Joyeux anniversaire Monsieur Daguerre

Stamattina avvio il computer e Google è così gentile da ricordarmi con questa immagine
che oggi ricorre il 224 anniversario della nascita di Louis-Jacques-Mandé Daguerre.
Lo festeggerò insieme a voi in un modo che spero originale, con una piccola anticipazione di un progetto che è in procinto di arrivare a conclusione. Non è la prima volta che accenno a questo (mica tanto) misterioso progetto, e credo proprio che sarà l'ultima.  La prossima volta che ne parlerò, probabilmente, sarà per darne l'annuncio ufficiale.
Per ora non posso che augurarvi buona lettura. (ah, le immagini le ho aggiunte per l'occasione)


...ora, invece, dobbiamo concentrare l’attenzione su un altro strumento di comunicazione che nasce negli anni Trenta dell’Ottocento e si nutre della stessa ambiguità di cui si parlava all’inizio, quella tensione fra la descrizione del reale e la rappresentazione del desiderio che accomuna tutte le immagini, rivelandosi «da subito specchio inconsapevole e inquietante di una nuova sensibilità»[1]: la fotografia.
Benché generalmente l’invenzione della fotografia venga attribuita a Louis-Jacques-Mandé Daguerre, è difficile dire chi ne sia stato l’“inventore”, un po’ perché essa risponde ad un sogno a lungo coltivato dagli uomini, quello di poter riprodurre fedelmente la realtà; un po’ perché gli elementi tecnici e la tecnologia che ne hanno permesso la nascita erano già disponibili e occorreva solo trovare il modo di metterli in relazione fra loro (e infatti in pochi anni si assisterà a molti differenti tentativi di riprodurre la realtà attraverso la luce). In realtà ciò che accade per l’invenzione della fotografia lo vedremo ripetersi con una certa frequenza nella storia dei mass media, soprattutto se si presta attenzione ai suoi aspetti tecnici: infatti spesso risulta difficile stabilire con precisione la paternità di invenzioni che vengono realizzate in un breve arco di tempo ma in luoghi diversi e con il contributo di soggetti differenti. Da un lato, c’è un fenomeno di circolazione delle informazioni scientifiche e di reciproca influenza degli inventori; dall’altro c’è anche, probabilmente, la condivisione di una domanda sociale o di un desiderio diffuso e ancora non soddisfatto: due elementi, in ogni caso, che possono essere considerati un segnale della crescente unificazione dei mercati occidentali[2].
Del resto, questo processo presenta delle vistose eccezioni: alcuni inventori infatti riescono a sperimentare con successo una nuova tecnologia proprio perché sono lontani dai tradizionali circuiti scientifici e tecnici e quindi, non essendone influenzati, utilizzano metodi poco convenzionali. È quanto succede, ad esempio, ad Antoine Hércules Romuald Florence che lavora in una zona remota nella provincia di San Paolo in Brasile e che riesce ad ottenere delle immagini già nel 1832-33: egli chiamerà il suo procedimento per scrivere con la luce, appunto, photograhie (dalle parole greche photos, luce, e graphis, scrittura)[3]. Peraltro anche Joseph Nicéphore Niépce riesce, prima dell’invenzione “ufficiale” della fotografia, ad inventare una forma di “scrittura con la luce” che la ricorda molto e che chiama eliografia: la sua “vista dalla finestra di Gras” del 1827 è una delle prime “fotografie” che si conoscano.
Niépce, del resto, collaborerà con Daguerre a partire dal 1829 il quale, alla sua morte, ne erediterà le ricerche: sarà proprio il dagherrotipo, il procedimento inventato da Daguerre sulla base delle intuizioni di Niépce, ad essere annunciato il 7 gennaio 1839 all’Accademia delle scienze di Francia per poi venire divulgato ufficialmente il 19 agosto dello stesso anno fissando così l’invenzione della fotografia[4]. Negli anni successivi ci saranno molti altri piccoli aggiustamenti al procedimento di Daguerre, da quello misconosciuto di Hippolyte Bayard[5] a quello di William Henry Talbot: costui, in particolare, è stato considerato da alcuni come il vero padre della fotografia moderna perché aveva messo a punto il procedimento negativo-positivo e quindi aveva trovato il modo di duplicare meccanicamente l’immagine fotografica al posto dell’unico esemplare costituito dal dagherrotipo[6].
