone di fornire una conoscenza sia teorica che pratica dei diversi media, digitali e analogici, e allo stesso tempo di sperimentare con gli studenti le loro diverse applicazioni, concentrandosi su un tema specifico.
Agli studenti verranno impartite le nozioni fondamentali, teoriche e pratiche, sui linguaggi della fotografia, del cinema, della radiofonia, del giornalismo digitale. Ci si dedicherà inoltre all’analisi della loro interazione in ambito digitale, attraverso l’esplorazione dell’universo dei new media.
Gran parte del corso sarà riservato all’applicazione pratica degli argomenti discussi a lezione. In questo contesto agli studenti sarà richiesto, utilizzando le strutture dei laboratori di facoltà, di produrre servizi fotografici, brevi audiovisivi, brevi programmi radiofonici e articoli giornalistici, che confluiranno infine in un prodotto per il web, sul tema attuale della realtà aquilana.
Su questo tema il corso avvierà un’inchiesta che, sviluppata lungo l’arco dei due moduli, confluirà in un prodotto multimediale diffuso in rete.

Obiettivi del primo modulo (Gabriele D’Autilia)
Oltre alla prima parte dedicata allo sviluppo dei prodotti di Laboratorio, il modulo sarà dedicato a due temi:
1) fotografia: verranno forniti agli studenti le nozioni fondamentali sulla storia e la tecnica della fotografia, analizzando in particolare gli aspetti legati al reportage
2) web 3.0: a partire dall’analisi critica del web 2.0, verranno descritte e analizzate le principali caratteristiche del web 3.0. Inoltre ci si soffermerà sul cruciale argomento della web usability e sulle tecniche di scrittura per il web.

Obiettivi del secondo modulo (Andrea Sangiovanni)
Oltre alla prima parte dedicata allo sviluppo dei prodotti di Laboratorio, il modulo sarà dedicato principalmente all’analisi dei seguenti media:
1) cinema, e in particolare il cinema documentario: agli studenti verranno fornite le nozioni fondamentali sulla sua storia e sul suo linguaggio, avvalendosi dell’ausilio di materiali audiovisivi. Ci si dedicherà in particolare ai rudimenti del montaggio audiovisivo.
2) radio: verranno fornite agli studenti le nozioni basi del linguaggio radiofonico e nel montaggio audio. Ci si dedicherà in particolare all’analisi di alcuni documentari radiofonici.
3) giornalismo digitale: a partire da una breve ricognizione della storia del giornalismo per il web, ci si dedicherà all’analisi delle caratteristiche della scrittura giornalistica per il web.

il lenzuolo bianco

Finora non ho parlato del delitto di Avetrana, per quanto ci sarebbe stato molto da dire. Non sul delitto, ma sul modo in cui è stato raccontato, a cominciare dalla sera in cui Chi l'ha visto? ha dato ad una  madre la notizia della morte della figlia. In diretta. 
Ne avevo solo accennato, parlando di altro, e non ho certo intenzione di cominciare adesso.
Anzi, dirò di più: non ho avuto il coraggio - o il cattivo gusto? - di andare a rivedere la famosa puntata di Chi l'ha visto?. E, in linea di massima, cerco di filtrare le notizie/non notizie su quanto sta succedendo da quelle parti: i cronisti appostati davanti al cancello della casa del delitto, che si dividono il poco spazio con i "turisti" in cerca di una macabra emozione, non mi appassionano.
E anche adesso che ne parlerò, in realtà non parlerò di quel fatto delittuoso ma di una lezione di giornalismo.
Ieri a ora di pranzo la televisione era accesa su un telegiornale nazionale. Ormai siamo abituati a digerire notizie, anche le più orribili, insieme al primo. Ma ieri ho dovuto smettere di mangiare, perché il telegiornale ci ha fatto sentire parte della confessione dell'omicida.  
Poi il condutore ha annunciato - con malcelato orgoglio - che di lì a pochi minuti l'intera registrazione sarebbe stata disponibile sul sito.
E io ho smesso di mangiare: una cosa così non la puoi digerire.

Oggi per fortuna Mario Calabresi, direttore de La Stampa, ci ha dato una grande lezione di giornalismo, invocando il diritto al lenzuolo bianco, quel lenzuolo che da sempre una invisibile mano pietosa stende sui cadaveri in mezzo alla strada.
Il suo articolo lo potete leggere qui: fatene tesoro perché chiarisce una volta per sempre chi è e che cosa fa un giornalista. 
Per tutto il resto, quello che ormai troppo spesso vediamo e ascoltiamo, dovremo trovare un altro nome.

due giorni dopo

Bella iniziativa. Belle discussioni. Belle persone.
Questa la sintesi della due-giorni a Pescasseroli, ospite della Coecin (Otium et Concordia in Natura) che - semmai dovesse approdare da queste parti - ringrazio pubblicamente.
Fra le cose da segnalare c'è senz'altro un'iniziativa che - mea culpa - non conoscevo: Una carriola di disegni. Che cos'è? Andate sul blog (fate click qui) e scopritelo da soli. Io vi dico solo che merita.


Il dibattito su L'Aquila è stato intenso, con momenti di rabbia e commozione, com'è giusto che sia. Erbani e Gaeta hanno descritto, ciascuno a suo modo, le storture dell'informazione; io ho provato a dire qualcosa di originale sulle narrazioni diverse dal modello televisivo.
E' un tema che continuerò ad approfondire ma qua sotto, se vi interessa, c'è qualche prima osservazione, nella forma degli appunti che avevo preparato per l'occasione.
Buona lettura.


