In scomparsa di Silvio Lanaro

Ho saputo da poco che non molte ore fa è scomparso Silvio Lanaro.
Verrà il tempo delle commemorazioni, dei necrologi sui quotidiani, dei numeri speciali delle riviste dedicati alla sua memoria.
E verrà, per chi ne sarà capace, anche il tempo della riflessione sull'importanza del suo lavoro per la storia italiana.
Qui, ora, per me è solo il tempo del ricordo minimo, come spesso accade quando si apprendono notizie del genere.
Potrei dire infatti che Silvio Lanaro era l'autore di una Storia dell'Italia repubblicana che a lungo è stata - e che tuttora è, nonostante molti altri studi - una delle più importanti e influenti ricostruzioni delle vicende recenti del nostro paese. Oppure che il suo Nazione e lavoro, è uno dei saggi più illuminanti sulla cultura borghese del nostro paese.
Eppure non è quello che mi è venuto alla mente sapendo della sua scomparsa.
A me è venuto in mente l'incipit di un libro forse minore ma che andrebbe riscoperto: Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi. Un libro che lo stesso Lanaro scriveva nella premessa di non sapere bene che cosa fosse, e che forse era solo
il diario intellettuale di uno studioso che da oltre trent'anni prova smarrimento di fronte alla pagina bianca ogni volta che ha diligentemente termnato di raccogliere materiali. Il mio è un problema di scrittura, insomma. Ma scrittura non vuole dire solo efficacia comunicativa, rigore di argomentazione, rapporto corretto con le fonti, eleganza stilistica: vuol dire anche, e soprattutto, confronto con le tecniche adoperate da altri, con le testimonianze che difficilmente si lasciano sopraffare, con tutti i generi letterari improntati alla narrazione di accadimenti reali, con l'angoscioso dilemma dei silenzi, delle rimozioni e dei tabù imposti da una qualsiasi censura collettiva, con la mutevolezza e l'aleatorietà di un lessico mutuato spesso da altre discipline. Si prenda dunque il libro per quello che è: un vagabondaggio nelle regioni in cui si affolla il passato che vive, spero non troppo arbitrario e non troppo incoerente.
Ecco: in questa premessa ad un testo complesso, ricco di cultura e di riflessione, ricercato nel lessico, ma anche pieno di ironia, c'è il mestiere di storico che io ho spesso riletto nelle pagine di Lanaro (e che ho avuto il piacere di sentire dalla sua voce quando mi è capitato di incontrarlo). Ma, accanto allo studioso, c'è anche l'uomo, di una statura così elevata da non rinnegare quell'umano horror vacui che prova chiunque abbia a che fare con la scrittura (e che spingeva lui alla ricercatezza formale, mentre conduce noi, spesso più di quanto non dovrebbe essere lecito attendersi, all'approssimazione e allo sperpero delle parole). E di una ironia così corrosiva che gli consente di chiedersi, in un altro passaggio dello stesso libro:
Ma allora, alla fin fine, che cosa distingue la figura dello storico? Chi può legittimamente fregiarsi di questo titolo? Quali sono i requisiti che deve possedere? (...) E soprattutto - poiché fra coloro che esercitano questa attività dalle frontiere mobili esistono più dilettanti che fra i pittori, i letterati o i musicisti - una pretesa "scienza" è solo sapiente artigianato o addirittura banale bricolage?
Se volete una risposta a questa domanda riprendete in mano i suoi libri: la troverete là, in ogni singola riga.


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