Joyeux anniversaire Monsieur Daguerre

Stamattina avvio il computer e Google è così gentile da ricordarmi con questa immagine
che oggi ricorre il 224 anniversario della nascita di Louis-Jacques-Mandé Daguerre.
Lo festeggerò insieme a voi in un modo che spero originale, con una piccola anticipazione di un progetto che è in procinto di arrivare a conclusione. Non è la prima volta che accenno a questo (mica tanto) misterioso progetto, e credo proprio che sarà l'ultima.  La prossima volta che ne parlerò, probabilmente, sarà per darne l'annuncio ufficiale.
Per ora non posso che augurarvi buona lettura. (ah, le immagini le ho aggiunte per l'occasione)


...ora, invece, dobbiamo concentrare l’attenzione su un altro strumento di comunicazione che nasce negli anni Trenta dell’Ottocento e si nutre della stessa ambiguità di cui si parlava all’inizio, quella tensione fra la descrizione del reale e la rappresentazione del desiderio che accomuna tutte le immagini, rivelandosi «da subito specchio inconsapevole e inquietante di una nuova sensibilità»[1]: la fotografia.
Benché generalmente l’invenzione della fotografia venga attribuita a Louis-Jacques-Mandé Daguerre, è difficile dire chi ne sia stato l’“inventore”, un po’ perché essa risponde ad un sogno a lungo coltivato dagli uomini, quello di poter riprodurre fedelmente la realtà; un po’ perché gli elementi tecnici e la tecnologia che ne hanno permesso la nascita erano già disponibili e occorreva solo trovare il modo di metterli in relazione fra loro (e infatti in pochi anni si assisterà a molti differenti tentativi di riprodurre la realtà attraverso la luce). In realtà ciò che accade per l’invenzione della fotografia lo vedremo ripetersi con una certa frequenza nella storia dei mass media, soprattutto se si presta attenzione ai suoi aspetti tecnici: infatti spesso risulta difficile stabilire con precisione la paternità di invenzioni che vengono realizzate in un breve arco di tempo ma in luoghi diversi e con il contributo di soggetti differenti. Da un lato, c’è un fenomeno di circolazione delle informazioni scientifiche e di reciproca influenza degli inventori; dall’altro c’è anche, probabilmente, la condivisione di una domanda sociale o di un desiderio diffuso e ancora non soddisfatto: due elementi, in ogni caso, che possono essere considerati un segnale della crescente unificazione dei mercati occidentali[2].
Del resto, questo processo presenta delle vistose eccezioni: alcuni inventori infatti riescono a sperimentare con successo una nuova tecnologia proprio perché sono lontani dai tradizionali circuiti scientifici e tecnici e quindi, non essendone influenzati, utilizzano metodi poco convenzionali. È quanto succede, ad esempio, ad Antoine Hércules Romuald Florence che lavora in una zona remota nella provincia di San Paolo in Brasile e che riesce ad ottenere delle immagini già nel 1832-33: egli chiamerà il suo procedimento per scrivere con la luce, appunto, photograhie (dalle parole greche photos, luce, e graphis, scrittura)[3]. Peraltro anche Joseph Nicéphore Niépce riesce, prima dell’invenzione “ufficiale” della fotografia, ad inventare una forma di “scrittura con la luce” che la ricorda molto e che chiama eliografia: la sua “vista dalla finestra di Gras” del 1827 è una delle prime “fotografie” che si conoscano.
Niépce, del resto, collaborerà con Daguerre a partire dal 1829 il quale, alla sua morte, ne erediterà le ricerche: sarà proprio il dagherrotipo, il procedimento inventato da Daguerre sulla base delle intuizioni di Niépce, ad essere annunciato il 7 gennaio 1839 all’Accademia delle scienze di Francia per poi venire divulgato ufficialmente il 19 agosto dello stesso anno fissando così l’invenzione della fotografia[4]. Negli anni successivi ci saranno molti altri piccoli aggiustamenti al procedimento di Daguerre, da quello misconosciuto di Hippolyte Bayard[5] a quello di William Henry Talbot: costui, in particolare, è stato considerato da alcuni come il vero padre della fotografia moderna perché aveva messo a punto il procedimento negativo-positivo e quindi aveva trovato il modo di duplicare meccanicamente l’immagine fotografica al posto dell’unico esemplare costituito dal dagherrotipo[6].
