Un uomo, un'avventura


A un certo punto passai dalle pagine di Topolino, Geppo e Braccio di Ferro (i miei fumetti preferiti quand'ero bambino, e non necessariamente in quest'ordine) a quelle di Tex.
Le guardavo soltanto: ero troppo piccolo per leggere le storie. Ma quei grandi spazi, quelle cavalcate solitarie, quei canyon scavati nella roccia, e soprattutto quei suoni - bang! - mi lasciavano senza fiato: fantasticavo per ore su quei panorami, su quei volti duri, sulle sparatorie. 
Il bianco e nero non era un problema. Il colore ce lo mettevo io. Con la fantasia, quasi sempre. Ma qualche volta anche con i pennarelli carioca.
Però quelle storie dovevano essere in bianco e nero: era un mondo adulto e quelli erano i suoi colori.
Tex era in casa perché lo leggeva mio padre, ritrovando sulla carta la passione per il western che immagino lo avesse nutrito da ragazzo: mi sembrava che in quelle storie scorresse una corrente silenziosa di complicità tra me e lui.

Sono alcune delle cose che mi sono venute in mente quando ieri ho saputo questo

E così non credo che si possa salutare Sergio Bonelli senza parlare dal modo in cui le sue storie hanno formato il mio (ma anche il nostro) immaginario.
Le storie di Tex che leggevo da bambino, in realtà, erano probabilmente del padre di Sergio, Gian Luigi, che aveva inventato il personaggio e lo scriveva dal 1948.


Fra parentesi: che emozione quando da un rigattiere trovai per caso il primo numero di Tex in formato striscia. Lo comprai subito. Chissà dov'è, ora.




Erano storie che guardavo con rispetto e ammirazione, ma - come dire - un po' da lontano. Non riuscivano a coinvolgermi: evidentemente non stuzzicavano il mio immaginario.
Poi un giorno scoprii Zagor in cui ritrovai l'avventura, l'esotico, quel grido che mi ricordava tanto Tarzan, un costume sgargiante, molto poco adatto alla vita nella giungla, ma così forte ai miei occhi di ragazzino. E poi, volete mettere il fascino di una casa nella palude? E gli scienziati pazzi? gli extraterresti? i vampiri, addirittura?
Zagor era scritto da Guido Nolitta, pseudonimo di Sergio Bonelli, ed era completamente diverso da Tex. Così come lo era Mister No, un altro personaggio "di confine", al limite fra generi diversi ma, soprattutto, con un carattere complesso, spesso preda di dubbi, di rimorsi: quasi un antieroe. Non era il "mio" eroe, ma rappresenta bene la cifra narrativa di Sergio Bonelli e la capacità di una casa editrice tradizionale di evolvere, pur restando fedele a se stessa.

E poi, quando avevo 13 e 17 anni, sono venuti altri personaggi, Martin Mystère e Dylan Dog, che intercettavano lo spirito del tempo e che, in misura diversa, sono stati "miei". Sarebbe troppo lungo, ora, raccontarli, descrivere come evolvevano seguendo o anticipando la cultura popolare di quegli anni. Ma per me, allora, quegli albi erano Sergio Bonelli.

Di lui, da allora in avanti, mi è capitato di leggere solo i messaggi che ogni tanto scriveva per i suoi lettori, presentando le novità della casa editrice, tessendo i fili di un rapporto che non si indeboliva col tempo, ma anzi continuava ad evolvere.

Sergio Bonelli e la sua casa editrice rappresentano bene quell'artigianalità industriale (o quell'industria artigianale) che è caratteristica della cultura popolare italiana: una forza nel nostro asfittico panorama che, nonostante alcuni limiti, continua a proporre novità, cercando formule editoriali nuove per combattere una crisi che è sempre strisciante.Ora, immagino, sarà il turno di una nuova generazione.
Ma spero che la strada dell'avventura sia ancora lunga. E sono convinto che Sergio abbia solo accelerato il passo per vedere che cosa c'è un po' più avanti.

è andata così

Nel pomeriggio abbiamo provato.
 
Quando si è fatto scuro, lo spettacolo è cominciato.
Ed è cominciato anche a piovere.
Però alla fine è andata.
Se vuoi sapere come, vai qui.

la notte dei ricercatori

Mettiamo subito in chiaro una cosa.
L'idea che i ricercatori escano dai loro laboratori, dalle stanze delle biblioteche, dagli archivi, si alzino dalle scrivanie e se ne vadano in piazza per raccontare il loro lavoro e la loro passione non è brutta. Anzi.