Uno dei confini che il terremoto del 6 aprile segna è quello dell’informazione, del modo di fare informazione. Come ha scritto con grande efficacia Marino Sinibaldi: 
«tante immagini e parole ma poche notizie e, usiamo pure con cautela una parola equivocabile, poca verità. (…) L’Aquila è un caso esemplare di quanto la ridondanza riduca, in realtà, l’informazione reale» [M. Sinibaldi, Terremoto e informazione, “Il Mulino”, 2 novembre 2009].
Io mi vorrei soffermare su un solo aspetto, a partire da un elemento che credo abbiamo tutti notato, anche se poi – magari – lo abbiamo rimosso, perché gli eventi sono stati tantissimi, tutti con un carico emotivo che era difficile sostenere.
Sin dai giorni immediatamente successivi al terremoto del 6 aprile 2009 il racconto per immagini ha giocato un ruolo fondamentale: con racconto per immagini non intendo (per ora) le immagini dei telegiornali delle prime ore che, tendenzialmente, svolgevano soprattutto una funzione informativa e testimoniale, si caricavano del compito di far vedere che cosa era successo. Con racconto per immagini intendo una narrazione dell’evento terremoto attraverso le immagini, anche se talvolta queste immagini erano trasformate in parole: mi riferisco in particolare all’iniziativa di Repubblica di inviare dei registi a L’Aquila, chiedendogli di raccontare quello che vedevano, attraverso il loro stile di scrittura visiva.
Parole e immagini non sono sempre andate d’accordo. E questa è una delle cose che si notano se si cammina per la città, ancora oggi. Alle grate che segnano i confini della zona rossa, che sbarrano le strade impercorribili o pericolose, gli aquilani hanno appeso dei cartelli. Mi sembra il caso di citarne uno, estremamente significativo, che dice:
«Gentile turista, qui sei il benvenuto. Solo un favore ti chiedo, se proprio non ne puoi fare a meno, di fotografare le ferite di questa città con il dovuto rispetto. Non essere troppo invasivo e morboso, ricorda che quello che tu vedi: macerie, lesioni e distruzione, per noi rappresentano i luoghi della memoria e ferite dell’animo. Quindi, se vuoi ricordarti di questa città anche dopo le tue ferie, usa la fotocamera con garbo e fotografa anche la voglia di ri-nascere di questa gente. Ecco, questo ci fa veramente piacere. Con affetto, un aquilano».
Non penso che queste frasi abbiano bisogno di commenti ulteriori: ci mostrano bene la tensione fra immagini e parole. Così come tutti quei cartelli, fogli, foglietti pieni di parole appesi alle grate ci mostrano la forza della scrittura: la sua capacità di lasciare un segno, di essere una testimonianza forse meno effimera di quella lasciata da un’immagine digitale.
Però, come ha scritto bene Nicoletta Bardi, anche le fotocamere e le videocamere servono a conservare un segno, a fermare un attimo di un lungo percorso in cui tutti i punti di riferimento abituali cambiano in continuazione:
«…il nostro panorama sono le macerie, la nostra risorsa è la scrittura (…). E poi scrivere con tutti i mezzi a disposizione: scrivere su foglietti per fermare i pensieri che si frantumano, per comporre le liste che non riusciamo più a fermare nella memoria, per nominare le sensazioni fuggevoli che non si ha il tempo di approfondire; scrivere su Internet per sfruttare la velocità nella comunicazione e per opporre all’informazione ufficiale una visione reale che nasca dal basso; scrivere su quaderni che consentano di guardare al domani senza perdere pezzi di ieri, sui computer portatili che sostituiscono le scrivanie e le stanze tutte per sé. E poi le nuove scritture che la tecnologia ci mette a disposizione con relativa facilità: macchine fotografiche e videocamere che possono fermare attimi irripetibili e non recuperabili nella metamorfosi quotidiana dei panorami, degli scorci, dei gesti; sms e mail che fronteggiano la dissoluzione della comunicazione ordinaria, quella che era fatta anche di sguardi, pause, silenzi» [Nicoletta Bardi, Libri come pietre mille sguardi, in “Legendaria” n. 81, aprile-maggio 2010].

Dunque: io penso che la presenza sui luoghi del disastro di registi, di narratori per immagini, sin dai primi giorni abbia costruito una specie di “canone” narrativo (sia pure in modo del tutto involontario). Nei mesi successivi la narrazione audiovisiva ha assunto forme diverse:
1) c’è la narrazione ufficiale, quella che è passata attraverso i principali canali televisivi. Ci sarebbe molto da dire, e molte distinzioni da fare: ad esempio molti reportages di trasmissioni di approfondimento sono stati di ottima fattura e continuano ad informare sulla situazione e sulle difficoltà della ricostruzione con puntualità (l’ultimo che ho visto è stato quello contenuto nella puntata del 10 ottobre di Presadiretta di Riccardo Iacona). Però credo che la prima impressione che tutti noi conserviamo dell’informazione televisiva non sia una buona impressione. La lunga sequenza di dati (circa un minuto) con cui la conduttrice del tg1 del 7 aprile spiegava il record di ascolti della sua testata costituisce probabilmente solo una caduta di stile, ma è una di quelle sequenze che si fissano nella mente e diventano altamente simboliche dello stato dell’informazione.
Più che quello che è stato detto, e il modo in cui è stato detto, però, credo che sia interessante quello che non è stato detto: per esempio il silenzio sulla manifestazione del 16 giugno.
Io non mi vorrei soffermare su questo aspetto, che è abbastanza conosciuto, se non per ricordare che questo silenzio è stato devastante per l’opinione pubblica del nostro paese. Esso si è unito ad una narrazione positiva che ha trasformato il disastro aquilano in un miracolo aquilano, lasciando quindi diffusa la sensazione che tutto o quasi sia ormai risolto, e se non risolto in via di totale soluzione. E questo nonostante l’informazione giornalistica sia stata più puntuale perché – non scordiamocelo – l’86,7% della popolazione italiana si informa attraverso la televisione e solo il 33,1% attraverso i quotidiani (mentre internet è al 38,2%) [rapporto dell’ottobre 2009 su gli italiani e l’informazione dell’osservatorio sul capitale sociale degli italiani: in realtà si notano linee di tendenza in calo sia per l’uso della tv sia per la fiducia nei telegiornali principali rispetto a due anni prima].
2) accanto alla narrazione ufficiale televisiva ci sono stati i documentari e i film, che hanno contribuito e continuano a contribuire a fornire informazioni poco note e a ricostruire stati d’animo e storie
3) poi c’è stata l’informazione locale, che ha svolto un ruolo importantissimo e ha seguito con grande attenzione l’evolversi della situazione. E non mi riferisco solo alle redazioni regionali della Rai, oppure alle televisioni locali, ma anche alle web tv. Questo è un fenomeno piuttosto recente, anche se ovviamente non inedito e, soprattutto nel nostro paese, ancora poco sviluppato: non vorrei tanto parlare delle televisioni che viaggiano sul web come quelle delle grandi testate giornalistiche – che pure bisogna analizzare, perché hanno trasformato in immagini quel genere di approfondimento che ha caratterizzato la carta stampata (un solo esempio, un po’ meno scontato: una delle voci che hanno raccontato l’assenza della ricostruzione è stata, ad esempio, La Gazzetta dello Sport con un servizio che si intitola La zona rossa un anno dopo del 19 maggio 2010, in occasione della tappa a L’Aquila del giro d’Italia) 