Più che sull’evoluzione delle tecnologie, tuttavia, qui interessa soprattutto soffermarsi sulla nascita negli anni Quaranta dell’800 di una daguerréotypomanie, per chiamarla col titolo di una litografia di Theodore Maurisset del 1840: una vera e propria mania fotografica per cui
«si potevano intravedere alle finestre, ai primi bagliori del giorno, un grande numero di sperimentatori che si sforzavano, con una sorta di timorosa precauzione, di trasferire su una lastra preparata l’immagine dell’abbaino lì vicino o la prospettiva di una moltitudine di comignoli (…). Di lì a qualche giorno, sulle piazze di Parigi, si videro dagherrotipi puntati verso i principali monumenti»[7].
"Daguerréotypomanie", litografia di Theodore Maurisset (1840)
Il dagherrotipo si diffondeva rapidamente: nel 1849, dieci anni dopo la sua nascita, a Parigi venivano prodotti diecimila dagherrotipi; pochi anni dopo, nel 1853, a New York c’erano «ottantasei studi fotografici specializzati in ritratti, trentasette dei quali sulla sola Broadway» e in tutti gli Stati Uniti erano stati realizzati circa tre milioni di ritratti. A partire dal 1854, poi, la moda del ritratto era sembrata dilagare in modo inarrestabile: in quell’anno infatti veniva inventata la “carta da visita”, un ritratto fotografico di piccolo formato (6x9 cm) di cui al cliente venivano fornite dodici copie per una modica cifra.
Sembrerebbe, insomma, che sin dall’inizio la fotografia sia uno strumento di “massa”: se tuttavia si analizzano le forme del ritratto, che in quegli anni era probabilmente il tipo di fotografia più diffuso, ci si accorge che il suo uso sociale era ancora elitario, e non solo per i costi. Innanzitutto il dagherrotipo - che «era, da un certo punto di vista, il mezzo perfetto per i ritratti» grazie alla qualità dei dettagli che era in grado di riprodurre – era un’immagine unica, non riproducibile, come il più tradizionale ritratto ad olio. In secondo luogo, esso «era un’immagine speculare: non come vediamo noi stessi, ma come ci vedono gli altri, e dunque presentava l’immagine pubblica di una persona privata»: la lunga durata dell’esposizione e, dunque la necessità di mantenere a lungo una posizione, talvolta grazie all’uso di appositi supporti, rendevano ancora più evidente questo aspetto. Infine, «la superficie argentata [del dagherrotipo] era delicatissima e doveva essere protetta, cosicché i dagherrotipi stimolarono la produzione di una vasta gamma di custodie (…) simbolo di apprezzamento per un’immagine irripetibile e (…) del suo mistero»[8]. Del resto, almeno durante la prima metà dell’Ottocento, la fotografia adottava modelli e forme rappresentative dell’arte tradizionale e accademica, rivolgendosi soprattutto ad un pubblico elitario: quando Talbot pubblicò tra il 1844 e il 1846 The Pencil of Nature, il primo libro a stampa che riproduceva delle fotografie[9], scriverà che l’apparecchio fotografico «farà un quadro di tutto ciò che vede»; e commentando l’immagine intitolata La porta aperta aggiungerà che «l’occhio di un pittore si lascia catturare quando le persone comuni non vedono niente di notevole»[10].
 
Sarà solo nella seconda metà del secolo, quando l’evoluzione tecnologica renderà i procedimenti fotografici più economici e permetterà una maggiore diffusione delle fotografie, che inizieranno a nascere dei modelli originali di rappresentazione della realtà che si distanzieranno progressivamente da quelli dell’arte tradizionale, arrivando infine ad influenzarla a loro volta[11].