Più che sull’evoluzione delle tecnologie, tuttavia, qui interessa soprattutto soffermarsi sulla nascita negli anni Quaranta dell’800 di una daguerréotypomanie, per chiamarla col titolo di una litografia di Theodore Maurisset del 1840: una vera e propria mania fotografica per cui
«si potevano intravedere alle finestre, ai primi bagliori del giorno, un grande numero di sperimentatori che si sforzavano, con una sorta di timorosa precauzione, di trasferire su una lastra preparata l’immagine dell’abbaino lì vicino o la prospettiva di una moltitudine di comignoli (…). Di lì a qualche giorno, sulle piazze di Parigi, si videro dagherrotipi puntati verso i principali monumenti»[7].
"Daguerréotypomanie", litografia di Theodore Maurisset (1840)
Il dagherrotipo si diffondeva rapidamente: nel 1849, dieci anni dopo la sua nascita, a Parigi venivano prodotti diecimila dagherrotipi; pochi anni dopo, nel 1853, a New York c’erano «ottantasei studi fotografici specializzati in ritratti, trentasette dei quali sulla sola Broadway» e in tutti gli Stati Uniti erano stati realizzati circa tre milioni di ritratti. A partire dal 1854, poi, la moda del ritratto era sembrata dilagare in modo inarrestabile: in quell’anno infatti veniva inventata la “carta da visita”, un ritratto fotografico di piccolo formato (6x9 cm) di cui al cliente venivano fornite dodici copie per una modica cifra.
Sembrerebbe, insomma, che sin dall’inizio la fotografia sia uno strumento di “massa”: se tuttavia si analizzano le forme del ritratto, che in quegli anni era probabilmente il tipo di fotografia più diffuso, ci si accorge che il suo uso sociale era ancora elitario, e non solo per i costi. Innanzitutto il dagherrotipo - che «era, da un certo punto di vista, il mezzo perfetto per i ritratti» grazie alla qualità dei dettagli che era in grado di riprodurre – era un’immagine unica, non riproducibile, come il più tradizionale ritratto ad olio. In secondo luogo, esso «era un’immagine speculare: non come vediamo noi stessi, ma come ci vedono gli altri, e dunque presentava l’immagine pubblica di una persona privata»: la lunga durata dell’esposizione e, dunque la necessità di mantenere a lungo una posizione, talvolta grazie all’uso di appositi supporti, rendevano ancora più evidente questo aspetto. Infine, «la superficie argentata [del dagherrotipo] era delicatissima e doveva essere protetta, cosicché i dagherrotipi stimolarono la produzione di una vasta gamma di custodie (…) simbolo di apprezzamento per un’immagine irripetibile e (…) del suo mistero»[8]. Del resto, almeno durante la prima metà dell’Ottocento, la fotografia adottava modelli e forme rappresentative dell’arte tradizionale e accademica, rivolgendosi soprattutto ad un pubblico elitario: quando Talbot pubblicò tra il 1844 e il 1846 The Pencil of Nature, il primo libro a stampa che riproduceva delle fotografie[9], scriverà che l’apparecchio fotografico «farà un quadro di tutto ciò che vede»; e commentando l’immagine intitolata La porta aperta aggiungerà che «l’occhio di un pittore si lascia catturare quando le persone comuni non vedono niente di notevole»[10].
 
Sarà solo nella seconda metà del secolo, quando l’evoluzione tecnologica renderà i procedimenti fotografici più economici e permetterà una maggiore diffusione delle fotografie, che inizieranno a nascere dei modelli originali di rappresentazione della realtà che si distanzieranno progressivamente da quelli dell’arte tradizionale, arrivando infine ad influenzarla a loro volta[11].