Vorrei invece parlare brevemente delle micro-webtv, delle web tv locali che si ispirano al principio del citizen journalism, che in italiano potremmo chiamare giornalismo partecipativo.
Vi faccio l’esempio di una tv che si chiama L’Aquila99 (www.laquila99.tv) e che è nata ai primi di marzo, con l’idea di fondare – lo dico con le loro parole - «un luogo epicentrale di comunicazione» per «rendere  trasparente e partecipato il processo di “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal sisma». Tramite questa webtv, chiunque lo voglia può sentire le parole dei cittadini aquilani e vedere le assemblee cittadine. Ma chiunque può anche contribuire inviando i propri video.
Questa caratteristica fa sì che le web tv siano la forma di “giornalismo” più vicino alle persone: la forza di questa narrazione è proprio il suo provenire “dal basso”, dare voce a chi spesso non è stato ascoltato nel frastuono mediatico che ha accompagnato a lungo il terremoto e a chi – ora – rischia di sembrare muto nel silenzio che è piombato sull’Aquila.
4) E così arriviamo a parlare di internet che è stata la grande risorsa, e anche - dal punto di vista della comunicazione - la grande novità di questo sisma (un altro dei confini che L’Aquila segna).
Internet è il grande serbatoio del racconto “spontaneo” del terremoto, un racconto che si contrappone a quello ufficiale: facendo una ricerca su youtube con parole chiave non troppo generiche, escono quasi 5000 video (però approfondendo si scopre che ce ne sono molti non taggati, e quindi “invisibili” ad una prima ricerca). E a questi occorre aggiungere tutti quelli del versante “organizzato”, non spontaneo, professionale, di internet (come appunto i materiali delle web tv dei quotidiani oppure i canali in rete delle tv).
Sul piano simbolico internet diventa una voce collettiva e alternativa, quella voce che non ha spazio nel racconto ufficiale. E questa funzione è diventata tanto più forte quanto più la narrazione ufficiale ha assunto toni autocelebrativi da parte del governo. La strategia narrativa dei media dominanti (in particolare quella televisiva) è messa in crisi anche con le forme del racconto “dal basso” che viene veicolato attraverso internet e che assume dei tratti peculiari: in particolare, quello che mi ha colpito è che esso diventa anonimo e, perciò, espressione di una “intelligenza collettiva” che si muove dal basso.
Penso che molti di voi conoscano un testo che ha girato a lungo in rete e che si può leggere nei blog, ma è stato diffuso anche via e-mail (a me per esempio è arrivato così). È un racconto in forma di lettera che mostra le distorsioni dell’informazione e che è un perfetto esempio di quanto sto dicendo:
«Ieri – dice il testo anonimo – mi ha telefonato l'impiegata di una società di recupero crediti, per conto di Sky. Mi dice che risulto morosa dal mese di settembre del 2009.
Mi chiede come mai. Le dico che dal 4 aprile dello scorso anno ho lasciato la mia casa e non vi ho più fatto ritorno. Causa terremoto.
Il decoder sky giace schiacciato sotto il peso di una parete crollata. Ammutolisce.
Quindi si scusa e mi dice che farà presente quanto le ho detto a chi di dovere.
Poi, premurosa, mi chiede se ora, dopo un anno, è tutto a posto.
Mi dice di amare la mia città, ha avuto la fortuna di visitarla un paio di anni fa.
Ne è rimasta affascinata. Ricorda in particolare una scalinata in selci che scendeva dal Duomo verso la basilica di Collemaggio.
E mi sale il groppo alla gola.  Le dico che abitavo proprio lì.  Lei ammutolisce di nuovo. Poi mi invita a raccontarle cosa è la mia città oggi.
Ed io lo faccio. 
Le racconto del centro militarizzato.
Le racconto che non posso andare a casa mia quando voglio.
Le racconto che, però, i ladri ci vanno indisturbati.
Le racconto dei palazzi lasciati lì a morire.
Le racconto dei soldi che non ci sono, per ricostruire.
E che non ci sono neanche per aiutare noi a sopravvivere.
Le racconto che, dal primo luglio, torneremo a pagare le tasse ed i contributi, anche se non lavoriamo.
Le racconto che pagheremo l'i.c.i. ed i mutui sulle case distrutte. E ripartiranno regolarmente i pagamenti dei prestiti.
Anche per chi non ha più nulla. Che, a luglio, un terremotato con uno stipendio lordo di 2.000 euro vedrà in busta paga 734 euro di retribuzione netta.
Che non solo torneremo a pagare le tasse, ma restituiremo subito tutte quelle non pagate dal 6 aprile.
Che lo stato non versa ai cittadini senza casa, che si gestiscono da soli, ben ventisettemila, neanche quel piccolo contributo di 200 euro mensili che dovrebbe aiutarli a pagare un affitto.
Che i prezzi degli affitti sono triplicati. Senza nessun controllo.
Che io pago, in un paesino di cinquecento anime, quanto Bertolaso pagava per un appartamento in via Giulia, a Roma.
La sento respirare pesantemente. Le parlo dei nuovi quartieri costruiti a prezzi di residenze di lusso.
Le racconto la vita delle persone che abitano lì. Come in alveari senz'anima. Senza neanche un giornalaio. O un bar.
Le racconto degli anziani che sono stati sradicati dalla loro terra.
Lontani chilometri e chilometri.
Le racconto dei professionisti che sono andati via. Delle iscrizioni alle scuole superiori in netto calo. Le racconto di una città che muore.
E lei mi risponde, con la voce che le trema.
“Non è possibile che non si sappia niente di tutto questo. Non potete restare così. Chiamate i giornalisti televisivi. Dovete dirglielo. Chiamate la stampa. Devono scriverlo”.
Loro non scrivono, voi fate girare».
L’anonimato del testo e l’appello finale rinforzano questa idea estremamente diffusa che esista uno scontro in atto fra un racconto ufficiale, calato dall’alto, e una verità che nasce dal basso. E la cosa interessante è che un dialogo del genere può essere capitato a chiunque non sia stato informato solo dalla televisione.
Vorrei sottolineare un elemento, prima di guardare più da vicino ai materiali audiovisivi “spontanei” che si possono trovare in rete. Internet, infatti, non è soltanto il luogo dove trovare le narrazioni alternative: è stato anche – e direi soprattutto – un luogo fondamentale in cui avviare la ricostruzione, non materiale ma spirituale della città.
Questo elemento emergeva già dalle parole di Nicoletta Bardi che ho citato all’inizio: ma è una consapevolezza molto diffusa. Anna Pacifica Colasacco, per esempio, è l’autrice di un blog che si chiama miss kappa e che esisteva già prima del 6 aprile. Dopo il terremoto, però, quello che scrive assume un aspetto diverso:
«Il mio blog dava voce alla nostra disperazione. In tanti hanno letto le mie parole. Presto è diventato strumento di divulgazione per le persone lontane e per gli stessi aquilani. Cercavo di raccogliere i pezzi frammentati della nostra comunità volutamente disgregata. Costruivo una piazza aperta a tutti. Anche ai tanti che non mi credevano. E che, impietosamente, si accanivano con le armi di chi non conosce la realtà, ma appoggia incondizionatamente ciò che impone l’informazione ufficiale. Gridai dai primi giorni ciò che la Protezione Civile stava perpetrando sulla nostra terra. Furono sensazioni, inizialmente, che poi trovarono riscontro nei fatti. E raccontai che non era vero che qui tutto andava bene. E cercai di smentire le bugie, quelle che ci accompagnano dalla prim’ora. E oggi parlo alla graduale presa di coscienza dei cittadini. Del loro, del nostro, riappropriarci di ciò che tentano di portarci via. Racconto di persone, di luoghi, di speranze. E di voglia tenace di partecipare» [Anna Pacifica Colasacco, Il primo aiuto una pennetta, “Legendaria” cit.].
I blog, come le webtv, e i social network o, semplicemente, youtube, diventano allora il luogo dove cercare di ricreare quella comunità che il terremoto e la gestione dei soccorsi avevano smembrato e disperso. Diventano, prima che la voglia di partecipazione trovi uno sbocco organizzativo, il luogo virtuale dove condividere le proprie emozioni, prima, e poi la conoscenza. E infine dove organizzarsi. I primi incontri di cittadini desiderosi di “riprendersi la città” nascono proprio dai blog e dai contatti virtuali in rete. 