[1] G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, La Nuova Italia, Milano 2001 p. 84
[2] Sul cambiamento del ruolo degli scienziati nell’800 cfr. le osservazioni di P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit. p. 94
[3] M. W. Marien, Photography: a cultural history, Harry N. Abrams Inc. Publisher, New York, 2002, pp. 7-8. In questo caso il termine “scrittura” è da intendersi in senso letterale perché la maggior parte degli esperimenti di Florence erano rivolti all’invenzione di un sistema per duplicare testi o immagini in assenza di strumenti per la stampa e senza l’uso di una fotocamera
[4] Daguerre e il figlio di Nièpce riceveranno un vitalizio in cambio dell’acquisto del brevetto da parte dello stato francese, che poi lo avrebbe divulgato gratuitamente: lo stato si fece «promotore di questa nuova invenzione» con modalità inusuali. Infatti, come scrive Flichy, «non si tratta di farne un monopolio di Stato ma di “consentire alla società il possesso della scoperta di cui chiede di usufruire nell’interesse generale”»: cfr. P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit., p. 102
[5] Bayard riesce già alla fine degli anni Trenta a mettere a punto un procedimento per fissare le immagini su carta in maniera diretta, all’interno della camera oscura: è famoso il suo Autoritratto come un annegato del 1840, uno dei primi fotomontaggi in cui egli si rappresenta come un individuo spinto al suicidio dall’indifferenza del governo e dell’Accademia delle Scienze, che non avevano valutato adeguatamente la sua invenzione
[6] Ancora due inglesi saranno i protagonisti di altre evoluzioni tecniche: nel 1851 Frederick Scott Archer metterà a punto il procedimento al collodio che, nel 1877, fu soppiantato dalle lastre a gelatina secca, a sua volta derivate dalla lastra a gelatina inventata da Richard Leach Madox nel 1871.
[7] L. Figuier, La Photographie, 3° volume des merveilles de la science (1888), ristampa Marseille, La fitte Reprints, 1983, p. 44, citato in P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit.
[8] Tutte le citazioni sono tratte da G. Clarke, La fotografia. Una storia culturale e visuale, Einaudi, Torino 2009, p. 115
[9] O meglio dei calotipi (dal greco calòs, bello) per usare il termine che lo stesso Talbot aveva coniato indicare le immagini ottenute con il procedimento da lui inventato
[10] Le due frasi sono citate in G. Clarke, La fotografia…, cit., rispettivamente p. 39 e p. 40: i corsivi sono miei. Questo aspetto è particolarmente interessante perché alcuni considerano invece Talbot come «il primo artista formato dalla fotografia e il primo artista che si servì della fotografia»: cfr. L. J. Schaff Schaaf, voce Talbot, William Henry Fox, in R. Lenman (a cura di) Dizionario della fotografia, edizione italiana a cura di G. D’Autilia, vol. II, Einaudi, Torino, 2008, p. 1054
[11] Nel suo classico saggio sulla fotografia, Susan Sontag ha ben delineato l’ambiguità di questo processo: «i primi apparecchi fotografici, fabbricati in Francia e Inghilterra poco dopo il 1840, potevano essere adoperati soltanto da inventori e da maniaci. E poiché allora non esistevano fotografi professionisti, non potevano esistere neanche i dilettanti e la fotografia non aveva una funzione sociale ben precisa; era un’attività inutile, vale a dire artistica, anche se con poche pretese di essere considerata arte. Fu solo quando si industrializzò che acquisì una sua autonomia artistica. Se l’industrializzazione permise le applicazioni sociali del lavoro del fotografo, la reazione a queste applicazioni rafforzò la consapevolezza della fotografia come arte». L’ultimo passaggio di questo complesso percorso si ha con la fotografia di massa, la cui reale diffusione deve essere fatta risalite alla seconda metà del XX secolo (il saggio viene pubblicato in edizione originale nel 1978): allora la fotografia perde progressivamente la sua connotazione artistica per diventare «soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere». Cfr. S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società, Einaudi, Torino 1992, pp. 7-8.

