Quando è nato il cinema?

Quando è nato il cinema? Chi l'ha inventato?
La risposta è qui sotto. In una forma che vi sorprenderà.



Il video me l'ha suggerito Vanessa Roghi, una collega, un'autrice di documentari storici per la televisione, ma soprattutto una mente aperta e curiosa. Grazie Vanessa!

16 ottobre 1943

La sera del 15 ottobre, Orfeo Mucci apprende dal centro militare clandestino che si prepara la retata e corre ad avvertire: "da qui dovete spari', dovete anna' via tutti. Villa Borghese, Rocca di Papa, conventi, dove ve pare, dovete anna' via tutti. Perché stanotte ve vengono a ammazza'. Dice: 'No, ma gli abbiamo dato mezzo quintale d'oro...'".
"Però quella notte c'era un silenzio - c'era sempre silenzio, c'era il coprifuoco, i mezzi non c'erano - 'sto silenzio e gli scarponi avanti e indietro, 'sto silenzio e gli scarponi avanti e indietro. Sentiamo i primi rumori e ci mettiamo a vedere e vedevamo porta' via gli ebrei dal portone vicino" (Settimia Spizzichino). "Venne un parente del marito di mia sorella, ce disse andate via, scappate perché stanno a porta' via gli ebrei. Ma io marito, io stavo male dato che ero incinta, mi diceva stai tranquilla che adesso vado a vedere, porteranno via l'òmini... e invece quando arrivò a Monte Savello vide i camion e vide i tedeschi che portavano via bambini, donne. Arrivò a casa mezzo matto: corri, sbrigati, vestiti, scappiamo, scappiamo. Aveva visto tutto 'sto macello lì a Portico d'Ottavia" (Fortunata Tedesco). "Allora noi ciavevamo una casa che era grandissima, era de quattro stanze, enormi poi, una bellissima casa, era. Però c'erano due stanze una dentro l'altra; ci nascondiamo dentro l'ultima stanza e lasciamo tutto aperto in maniera che se entrano vedono [che non c'è nessuno]. Mia sorella, quella più piccola, chissà che le disse il cervello, ebbe paura, scappò. Uscì da casa, è scesa giù il portone pe' scappa' de casa, lei scendeva e i tedeschi salivano, lei se li è visti davanti, è tornata indietro e cià fatto prende' a tutti" (Settimia Spizzichino). La retata si estende a tutta la città, dall'alba al pomeriggio inoltrato. Furono prese 1259 persone (363 uomini, 689 donne, 207 bambini); 237, riconosciute non ebree, furono rilasciate. Dei 1022 deportati, solo quindici tornarono; unica donna, Settimia Spizzichino.
Questo il racconto di quello che accadde 69 anni fa.
La penna, mirabile, è quella di Alessandro Portelli.
Il libro, fondamentale, è L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (Donzelli, Roma 1999).

E questa è una delle pietre d'inciampo (stolpersteine) che ricordano il 16 ottobre 1943.




legami d'acciaio

Quest'estate mi è capitato, per ragioni di lavoro, di rileggere due libri di qualche tempo fa, La dismissione di Ermanno Rea (2002) e Acciaio di Silvia Avallone (2010).
Sono due libri diversissimi.
Per qualità e stile.
Per le storie che raccontano.
Per la complessità di lingua e struttura.
Per ambizione.
Ma sono anche due libri che hanno più di un punto di contatto.
Raccontano entrambi la fine dei mondi industriali del Novecento.
Il primo viene pubblicato negli anni in cui il secondo è ambientato.
E tutti e due hanno ispirato dei film: dalla dismissione è nato La stella che non c'è di Gianni Amelio (2006). Acciaio ha trovato una trasposizione cinematografica nell'omonimo film di Stefano Mordini,  che è stato presentato a Venezia ma non è ancora arrivato nelle sale.

Una (ri)lettura a distanza così ravvicinata mi ha fatto notare qualcosa che sento nell'aria anche in questi giorni di profonda crisi industriale mentre si parla dell'Ilva di Taranto e dell'Alcoa sarda.

Ma prima, forse, devo dirvi in due parole di che parlano questi libri.

La dismissione racconta la storia del lento smantellamento dell'Ilva di Bagnoli dal punto di vista di un operaio specializzato, Vincenzo Buonocore. Il nome è inventato ("nome di fantasia, se non vi dispiace", dice più o meno Ermanno Rea) ed è talmente carico di simboli che, quando Gianni Amelio scriverà La stella che non c'è, cambierà nome al personaggio (in realtà lo stesso personaggio del libro) chiamandolo Vincenzo Buonavolontà.
E in questi nomi-simbolo è racchiusa tutta la differenza tra il libro e il film. Il primo è legato al passato, ad una storia che si sta sgretolando: racconta in qualche modo le ragioni dell'anima di uomini smarriti dalla scomparsa del loro lavoro e del loro mondo. Il secondo racconta invece la volenterosa ricerca di un futuro, in un mondo altro e lontano - la Cina -, dove poter ricominciare a partire da un frammento di passato - un meccanismo della linea di produzione che è stata venduta ai cinesi, ma senza il quale essa funzionerebbe male e che Buonavolontà vuole consegnare ai nuovi proprietari. Quasi, si potrebbe dire, l'ottimismo della volontà, che tuttavia si sgretolerà nell'incontro con il "nuovo" mondo.

Ma sto divagando: scusate.