Dunque: «Riparto da internet…» come dice il titolo di uno dei video che è possibile trovare in rete. 
Il titolo completo in realtà dice: « Riparto da internet per ricostruire il mio mulino e quindi la mia vita». L’ho trovato estremamente simbolico, non solo perché descrive bene la forza che la rete ha assunto in questa situazione, ma anche perché ci racconta una caratteristica peculiare delle narrazioni che vi si possono trovare:  molte di esse infatti raccontano storie e sguardi individuali. Finora per definirle ho usato il termine “narrazioni spontanee”, ma l’ho sempre messo tra virgolette perché non è una definizione molto esatta. Il filmato che vi ho citato, ad esempio, è realizzato per una web tv e dunque è pensato come un “servizio televisivo”, sebbene non troppo professionale dal punto di vista della tecnica. Però, il fatto che esso racconti una piccola vicenda che non ha una eco sui grandi mezzi di comunicazione stimola una forte identificazione in tutti coloro che vivono una situazione simile, una condizione di disagio e, allo stesso tempo, di forte voglia di ricominciare.
Tuttavia molti dei video che si possono trovare sono realmente delle narrazioni spontanee: ci sono per esempio le immagini di chi si è intrufolato nella zona rossa senza permessi per riprenderne la distruzione e poi la mette in rete per mostrarla a tutti. (Terremoto dell’Aquila, uplodato su Youtube il 28 maggio 2010)
In altri casi invece, e sono la maggior parte, abbiamo delle narrazioni alternative a quelle mainstream. Qui la videocamera è usata come la penna, e Youtube diventa un vero e proprio diario: emblematico è, ad esempio, il video di Francesco Paolucci Diario di un terre-mutato che è stato a lungo ospitato sulle pagine on-line della trasmissione di Radio3 Fahrenehit. Come accade sempre più spesso anche nell’informazione generalista, Paolucci racconta storie, piccole storie individuali: ma se nel caso dei telegiornali o delle trasmissioni pomeridiane queste vicende individuali servono a stabilire un legame emotivo con il telespettatore, nel caso dei videomaker come Paolucci le storie individuali diventano il dettaglio di una storia più ampia, lo strumento attraverso il quale convogliare le emozioni di una vicenda collettiva.
Nei casi migliori, ciò porta a forme di racconto “altre”, molto diverse dalla narrazione televisiva (e anche cinematografica): possono ad esempio assumere l’andamento di un racconto satirico, e penso sempre a Paolucci, stavolta in coppia col suo amico/vicino di casa “Maurom”, e ai loro “dice che”.  L’ultimo, ad esempio, è un capolavoro d’ironia: si chiama Il cielo sopra Pettino West e sulla scia dei programmi sui “misteri” (tipo Voyager: c’è anche una citazione lessicale del conduttore) si finisce per raccontare la condizione psicologica che vivono oggi gli aquilani, tanti personaggi del teatro dell’assurdo, ciascuno dei quali sta aspettando il suo Godot.