That's all, folks! (parte seconda)


Nel giorno in cui viene varato il governo Monti, che come personale politico e stile si mostra lontanissmo dal modello incarnato dall'ex presidente del consiglio, come promesso torno a parlare del libro "Berlusconismo, analisi di un sistema di potere" (Laterza, 2011), dedicando stavolta una maggiore attenzione ad un aspetto secondo me centrale: la trasformazione culturale che questo modello ha portato nella società italiana.
E' uno degli argomenti che attraversano sotto pelle tutti, o quasi tutti, i saggi del libro: ed è anche uno dei "luoghi comuni" con cui si descrive il fenomeno. Dunque, è particolarmente difficile analizzarlo. Anche perché il campo di indagine non potrebbe essere più vasto: dall'assottigliarsi del confine pubblico-privato al ruolo delle televisioni, dalle trasformazioni del linguaggio al ruolo della stampa popolare, dal dilagare di un modello di politica pop ad un ritorno alla centralità del corpo nella scena pubblica.
Anche in questo caso, non siamo di fronte ad un fenomeno che si manifesta all'improvviso, dal nulla: o meglio, sfruttando il "grande nulla" che il terremoto di "Mani pulite" aveva lasciato nella scena politica italiana.
In questo senso, l'approccio di Giovanni Gozzini è particolarmente intrigante.
Nel saggio intitolato "Siamo proprio noi", propone una tesi che affronta di petto la questione:
la baby boom generation, concepita tra la fine della guerra e il 1955, inietta nella società italiana un'overdose di individualismo che tra Sessantotto e anni di piombo si esprime nelle forme tradizionali della politica, per poi allontanarsene e trovare sbocco in altri campi (p. 15)
Uno di questi sarebbe proprio ciò che chiamiamo berlusconismo, un "campo di forza" costruitosi grazie al ruolo centrale che le televisioni commerciali hanno assunto nel nostro paese dagli anni '80 e nel sottile rimodellamento dell'etica privata - prima - e pubblica - poi - che esse hanno indotto nella società.
Nella televisione che si afferma a partire dagli anni '80 si assiste a due processi: da un lato viene a compimento quel lungo processo che porta alla ribalta (televisiva) l'"uomo comune", un percorso che inizia da "Lascia o raddoppia?" e tocca il suo culmine con il "Grande Fratello". Dall'altro si compie la "rivoluzione individualista": il magico occhio della tv - che dagli anni '80 conquista progressivamente tutti gli ambienti della casa - sembra mostrare la possibilità concreta di realizzare una società senza classi,
la nuova terra delle opportunità, il nuovo elisir di immortalità gratuito e a disposizione di tutti.
E' una delle forme che assume il cosiddetto riflusso, che poi - sostiene Gozzini - non è altro che un "flusso" verso  una società diversa. Una società in cui la politica non ha più un ruolo di primo piano:
Anzi, il modo di guardare la televisione come mezzo per il soddisfacimento di bisogni immediati (attraverso la pubblicità e/o l'immedesimazione nel mondo dello spettacolo) plasma il modo di guardare alle istituzioni come strumento da usare per la propria vita: se non servono, meglio starne lontani (p. 28).
E' attraverso questo "basso continuo" che passerebbe una vera e propria "mutazione antropologica" (per dirla con espressione pasoliniana) in cui si affermano modelli nuovi, fra i quali finiranno per primeggiare maleducazione, estetica trash ecc. Insomma, quella egemonia sottoculturale di cui ha parlato Massimo Panarari (volete saperne di più? qui c'è il link alla presentazione del libro, qui una recensione).
Ipotesi interessante, come dicevo. Solo che non mi convince del tutto, anche se funziona perfettamente nella logica di breve respiro di un intervento in un convegno. La cosa che mi lascia un po' perplesso è proprio il ruolo centrale che viene attribuito alla televisione, per quanto essa diventi effettivamente il medium dominante dalla fine degli anni settanta, finendo per invadere progressivamente tutte le stanze della casa e per cacciare in un angolo - reale e metaforico - gli altri strumenti di comunicazione. Solo che la sua evoluzione non è indipendente dallo sviluppo del linguaggio interno del medium, dal rapporto con gli altri media e dalla trasformazione sociale (e politica) complessiva, che nell'analisi di Gozzini sembra diventare semplicemente lo sfondo. Credo che l'autore abbia affrontato lo stesso tema in modo più disteso e analitico in un testo che devo ancora leggere (è questo: lo vedete se fate clik qui): vi saprò dire. Per quanto riguarda il berlusconismo, mi pare che le promesse della sua analisi non siano pienamente soddisfatte.
Più originale e interessante - direi anche più efficace sotto il profilo euristico - mi sembra invece il contributo di Enrica Asquer, una delle curatrici del volume, che analizza la costruzione di un "populismo culturale" negli anni del berlusconismo attraverso lo spoglio della rivista "Chi".
Perché è originale? perché la cultura popolare di massa è fatta anche da questo tipo di stampa, che negli anni più recenti ha iniziato a vivere in rapporto simbiotico con la televisione. E perché il tipo di modelli che essa propone, assorbendoli dalla televisione ma levandoli dall'effimero, dal momentaneo di cui vive la comunicazione televisiva per trasferirli sulla ben più dilatata comunicazione giornalistica, si riflettono poi anche in altri campi di costruzione del gusto e del comportamento collettivo: dalla moda alle pratiche del vivere quotidiano. Non avete mai avuto, assistendo ad una discussione fra condomini, la sensazione di essere in un programma di Maria De Filippi?
Asquer dimostra che negli anni si è scivolati lentamente e inesorabilmente dal popolare al popolaresco, fino ad arrivare al populista (è proprio questo il titolo dell'intervento: Popolare, popolaresco, populista): e questo piano inclinato del gusto e dell'estetica ha finito per essere funzionale ad un progetto politico. Così, esattamente come accade nella categoria politica, nel populismo culturale
si rimuovono apparentemente, ma sapientemente, le mediazioni e le distanze tra chi detta i codici estetici (ed etici) e chi li applica, rivendicando strumentalmente il valore della "gente" e, in essa, una forma di capitale che si identifica con la mera vita.
E tuttavia, esattamente come nel populismo,
la vicinanza col "popolo" (...) è tanto fittizia quanto ostentata come autentica (p. 117).