Acciaio, dunque, si diceva. E' la storia di due adolescenti, legate da un'amicizia che confina con l'amore, sullo sfondo di una Piombino industriale che, per usare l'espressione dell'autrice, somiglia ad un luna park abbandonato. E' una storia che lascia in bocca un sapore di ruggine e nel naso l'odore dell'acido delle batterie abbandonate sul ciglio di strade polverose, se mi perdonate il lirismo.

Nella dismissione il mondo industriale che finisce è il perno della narrazione.
In Acciaio il mondo industriale agonizzante ma ancora vivo è solo lo sfondo del racconto: quasi la giustificazione di un universo sociale e umano che appare regolato da leggi immutabili e impietose.

Coscienza del lavoro da una parte. Quasi nemmeno la coscienza di sé dall'altra.

E' come se il mondo di cui Rea raccontava la scomparsa fosse invece sopravvissuto, ma non fosse altro che un paesaggio di macerie sociali e culturali descritto da Avallone.

E cos'è sparito nel trapasso dall'uno all'altro? Forse l'elemento principale potrebbe essere l'etica del lavoro, per usare un'espressione desueta, quasi arcaica, che ormai sembra quasi priva di senso. O meglio, il senso di identità generato dal lavoro: che è consapevolezza, coscienza, passione, ossessione in qualche caso. Identità che oggi - ci assicurano - è riposta altrove, anche se io non saprei dire dove.

letture: Du service public à la télé-réalité

Ri-eccomi qua. E scusatemi per il lungo silenzio.
Oggi voglio parlarvi brevemente del libro che vedete qui sotto:

Il titolo - riuscite a leggerlo? - è Du service public à la télé-réalité. Une histoire culturelle des télévisions européennes 1950-2010 e l'autore è Jérome Bourdon, che insegna all'Università di Tel-Aviv.
Un libro denso, complesso, interessantissimo che tenta di rispondere ad una domanda: possiamo parlare di una televisione europea?
Lo sapete: la televisione è un medium domestico e questa parola deve essere intesa con un doppio significato. E' un medium domestico perché invoca e organizza la domesticità rivolgendosi al "pubblico da casa". Ma è "domestico" anche nel senso di nazionale: la televisione è un medium, cioè, la cui storia è strettamente legata ai confini nazionali, alle politiche di costruzione della nazione (sul piano simbolico perlomeno) e alla costituzione di un pubblico nazionale, che rispecchi cioè tutti gli strati sociali e i punti di vista della società nazionale. E' un aspetto del medium televisione che in Europa viene rinforzato dal modello di broadcasting adottato in questa parte di mondo, il servizio pubblico.
Eppure, già nel 1950 - dunque ancora prima che in Italia iniziasse il servizio nazionale regolare della Rai - esisteva una Unione Europea di Radiodiffusione, che poi avrebbe dato vita nel 1961 a Eurovision News.
Qualcuno di voi magari ricorderà anche i programmi che andavano in onda in "eurovisione"
e quel curioso programma che andava in onda generalmente d'estate (o almeno io lo ricordo così), i "giochi senza frontiere" (come non sapete di che si tratta: andate qui e guardatevi una puntata che La storia siamo noi ha dedicato al gioco).
Sono tutti esempi dell'esistenza di una collaborazione tra le diverse televisioni nazionali, che però non hanno dato vita ad una vera e propria televisione europea, segno della debolezza intrinseca della "sopranazione" Europa.
 Eppure Bourdon dimostra come si possa parlare di una storia europea della televisione sotto il profilo culturale: le fasi tecnologiche e istituzionali delle molte televisioni europee sono piuttosto differenziate ma non profondamente diverse come si potrebbe immaginare. Così come ci sono molti elementi in comune dal punto di vista dei programmi e dei flussi creativi.
Certo, il quadro è complesso e frastagliato: fare storia europea della televisione significa affrontare un doppio percorso sovrapposto, l'evoluzione delle televisioni nazionali e - allo stesso tempo - l'evolvere di una televisione (intesa come dispositivo narrativo, come contenuti più che come istituzione formale) transnazionale europea. Quindi occorre confrontarsi con le storie nazionali, che è il punto di vista adottato in genere dalla storia dei media, e in particolare dalla storia della televisione, con tutte le difficoltà linguistiche e di ricerca delle fonti che questo tipo di ricerca comporta. Però, allo stesso tempo, occorre misurarsi con la storia europea: ovvero con le divisioni tra un'Europa del sud e una Europa del nord, che - per quanto possa sembrare incredibile - si riflettono nelle storie delle televisioni nazionali. 
E - soprattutto - occorre confrontarsi con ciò che viene da fuori, con quella che Bourdon chiama la americanizzazione della televisione europea, un processo che si sviluppa in tre fasi: invisibilità, dall'inizio delle trasmissioni agli anni '80; trionfo, negli anni '80 e '90; e americanizzazione intima, la definitiva conquista dell'anima si potrebbe dire, a partire dal 2000.

Nonostante la complessità del quadro e delle tematiche, Bourdon riesce a fornire una visione d'insieme in cui tutto si tiene, dalle politiche alle scelte culturali, dalle somiglianze alle eccezioni (come il modello inglese, per certi versi anticipatore delle evoluzioni europee).
E, soprattutto, riesce a spostare in avanti il limite degli studi sulla televisione che occorrerà considerare sempre di più come un'industria culturale transnazionale, in cui l'approccio comparativo diventa sempre più ineludibile.
 
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