Ma mi vengono in mente anche i lavori di Luca Cococcetta, che racconta il terremoto e la ricostruzione con uno stile molto personale: ne cito due, il trailer di un documentario che s’intitola Radici- L’Aquila di cemento e un racconto intitolato Pezzi di città, uplodato il 23 febbraio 2010. 

Questi lavori, come anche quelli di Paolucci, hanno diverse migliaia di visualizzazioni (dalle 3 alle 5mila); gli altri arrivano a qualche centinaio, se va bene, ma nella maggior parte dei casi non sono stati visti che da qualche decina di persone. Dunque siamo di fronte a materiale che circola, ma non molto. E dunque può al massimo intaccare il racconto ufficiale del terremoto, ma non può certo infrangerlo. Certo, chi vuole, può accedere attraverso internet ad un racconto diverso, per molti versi più emozionante oltre che più “vero”: solo che – purtroppo – non sembra che siano moltissimi a farlo.

Appuntamento a Pescasseroli

Sabato mattina sarò qui
Si tratta di un evento culturale della durata di tre giorni, con proiezioni, dibattiti, incontri. Ogni anno si affronta un tema diverso: i confini è quello del 2010 (qui trovate l'interno programma).
Sabato mattina, alle 10.30, si parlerà de L'Aquila perché, come dice il titolo, L'Aquila ci parla di noi (gli autori hanno scelto di usare il titolo di un articolo di Guido Crainz pubblicato su "Repubblica" il 24 giugno 2010: se non lo avete letto, potete farlo qui). L'Aquila, cioè, è un confine: un confine fra modi diversi di gestire l'emergenza e forme diverse di uso degli strumenti di comunicazione per narrare l'emergenza. Ma anche un confine fra diversi racconti del terremoto e della sua gestione. E un confine fra diversi modi di intendere la politica, e non solo quella di gestione dell'emergenza.
Si proverà a parlarne insieme a Francesco Erbani, che ha appena pubblicato un piccolo, interessante libro che vi consiglio (Il disastro. L'Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, edito da Laterza); con Alessandro Gaeta, giornalista Rai; con Gabriele Polo, direttore editoriale del Manifesto; con Cirò Sbailò, che insegna diritto pubblico comparato alla Sapienza, a Roma; con altri che ho sicuramente dimenticato e con il pubblico in sala.
Cercherò di riflettere con loro su uno dei temi di fronte ai quali ci ha messo questo evento: la presenza di due diverse (e talvolta opposte) narrazioni pubbliche del terremoto, l'una ufficiale (quella fornita dai mass media, in particolare televisivi), l'altra "spontanea" che si è prodotta (e continua a prodursi: guardatevi l'ultimo "documentario" realizzato da Francesco Paolucci e Luca Serani, Il cielo sopra Pettino West) sul web. In realtà ce ne sono una terza, quella nata dall'informazione locale, che - in qualche misura - è stata un po' all'incrocio fra le due, e una quarta, quella dei film documentari su L'Aquila che sono stati girati e distributi nell'ultimo anno.
Il più famoso è probabilmente Draquila di Sabina Guzzanti che ha avuto un buon successo in sala e un grosso impatto mediatico: sul numero 65 di Meridiana, dedicato a L'Aquila e di prossima pubblicazione, uscirà una mia recensione al film.
Eccone qualche riga:
Così, alla fine, muovendosi in un difficile equilibrio fra grottesco e patetico, fra satira ed informazione, Draquila riesce a dare molte notizie su aspetti meno noti dei processi avviati dal terremoto aquilano e, allo stesso tempo, a tracciare un ritratto impietoso dello stato attuale del nostro paese. Viene da sorridere quando, in una sequenza del film, una signora, grata per i soccorsi ricevuti, identifica lo Stato con il premier: vorrebbe abbracciarlo perché, dice convinta, «lo Stato è Berlusconi», salvo poi aggiungere, di fronte all’espressione perplessa della sua interlocutrice, «o no?». Viene da sorridere, appunto, ma è un sorriso amaro che nasconde l’imbarazzo per il livello di incultura politica diffusa in un paese dove il 23,3% della popolazione non si informa mai di politica e il 60,7% se ne occupa solo una volta alla settimana, secondo quanto sostiene il rapporto Istat del 2009 sulla partecipazione politica. 
Sono convinto che anche questo argomento aleggerà sulla discussione. 
Ma ne riparleremo.
 

trent'anni dopo

Il 14 ottobre 1980 è finita un'epoca.
Così almeno dice la storiografia del movimento operaio.
Dopo tanti cortei, rumorosi o silenziosi, allegri o terribilmenti cupi,  un'ultima marcia, silenziosa stavolta, ha messo la parola fine a quella storia cominciata nel 1969. Stavolta erano in quarantamila a sfilare e dopo quel corteo
puntuali, curvi sotto la pioggia, gli operai sono rientrati nelle fabbriche deserte da oltre un mese.
 Ci sono episodi che hanno un fortissimo significato simbolico e la marcia dei quarantamila è uno di quelli. Da allora, sembra che gli operai siano scomparsi,  dall'immaginario collettivo se non dalle fabbriche (anche se un reportage, Operai, scritto qualche anno dopo scritto da Gad Lerner,  e recentemente ripubblicato, li descriveva come La classe che non c'è più).