Forse a qualcuno potrà suonare eccessivo parlare di modello culturale egemonico, eppure è indubitabile che questo si è cercato di fare: l'ex ministro della pubblica istruzione Mariastella Gelmini, per esempio, lo ha detto chiaramente quando ha affermato di voler portare il berlusconismo nei templi della "cultura di sinistra" (se fate clik qui,  andate all'articolo de "Il Giornale" che ce lo racconta). Ne parla Gabriele Turi in un intervento intitolato "I 'think-tank' della destra", dove si analizzano i tentativi "della destra di elaborare una proposta culturale funzionale ai suoi obiettivi politici" (p. 30): è uno sforzo che probabilmente non è stato così efficace come quello esperito attraverso la cultura popolare, ma penso che sarebbe sbagliato leggerli separatamente. Alcune retoriche (penso a quella sul "merito", declinata in forma di puro individualismo, quasi di darwinismo sociale) hanno attraversato entrambi i campi, quello della cultura "alta" e quello della cultura "popolare", andando a formare una nuova stratificazione nella cultura diffusa. Solo il tempo potrà dirci quanto persistente.

That's all, folks!

Nelle ore in cui Berlusconi sembra uscire di scena, rubo il titolo (e la copertina, qui a lato) all'Economist per parlare di un libro che tenta una analisi del berlusconismo.
Attenzione: non di Berlusconi ma del modello politico e culturale che ha segnato gli ultimi anni del paese. E che non è detto non continuerà a segnare anche i prossimi.
Il libro è uscito un po' di tempo fa e si intitola Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere (Laterza 2011) ed è curato da Paul Ginsborg e Enrica Asquer. Si tratta di una raccolta di saggi presentati durante un convegno organizzato a Firenze dal 15 al 17 ottobre del 2010: promotori ne erano la rivista "Passato e Presente" e l'associazione Libertà e Giustizia.
Il libro contiene molte cose interessanti insieme a qualcosa che non funziona molto, come sempre accade nelle raccolte di saggi e interventi.
Quello che è meno riuscito, a mio parere, sono gli interventi di Norma Rangeri e Marco Travaglio: il taglio giornalistico dei loro testi non gli consente quell'approfondimento che invece, negli altri, è perlomeno tentato. Probabilmente sono stati interventi parlati molto efficaci, ma nella scrittura hanno perso molta della loro forza. Anche se Rangeri conia un'espressione che merita di essere ricordata per la sua icasticità ed efficacia: parlando della televisione e della sua forza simbolica osserva che
mentre nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, la tv era in piazza, era l'agorà, (...) oggi il format (...) è (...) la casa chiusa.
Da Samarcanda e Milano, Italia al Grande Fratello: e da una domanda di politica alla sua assenza. Sintesi e metafora perfetta.

