La terra si ammala ma non muore - Viaggio in Abruzzo (1)

 Vista la prima puntata del Viaggio in Italia che Rai Storia sta dedicando all'Abruzzo?
 Cominciamo allora questa specie di viaggio parallelo, per approfondire qualche aspetto di quello che è appena andato in onda. Mi piacerebbe raccontarvi qualche retroscena, qualche inside joke che potrebbe esservi sfuggito. Condividere con voi qualche episodica riflessione, anche sulla natura dei film di famiglia.

 Un'immagine diffusa dell'Abruzzo lo vuole regione isolata, chiusa tra le sue montagne, gelosa delle sue tradizioni e impermeabile alla modernità: terra "forte e gentile", di pastori e donne silenziose, lupi e briganti. Un immaginario un po' datato, magari, visto che i lupi sono quasi a rischio di estinzione (per non parlare dei briganti). Ma tant'è.
La puntata di ieri nasceva proprio da questi frammenti dell'immaginario collettivo, sedimentatisi e inspessitisi in luoghi comuni, e li ha fatti incontrare (e scontrare) con le rappresentazioni private dei film di famiglia.
Il problema che abbiamo avuto, in questo caso, è stata la selezione dei materiali: forse ce ne sarebbero stati abbastanza da fare una puntata da un'ora, solo con i film di famiglia. Del resto, la gran parte dei filmini dell'Archivio della memoria di Teramo è degli anni Sessanta e Settanta, gli anni, cioè, della modernizzazione dell'Italia e di quella, leggermente ritardata ma impetuosa, dell'Abruzzo. Insomma, Quasi se giustamente contestualizzata, quasi ogni sequenza conservata nell'Archivio potrebbe essere usata per raccontare questa trasformazione.
La scelta, allora, non poteva che essere diversa: occorreva partire dallo scarto fra l'immaginario pubblico e quello privato. 
E allora, quanto c'è di quest'Abruzzo immaginario nei filmini familiari?
Beh, molte delle immagini che abbiamo visto sembrano raccontare proprio quell'Abruzzo lì, una regione povera, di montagne, pastori, contadini, donne con il fazzuolo in testa.
Sembrano, però.
Perché lo sguardo non è analitico, documentario, tanto meno di denuncia sociale. Piuttosto è uno sguardo complice, di chi si specchia in una realtà che riconosce come propria.
Avete visto, certo, le immagini del 1947 delle campagne intorno a Mosciano Sant'Angelo (TE): immagini di povertà, in cui c'è un contrasto stridente fra i "cafoni" e i "signori", contrasto fatto di abiti e atteggiamenti. Lì sembrerebbe esserci quasi una funzione di denuncia, o, quantomeno, la voglia di documentare una diversa realtà. E invece non è proprio così, perché quelle immagini erano state girate come un "monumento" per un emigrante arricchitosi e tornato in patria: e dunque il contrasto è cercato, quasi a sottolineare la condizione di partenza che ormai si è lasciata alle spalle.
Accanto a quelle, poi, avete visto le immagini della campagna: quei fotogrammi che sembrano usciti da un quadro naif, con una donna che conduce un carro stipato di fieno nella luce infuocata di un tramonto. Sono sequenze del 1968, che poi è l'anno in cui l'Abruzzo si apre al mondo, con le autostrade che lo collegano alla capitale.
Segno di una regione arcaica che finalmente si apre alla modernità?
Sì, certo, se abbiamo presente il contesto. Ma non solo, perché l'obiettivo che riprende quella e altre scene lo fa con naturalezza, direi quasi con orgoglio nel mostrare quel duro, ma quotidiano, familiare, mestiere dei campi.
Quello che si coglie - e che abbiamo cercato di raccontare - è come la modernità arrivi tardi, ma rapida e travolgente.
E allora non sono tanto le macchine per la trebbiatura che colpiscono: dalla prospettiva di chi gira quei film nelle campagne del teramano, la meccanizzazione del lavoro contadino è solo una benedizione, accolta però con ineluttabilità, con naturalezza.
Il cambiamento, la grande trasformazione degli anni '60 e '70 la si coglie invece nelle facce, negli sguardi, nella minore familiarità dei giovani con i mezzi e con i gesti del lavoro agricolo che erano soliti ai loro padri.
Il cambiamento, la modernità, paradossalmente, è proprio in quella piccola cinepresa che riprende il paesaggio agreste e i lavori contadini nelle contrade: lo sguardo del cineamatore è affettuoso, addirittura arcadico. Non sa che sta filmando un mondo destinato a trasformarsi impetuosamente nel giro di pochi anni, le cui prime avvisaglie si scorgono nelle macchine nuove parcheggiate nelle aie, nelle case costruite con i blocchi di cemento e non più con la pietra.
Piccoli segni che, nel racconto pubblico della televisione di stato, diventano la scoperta dei giacimenti di Pollutri o la costruzione dei laboratori di fisica nucleare del Gran Sasso. Cose di cui, nei film privati, girati, per così dire, ad altezza d'uomo, non c'è traccia. Perché quello che interessa ai cineamatori, nella maggior parte dei casi, è la propria, personale vicenda, o al massimo la trasformazione del territorio familiare, quello che si conosce come le proprie tasche: ed è lì che - quasi inaspettata intrusione - arriva la trasformazione dei lavori della Cassa per il Mezzogiorno. Oppure, quel soffermarsi sui grandi alberghi che vengono costruiti nelle località sciistiche montane, segno, per loro, che l'Abruzzo stava definitivamente cambiando e che noi oggi percepiamo come l'inizio di un inaccetabile consumo del territorio.
E allora, ecco ancora una volta quel gioco tra racconto pubblico, sguardi privati e memoria storica che rende questo viaggio così affascinante.

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