A dare ancora più forza simbolica a quell'episodio ci sono le immagini.
Da pochi giorni, grazie a Repubblica TV in collaborazione con l'Archivio Nazionale del cinema d'impresa e il Centro storico Fiat, è disponibile on line il filmato originale che i cineoperatori Fiat girarono in quell'occasione.

Sono 14 minuti silenziosi che mostrano l'avvio e lo svolgimento del corteo. Sono immagini che si vedono per la prima volta e che testimoniano, con la loro stessa esistenza, l'importanza che la Fiat attribuiva a quell'operazione.


Metteteli a confronto con alcune descrizioni giornalistiche dei cortei e delle manifestazioni operaie di quelli stessi giorni davanti ai cancelli della Fiat:
...c'è come un aleggiare di festival dell'Unità col profumo delle salamelle che arrostiscono sulla brace, il puzzo un po' acido del vino versato per terra e le note di una canzonetta di Lucio Dalla. Due ragazzi si baciano.
E ancora, in occasione del corteo del 25 settembre:
Una bella ragazza, sui trampoli, indossa, tipo sandwich, una enorme Mole Antonelliana di cartapesta. Arriva davanti allo striscione rosso dei sindacati, ma è costretta a fermarsi: una grossa mano di gomma sintetica, grande come una jeep, l'avvolge, vuol soffocarla. Ma (...) centinaia di manine rosse, fatte di polistirolo (...) riescono a liberarla.
Ma, ancora una volta, meglio delle parole sono le immagini: Piero Perotti, allora operaio alla Fiat, girò con una cinepresa casalinga queste (ed altre) immagini.


Colore contro grigiore.
Disordine contro ordine.
Confusione contro compostezza.

Anche di questi scontri simbolici fu fatta quella lotta, che racchiudeva in sé le tensioni degli anni settanta. E, su questo piano, le immagini ci aiutano a decifrarla, forse più e meglio di quanto non riescano a fare le spiegazioni economiche o l'analisi delle strategie sindacali e padronali.
Soprattutto ci aiutano a capire perché, subito dopo, gli operai, protagonisti di un decennio, sembrarono evaporare.
Certo, è chiaro che ci fu la precisa volontà di chiudere un ciclo di lotte per riprendere il controllo totale dell'impresa, come racconta Cesare Romiti in un breve documentario realizzato da Repubblica Tv (lo potete vedere qui). Ma quelle immagini ci raccontano che, al di là delle strategie d'impresa, veniva ripristinato un'immaginario, il modello del "vero" lavoratore: disciplinato, inquadrato, rispettoso. Anche dell'organizzazione della circolazione stradale: guardate le immagini, chi sfila  rimane sulla corsia di marcia senza invadere quella opposta.

la strategia della paura

Viviamo in un mondo pericoloso, che mette paura.
E la paura ha il suo fascino. Stiamo alla finestra e guardiamo questo mondo pauroso, ipnotizzati, incapaci di distogliere lo sguardo e chiudere quella finestra.
Dopo la discussa puntata di lunedì scorso di Chi l'ha visto, in cui la madre di Sarah Scazzi ha appreso della morte della figlia scomparsa in diretta televisiva (e la trasmissione ha avuto un'impennata di ascolti, arrivando a toccare il 15,29% di share), i dati di una ricerca dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza ci dicono che i telegiornali italiani sono quelli che hanno il tasso più alto di notizie sulla criminalità e sui delitti.
Dunque l'Italia è un paese di criminali? Non più degli altri, dicono le statistiche.
Non è una questione di criminali, è una questione di televisione.
Il sito della Demos & PI, che ha esseguitola ricerca insieme all'Osservatorio di Pavia, scrive:
Serialità e pervasività: sono questi gli elementi che caratterizzano la trattazione dei casi criminali nei Tg italiani, e che ne determinano la specificità a livello europeo.
(qui trovate i dati)
E questo, inevitabilmente, porta ad una trasformazione della percezione della realtà.
In particolare, sembra che non sia tanto l'abbondanza delle notizie sui crimini a modificare la nostra immagine del quotidiano, quanto il fatto che le notizie siano impaginate per gruppi tematici: si parla dell'aggressione di un cane ad un bambino, e il giorno dopo, o forse anche nella trasmissione successiva, ecco che c'è stato un altro caso di aggressione. E l'Italia sembra trasformarsi rapidamente in una terra dove pochi uomini impauriti sono assediati da branchi di cani feroci.
Secondo Ilvo Diamanti, che commentava i dati su Repubblica di ieri, queste notizie finiscono per avere un effetto rassicurante, perché vengono accolte nella tranquillità del nostro salotto, in un ambiente protetto e sicuro: sono cose che comunque succedono agli altri, mai a noi. (se ti interessa l'articolo, fai click qui)
E' un po' l'effetto catartico del thriller, o del film del terrore. Che però può avere effetti non previsti.
A lungo andare, infatti, questo modo di informare potrebbe produrre una sorta di distacco dalla realtà, proprio perché quello che accade lì, nella finestra televisiva, non viene percepito come ciò che accade in casa nostra. Pensate anche alle immagini: non vi sembra che da qualche anno i telegiornali abbiano cominciato a riprendere le scene del crimine con inquadrature che ricordano tanto CSI?
E allo stesso tempo è una strategia informativa che può essere piegata ad un uso politico: vi ricordate l'ondata di delinquenza che invase i telegiornali nei mesi precedenti le scorse elezioni, che in parte si giocarono proprio sul tema della sicurezza? E vi ricordate che, nei mesi successivi, i dati ufficiali mostravano come la delinquenza non fosse in realtà aumentata?