Però a me viene subito in mente un'immagine come questa.
Fiammelle danzanti nella notte più scura, incapaci di rischiararla.
E temo che di questi tempi nell'espressione "la notte dei ricercatori" l'accento possa cadere più facilmente sulla notte che sui ricercatori.

E però anche una sola fiammella può servire a rendere meno buia la notte e a trovare nuove strade.
Così ci sarò anch'io il prossimo 23 settembre.
Mi troverete a Teramo, in Piazza Martiri, sotto il gazebo di Scienze della Comunicazione.

Come potete vedere dalla locandina qui accanto non starò lì solo la sera.
E probabilmente non starò sempre sotto al gazebo. Magari farò un salto alla postazione di Radiofrequenza.
E andrò a sentire qualche discussione interessante.
Però mi troverete senz'altro anche lì, per raccontarvi che cosa significa fare ricerca oggi fra storia e mass media. E per farvi vedere alcuni dei modi in cui questa ricerca si può declinare. Per esempio potremo parlare insieme di questo progetto, oppure di quest'altro di cui vi avevo già accennato qui.

E, insomma: io ci sarò, e voi?

coincidenze e mappe dell'immaginario

Talvolta quando studio, scrivo, faccio ricerca, mi capita di imbattermi in coincidenze che sembrano attivare collegamenti nascosti e arrivare quasi a delineare una delle molte possibili mappe dell'immaginario.
E' una bella sensazione: come intravedere qualcosa in lontananza, sfocato e dai contorni indefiniti. Non lo vedi nemmeno bene, però è qualcosa, lo sai, e ti spinge ad andare avanti.

Mi piace raccontarvene una.

Tutto comincia da una frase di Eric J. Hobsbawm che, nel Secolo breve, scrive più o meno che la seconda guerra mondiale, ascoltata attraverso le onde della radio, diventa per un'intera generazione una lezione di geografia planetaria.
Questa frase mi solletica un ricordo quasi sopito. Ci penso un po' e alla fine mi viene in mente una copertina che Norman Rockwell dipinge per il Saturday Evening Post del 29 aprile 1944: questa.
Si chiama "Armchair General" e sembra descrivere perfettamente quanto scriverà Hobsbawm. Chissà se anche lui ce l'aveva nel proprio serbatoio dell'immaginario?
La cosa si chiude lì.
Poi, nel romanzo che sto leggendo in questi giorni, ecco che il protagonista, Joe Kavalier, si arruola e finisce a fare il radiotecnico in una base antartica e
ascoltava con la sua potente Marconi multiband CSR 9A, tutto quello che le tre antenne, alte venti metri, riuscivano a captare dal cielo a tutte le ore del giorno, modulazioni d'ampiezza, modulazioni di frequenza, onde corte, radioamatori. Era una specie di pesca aerea, si gettava la lenza e si stava a vedere che cosa abboccava e per quanto tempo si riusciva ad andare avanti: un tango che arrivava da La Plata, austere esegesi bibliche in una lingua africana, un inning e mezzo di una partita tra i Red Sox e i White Sox, una soap opera brasiliana, due radioamatori solitari nel Nebraska e nel Suriname, che con un tono di voce monotono di scambiavano notizie sui loro cani. (...) Ma, soprattutto, seguiva le notizie sulla guerra. A seconda dell'ora, dell'inclinazione del pianeta, dell'angolazione del sole, dei raggi cosmici, dell'aurora australe, della ionosfera, riusciva ad arrivare ogni giorno dappertutto, ascoltava tra i diciotto e i trentasei diversi notiziari da ogni parte del globo, ma come quasi tutti in tutto il mondo, preferiva la BBC. L'invasione dell'Europa si andava estendendo e lui ne seguiva il processo irregolare ma costante con l'aiuto di una carta geografica che aveva appeso alla parete della baracca, e sulla quale infilava dei piccoli segnali colorati per indicare le vittorie e le sconfitte.
Ma non sono lo stesso personaggio e la stessa situazione ritratti da Rockwell, solo un po' più drammatici? Anche Michel Chabon aveva in mente quell'illustrazione? oppure gli era rimasta in testa la definizione di Hobsbawm, come è successo a me?
Coincidenze, appunto. Solo coincidenze.
Che poi, però, si moltiplicano: così leggendo un altro libro, Il popolo bambino di Antonio Gibelli, sui modi in cui vengono irregimentati i fanciulli tra la prima guerra mondiale e Salò, a un certo punto mi capita tra le mani un altro brano, ancora una volta letterario.
Alla guerra d'Africa, noi ragazzi fummo preparati con le figurine nelle bustine di piccoli rombi di liquerizia e che raffiguravano, a colori, chessò, i generali Bottego e Galliano, il cardinale Massaia, il colonnelli Toselli e De Cristoforis... cominciammo in tal modo a fare conoscenza con Dogali, Axum, Macallé, Adua: con ascari, dubat, nachil, bulukbasci, sciumbasci e pure con Menelik, la regina Taitù...
Ecco allora che la lezione di geografia non corre più sulle onde della radio ma è un'illustrazione, sia pure in piccolo e su carta povera e con puri e unici scopi pubblicitari. Una figurina come questa:
Che però non è della fine dell'800 ma del 1936, ed è relativa alla seconda serie della trasmissione radiofonica "I quattro moschettieri". E nel 1935 c'era stata l'aggressione all'Etiopia, e gli italiani erano tornati ancora in Africa. E quelli a casa  stavano di nuovo seguendo la propria lezione di geografia alla radio.