La cosa più efficace dell'intero volume mi è sembrata la sua impostazione, il focus del discorso: parlare, cioè, del berlusconismo, e non di colui che gli ha dato il nome. Il sottotitolo, in realtà, potrebbe apparire fuorviante, perché l'espressione "sistema di potere" sembrerebbe rimandare soprattutto all'idea di un modello politico: e invece i curatori lo intendono nella sua accezione più ampia, con una forte sottolineatura anche delle componenti culturali e simboliche che hanno innervato le forme organizzative della politica e l'etica pubblica dell'intero paese. Bellissimo, in questo senso, il saggio di Zagrebelsky sulla neolingua dell'età berlusconiana che mostra con lampante evidenza come la trasformazione del lessico sottintenda un preciso assetto ideologico e culturale e richiama l'attenzione sulla linguaggio che usiamo, sulla
forza conformatrice del senso comune, che opera anche senza che ce ne accorgiamo. Il linguaggio acriticamente accettato esercita qualcosa come una dittatura simbolica. (p. 234)
Per parlare di tutti i saggi finirei per scrivere un post lunghissimo che anche i mei 15 lettori si stancherebbero presto di leggere. Farò così, allora. Alcuni dei temi cercherò di riprenderli in post successivi (in particolare quelli sulla costruzione del sistema culturale e mediatico), mentre qui mi limiterò ad una citazione che elenca i principali elementi costitutivi del berlusconismo che, come viene più volte indicato nel testo, non nasce dal nulla ma si incista su un sistema di potere fragile e su modelli culturali deboli:
la natura patrimoniale del sistema di potere di Berlusconi; le peculiarità del discorso culturale che ha caratterizzato il suo controllo dei media; la visione di genere che informa le sue azioni e riflessioni; la relazione strumentale che ha instaurato con la Chiesa cattolica e la connivenza col suo sistema di potere; il modo in cui il populismo, nel mondo del berlusconismo, porta con facilità al disprezzo delle istituzioni e all'assenza di qualsivoglia etica pubblica; da ultimo, il modo in cui il berlusconismo ha diviso il paese. (Introduzione, p. VIII)
Ci torneremo presto su, allora. Per il momento, se vi interessa approfondire oltre quel poco che ho detto, qui trovate la pagina del catalogo Laterza, con alcune recensioni (la metto per questo motivo, non per fare pubblicità alla casa editrice o per spingervi a comprare il libro, sia chiaro), mentre qui trovate una lunga recensione curata da Luca Michelini (qui il suo sito/blog) e pubblicata su Micromega.

la rivoluzione è cominciata

Forse come titolo è un po' esagerato, ma è quanto ha detto Santoro all'inizio di Servizio Pubblico, giovedì sera, il 3.



In fondo, un po' di ragione ce l'aveva perché i risultati del suo esordio con il programma multipiattaforma e mandato in onda su un circuito di televisioni locali, su Sky e in streaming sono sorprendenti. Ne hanno parlato un po' tutti: dai dati disponibili il suo ascolto è stato stimato in circa tre milioni di persone, per la sola piattaforma televisiva. Con diverse centinaia di migliaia di utenti connessi su internet.
Il che ovviamente non è poco, anzi.
Ci sono state diverse analisi, più o meno raffinate: se volete godervi un po' di grafici, eccoveli, presi da tv-blog (qui c'è il link ad una delle loro analisi).