Certo, il confine di questa discussione è sottile e la paranoia complottistica è sempre in agguato. Pensare che esista un progetto della politica per mutare attraverso l'informazione televisiva la percezione della realtà dei cittadini è forse eccessivo.
E allora, forse, è solo televisione.
Ma se è così, allora quei dati dimostrano che esiste un altro modo di fare televisione, che forme diverse di informazione - probabilmente migliori e più equilibrate - sono possibili.

Auguri Radio Tre

Il primo ottobre 1950, alle 21, iniziava a trasmettere il Terzo Programma, che sarebbe poi diventato, dopo la riforma del 1975, Radio Tre. Oggi festeggia sessant'anni: auguri!
Canale culturale per eccellenza, ha saputo reinventarsi pur rimanendo nel solco della tradizione e conquistare un pubblico non altissimo ma fedele, prevalentemente anziano e maschile, diffuso soprattutto nei centri di media densità abitativa, con picchi di ascolto soprattutto la mattina durante Prima pagina e nel pomeriggio con Fahrenheit.

Sessant'anni fa l'intenzione era fare un canale culturale, secondo la classica tripartizione dei compiti della radio che risaliva a Sir John Reith, informare, educare, intrattenere. L'educazione era il compito che spettava al Terzo Programma (cui venne affiancato anche un periodico), e la si intendeva come elevazione culturale: rivolta dunque a tutti e non solo ai già colti, ai già istruiti. Il modello radiofonico che si aveva in mente era quello anglosassone e il modello culturale era quello tradizionale, della cultura classica, umanistica: musica colta (con una moderata apertura al jazz negli anni sessanta), conversazioni, poesia e letture. E tuttavia non era un modello culturale "ingessato", come verrebbe facile pensare oggi, anzi: proponeva ad esempio inedite letture trasversali di figure storiche o sociali  presentate nelle "serate a soggetto" che montavano ecletticamente contributi di vario genere intorno ad uno stesso argomento, da Cristoforo Colombo al Mito greco nella letteratura tedesca. A tentativi di costruire un modo originale di fare cultura divulgativa, si aggiungeva un linguaggio che, dopo le iniziali rigidità, avrebbe saputo assorbire le indicazioni di Carlo Emilio Gadda delle famose norme per la redazione di un testo radiofonico
Naturalmente, di fronte alle trasformazioni del paese e delle forme della comunicazione degli anni sessanta-settanta, il modello proposto dal Terzo Programma non poteva che risultare vecchio, se non stantio. Ci penserà Enzo Forcella a rinnovarlo, dopo il suo arrivo alla direzione nel 1976 (ci resterà dieci anni, fino al 1986) : un linguaggio nuovo e più attento alle trasformazioni sociali, una leva di giovani conduttori  capaci di fornire uno sguardo nuovo sul mondo culturale, la capacità di cogliere i numerosi stimoli che provenivano da una realtà sociale in continuo fermento, idee innovative come la lettura critica delle prime pagine dei giornali (Prima pagina), sono solo alcune delle caratteristiche che la direzione di Forcella introdurrà nella radio. 
Un insegnamento che ancora oggi, certo rinnovato e attualizzato, sembra aleggiare nelle stanze di via Asiago, sotto la direzione di Marino Sinibaldi, storico conduttore di Fahrenheit.

la televisione è un romanzo

Sto leggendo La battuta perfetta, un romanzo di Carlo D'Amicis (Minimum Fax, 2010, pp. 363), uno dei pochi che io conosca che hanno come centro focale la televisione.
Magari ne riparleremo, ma per ora vi segnalo due frasi efficaci, che raccontano bene i nostri anni e alcune caratteristiche della tv:

Avevo mille voci e nessun volto - e finalmente ero io. Tutti quegli anni davanti al teleschermo mi avevano reso il più italiano degli italiani. Capivo cosa volevano dire, e lo dicevo meglio. Al contrario, gli anni trascorsi a origliare dietro al video non erano bastati a mio padre per capire ciò che gli italiani volevano sentire (p. 195)
 Chi parla è Canio Spinato, uno dei due protagonisti, rampante autore/attore della televisione commerciale, figlio di Filippo Spinato, oscuro e moralista funzionario Rai. Nel confronto fra i due, metafore fin troppo evidenti di due modelli televisivi, si consuma il racconto che, a un certo punto, vede Canio confrontarsi con un Berlusconi esordiente imprenditore televisivo. I due studiano una fotografia del futuro Cavaliere che lo ritrae ottimista e sorridente. Ma Canio non è convinto:
"Certo. L'ottimismo è una grande qualità. E assieme alla volontà costituisce un magnifico slogan di partito. Ma ... sì, insomma", dò un colpetto con le nocche sui ritratti, "qua, secondo me di ottimismo ce n'è troppo".
Pensieroso, Berlusconi avvicina e allontana le foto, come se un'improvvisa presbiopia gli impedisse di mettere a fuoco. "Intende dire che, se qualcosa dovesse andare di traverso, il mio sorriso fiducioso diventerebbe la smorfia di un pirla?".
"No, non c'è niente che possa andare veramente di traverso. Il pericolo è virtuale, come la televisione. A differenza della politica, che deve fare, noi dobbiamo soltanto promettere. Promettere benessere, allegria. Ma soprattutto dobbiamo promettere ciò che esiste solo in quanto promessa, e che quindi promettendo realizziamo. Mi consenta, dottore, noi dobbiamo promettere la felicità. (...) Noi dobbiamo comunicare che la felicità è un diritto. Che felice è l'anagramma di facile. Ma nello stesso tempo bisogna ribadire che noi ne siamo i depositari. Che noi paghiamo i costi. Che questo diritto lo difendiamo ogni giorno da un nemico (...) ansioso di imbavagliare la loro legittima gioia".
(pp. 216-217)

una storia diversa...