[1] G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, La Nuova Italia, Milano 2001 p. 84
[2] Sul cambiamento del ruolo degli scienziati nell’800 cfr. le osservazioni di P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit. p. 94
[3] M. W. Marien, Photography: a cultural history, Harry N. Abrams Inc. Publisher, New York, 2002, pp. 7-8. In questo caso il termine “scrittura” è da intendersi in senso letterale perché la maggior parte degli esperimenti di Florence erano rivolti all’invenzione di un sistema per duplicare testi o immagini in assenza di strumenti per la stampa e senza l’uso di una fotocamera
[4] Daguerre e il figlio di Nièpce riceveranno un vitalizio in cambio dell’acquisto del brevetto da parte dello stato francese, che poi lo avrebbe divulgato gratuitamente: lo stato si fece «promotore di questa nuova invenzione» con modalità inusuali. Infatti, come scrive Flichy, «non si tratta di farne un monopolio di Stato ma di “consentire alla società il possesso della scoperta di cui chiede di usufruire nell’interesse generale”»: cfr. P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit., p. 102
[5] Bayard riesce già alla fine degli anni Trenta a mettere a punto un procedimento per fissare le immagini su carta in maniera diretta, all’interno della camera oscura: è famoso il suo Autoritratto come un annegato del 1840, uno dei primi fotomontaggi in cui egli si rappresenta come un individuo spinto al suicidio dall’indifferenza del governo e dell’Accademia delle Scienze, che non avevano valutato adeguatamente la sua invenzione
[6] Ancora due inglesi saranno i protagonisti di altre evoluzioni tecniche: nel 1851 Frederick Scott Archer metterà a punto il procedimento al collodio che, nel 1877, fu soppiantato dalle lastre a gelatina secca, a sua volta derivate dalla lastra a gelatina inventata da Richard Leach Madox nel 1871.
[7] L. Figuier, La Photographie, 3° volume des merveilles de la science (1888), ristampa Marseille, La fitte Reprints, 1983, p. 44, citato in P. Flichy, Storia della comunicazione moderna…, cit.
[8] Tutte le citazioni sono tratte da G. Clarke, La fotografia. Una storia culturale e visuale, Einaudi, Torino 2009, p. 115
[9] O meglio dei calotipi (dal greco calòs, bello) per usare il termine che lo stesso Talbot aveva coniato indicare le immagini ottenute con il procedimento da lui inventato
[10] Le due frasi sono citate in G. Clarke, La fotografia…, cit., rispettivamente p. 39 e p. 40: i corsivi sono miei. Questo aspetto è particolarmente interessante perché alcuni considerano invece Talbot come «il primo artista formato dalla fotografia e il primo artista che si servì della fotografia»: cfr. L. J. Schaff Schaaf, voce Talbot, William Henry Fox, in R. Lenman (a cura di) Dizionario della fotografia, edizione italiana a cura di G. D’Autilia, vol. II, Einaudi, Torino, 2008, p. 1054
[11] Nel suo classico saggio sulla fotografia, Susan Sontag ha ben delineato l’ambiguità di questo processo: «i primi apparecchi fotografici, fabbricati in Francia e Inghilterra poco dopo il 1840, potevano essere adoperati soltanto da inventori e da maniaci. E poiché allora non esistevano fotografi professionisti, non potevano esistere neanche i dilettanti e la fotografia non aveva una funzione sociale ben precisa; era un’attività inutile, vale a dire artistica, anche se con poche pretese di essere considerata arte. Fu solo quando si industrializzò che acquisì una sua autonomia artistica. Se l’industrializzazione permise le applicazioni sociali del lavoro del fotografo, la reazione a queste applicazioni rafforzò la consapevolezza della fotografia come arte». L’ultimo passaggio di questo complesso percorso si ha con la fotografia di massa, la cui reale diffusione deve essere fatta risalite alla seconda metà del XX secolo (il saggio viene pubblicato in edizione originale nel 1978): allora la fotografia perde progressivamente la sua connotazione artistica per diventare «soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere». Cfr. S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società, Einaudi, Torino 1992, pp. 7-8.

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