A me sembra che quello più interessante sia l'ultimo, che mostra il confronto tra due programmi pensati per la tv generalista ma andati in onda su una piattaforma satellitare. La prima impressione è che programmi di questo tipo siano visti soprattutto (se non solo) dal pubblico di appassionati. Lo zoccolo duro, insomma.
Ed è forse su questo che bisognerebbe riflettere prima di parlare di "rivoluzione".
Perché la sensazione è che Santoro sia riuscito nel suo exploit soprattutto grazie a due fattori: il grande interesse che la sua vicenda professionale/personale aveva suscitato e lo zoccolo duro dei suoi fans, diciamo così. Cosa che sembra confermata dal risultato del sondaggio che hanno fatto durante la trasmissione e che ha conseguito percentuali bulgare.
Perché dal punto di vista del linguaggio televisivo, non mi sembra che la prima puntata di "Servizio pubblico" sia stata proprio una "rivoluzione": sembrava di vedere una puntata di Anno Zero, con un po' meno servizi, senza il contraddittorio obbligato in studio, e con qualche piccolo (e, direi, tutto sommato facile) scoop (voglio dire: Lavitola ha una tale voglia di parlare che si farebbe intervistare pure da me).
E poi c'era quello che in Rai avevafatto venire il mal di pancia a molti, la ricostruzione in forma di fiction delle telefonate intercettate: forse, la parte migliore.

Insomma, era un normale programma televisivo, anche un po' lungo e noioso per certi tratti.

Certo, si potrebbe dire che in fondo è questa la vera rivoluzione: riuscire a fare un normale programma di approfondimento giornalistico. E non sarebbe sbagliato, visto il pessimo livello della nostra tv, da questo punto di vista.

Però, la sensazione che ho è che la forza dell'organizzazione che Santoro e la sua squadra sono riusciti a mettere in piedi non sia stata sfruttata al meglio. Io mi sarei aspettato un programma confezionato in modo tale da essere rapidamente trasformato nelle forme virali e frammentarie del linguaggio di youtube e dei social network, mentre mi sa che la lunghissima tirata di Travaglio non diventerà la clip più cliccata della settimana.
In ogni caso, sarà interessante seguire come la cosa evolverà. E se la stessa formula di autoproduzione possa essere messa in atto da altri big della tv, come lo stesso Santoro a un certo punto ha fatto intendere.
Se succedesse sarebbe certo interessante, però non so quanto sarebbe una reale rivoluzione televisiva.
Forse lo diventerebbe se simili ascolti venissero raggiunti da nomi e volti nuovi e sconosciuti, che riuscissero ad imporsi grazie alla rete delle emittenti locali, l'appoggio della piattaforma satellitare, la galassia dei social network e delle web-tv. Ma mi sembra veramente solo un telesogno

prove di servizio pubblico

Fra poche ore sapremo com'è andata. Dopo essersene andato dalla Rai, Michele Santoro ci riprova con un esperimento che aveva già fatto quando era ancora nel servizio pubblico. Ricordate? Si chiamava
e andò in onda il 25 marzo 2010. Qui trovate la pagina di wikipedia per rinfrescarvi la memoria.
Oggi il programma è più ambizioso, perché Michele è ormai fuori dal servizio pubblico. E prova a farsene uno tutto suo: il progetto infatti si chiama
e seguendo il link trovate il sito dedicato, da cui potrete anche vedere il programma.

Il progetto è interessante, e molto se ne è parlato. E moltissimo se ne parlerà, se avrà successo.
Ed è possibile che lo abbia, il successo.
Perché la Rai, quello che dovrebbe essere l'unico servizio pubblico, ha fatto una politica aziendale suicida. Non solo per le ben note questioni legate ai rinnovi contrattuali (Santoro, Dandini ecc.), ma anche per le scelte che riguardano le piattaforme alternative. E per non parlare poi dello stato dell'informazione.
Perché Santoro è un nome dal forte richiamo.
Ma soprattutto perché la televisione sta cambiando.
Il Grande Fratello ha un clamoroso crollo di ascolti.
Talent che sembravano funzionare fino alla scorsa stagione, languono nell'inedia.
La tv satellitare avvia una politica editoriale da tv generalista.
E sempre più persone, soprattutto nelle fasce di pubblico più giovane, usano una molteplicità di piattaforme per seguire quello che più gli piace.
Bisognerà capire come questo nuovo modello di visione si possa adattare ad un programma che rimane pur sempre televisivo. Infatti non è sufficiente pensare ad una fruizione su molti e diversi canali per parlare di una nuova televisione: bisognerà vedere se e come cambierà il linguaggio. E magari ne riparleremo domani.
 
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