...o piuttosto un modo diverso di fare storia.
Io l'ho scoperto casualmente (mea culpa, non ero stato attento) e per ora ve lo segnalo: appena si comincia, ci sarà il modo di riparlarne.
Di che si tratta?
il manifesto racconterà in tre fascicoli settimanali (a partire da domani) la storia del risorgimento in un modo molto diverso da quanto è stato fatto finora. Non solo ci saranno approfondimenti tematici di studiosi di quel periodo (un nome su tutti, Marco Meriggi), ma, fuori da ogni retorica e lontano da ogni celebrazione agiografica, alcune vicende saranno raccontate con brevi storie a fumetti. I nomi degli autori - da Diego Cajelli a Roberto Recchioni - sono interessanti e il loro approccio alle storie è sempre originale: vedremo quale sarà il loro approccio alla Storia.  

20 settembre, la breccia di Porta Pia

E' la sera del 20 settembre 1905 e su uno schermo teso davanti alla breccia di Porta Pia ci sono migliaia di persone che assistono con "entusuastiche acclamazioni" e "commossa partecipazione agli episodi che trentacinque anni or sono fecero palpitare i cuori di tutti gli italiani": così scriveva "La Tribuna", commentando la proiezione di quello che è considerato il primo film italiano a soggetto, la Presa di Roma, "speciale ed artistico lavoro" di Filoteo Alberini.



Con i suoi 250 metri, articolati in 7 "quadri", l'accurata ricostruzione degli avvenimenti e degli "scenari riprodotti dal Prof. Cicognani su fotografie del Tuminello eseguite il 21 settembre 1870", la recitazione affidata ad attori di teatro, la precisione e la cura con cui sono riprodotte le uniformi, la veridicità dei gesti e delle azioni militari, l'interazione di spazi reali e simbolici, l'alternanza di riprese in studio e in esterni, La presa di Roma mette subito in chiaro le sue ambizioni. Per le riprese in esterni il Ministero della guerra ha "accordato soldati, cavalleggeri, artiglieri, uniformi ed armi". Nell'atto stesso in cui Alberini e Santoni presentano le credenziali sul tavolo della produzione internazionale attuano un attacco frontale alle convenzioni in uso, e fissano l'indicatore segnaletico per la cinematografia nascente
(G. P. Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 1-2)
che  continuerà ad essere caratterizzata per una forte attenzione alla storia nazionale, anche reinventata.

livore

No, purtroppo non il Gianni, lo splendido personaggio di Corrado Guzzanti. Quello che è trasudato dal mio televisore durante il tg1 delle 13.30 di oggi.
In realtà, erano giorni che avevo intenzione di dire due parole sul successo del telegiornale di Mentana su La7, sul suo boom di ascolti, sulla capacità di Mentana di fare del giornalismo originale sfruttando gli spazi che le altre testate gli lasciano.
Naturalmente la controparte di questo discorso è il TG1 di Minzolini, che invece sembra stia perdendo ascolti e che continua ad essere oggetto di critiche ogni volta che decide di "dare la linea" con un nuovo editoriale (come se la linea non fosse abbastanza chiara dall'impaginazione del giornale e dal confezionamento degli articoli).
Poi scorrono le immagini del TG1 delle 13.30 e tutti i miei piani saltano, almeno per ora. E mi ritrovo a parlare di livore (no, purtroppo: non Gianni).
E' puro livore infatti quello che un servizio spande a piene mani, a metà telegiornale. Oggetto del servizio? la scomparsa del giornale-partito. Accipicchia! un tema da lezione di un master di giornalismo.
E invece, più semplicemente, era un furibondo attacco a la Repubblica, che - secondo il cronista - sta pendendo copie a vantaggio di giornali schierati dalla stessa parte (e le immagini mostravano Il fatto quotidiano) ma anche i giornali della parte avversa (e le immagini inquadravano Libero e Il Giornale). Ma il tema non era la situazione editoriale in Italia: erano gli articoli che ultimamente Repubblica ha dedicato al "caso Minzolini" e, in particolare, al Requiem per il pastone del TG (l'articolo lo trovate qui).
Mi ha incuriosito il fatto che, ad un ascolto distratto, il testo sembrasse scritto dallo stesso Minzolini (purtroppo non mi sono appuntato il nome del giornalista), quasi fosse un editoriale fantasma.
E soprattutto mi incuriosirebbe sapere quanti degli ascoltatori distratti di un sabato qualunque dell'ora di pranzo sanno cos'è un giornale-partito. Da quello che si sentiva sembrava di capire che Repubblica è un giornale che ha un partito. Oppure è un giornale di partito. Tutte cose che, comunque, lasciavano ben intendere che non è un giornale che dice la verità ed è obiettivo: come invece è il TG1, è chiaro.
Faziosità? Quantomeno mancanza di chiarezza espositiva.
Se non, addirittura, mancanza di notizie (qual'era la notizia: che Repubblica è in calo di lettori? che il tg1 è bravo?).
E poi dicono che Mentana vince nella gara degli ascolti. Non è che ci voglia molto...

Bah, facciamoci due risate:

 
Andrea Sangiovanni © Creative Commons 2010 | Plantilla Quo creada por Ciudad Blogger