Coincidenze, appunto. Solo coincidenze.

Ma non si sta lentamente costruendo una piccola mappa dell'immaginario? una mappa misteriosa che non si sa se porterà ad un tesoro ma che fa tanto venire voglia di esplorarla?

p.s
per chi è curioso, i libri che ho citato sono
Michel Chabon, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay
Sharo Gambino, Fischia il sasso

ancora un altro 2 agosto

"La nube di fumo nascose la stazione e fece buio attorno.
Buio sulla città.
All'esplosione seguì un silenzio innaturale di morte.
La vita si fermò per un istante e per tutti.
Poi per alcuni riprese, ma fu in un incubo. Per altri non tornò.
Non tornò per ottantacinque persone".

Quel 2 agosto di ieri, oggi lo voglio ricordare così. Con alcune note su un libro dove ci sono:

"Un colonnello dei carabinieri, una sociologa senza lavoro, un archeologo e un ex agente dei servizi di sicurezza di Francia: quattro storie indipendenti e che fino a quel momento avevano seguito strade diverse, quattro vite che per caso si erano sfiorate, confluirono in un'unica storia e in un'unica vita.
Il calore dell'esplosione le fuse e le avviò verso un unico crogiolo".

Il libro è "Strage" di Loriano Macchiavelli e queste righe tratte da p. 80 ne sono un'ottima introduzione.
E' stato ripubblicato lo scorso anno da Einaudi per la collana Stile libero ma era già uscito il 28 maggio 1990 per la Rizzoli e l'autore era un certo Jules Quicher. Che poi è anche uno dei protagonisti del romanzo.
E già questa è una storia da raccontare.
Jules Quicher era lo pseudonimo con cui Macchiavelli avrebbe dovuto firmare tre romanzi per la Rizzoli con
"l'impegno [di] raccontare, in forma di romanzo, storie di un'Italia sconosciuta ai più, ma destinate a lasciare il segno nel futuro del paese"
come scrive lo stesso Macchiavelli.
Già la scelta di uno pseudonimo straniero ci fa capire che erano altri anni: uno scrittore italiano, allora, non era credibile come autore di romanzi di genere, in particolare di questo genere, a cavallo tra la spy story e il thriller fantapolitico.
Ma soprattutto erano anni in cui il passato era ancora troppo presente, col suo carico di dolori e di misteri. Infatti uno degli inquisiti per la strage di Bologna si sentì diffamato per essere stato citato nel romanzo e denunciò il libro.
(Per la cronaca,  il denunciante sarebbe stato riconosciuto colpevole dal processo di primo grado ma poi assolto con sentenza definitiva.)
Il tribunale di Milano ordinò il sequestro delle copie del libro, e la casa editrice provvide a ritirarlo dalle librerie. Era il 3 giugno 1990: erano passati solo sette giorni dalla sua uscita. Ne sarebbero passati altri venti prima di poterlo ritrovare sugli scaffali.
Un effetto collaterale della decisione del tribunale di Milano era stato la rivelazione del vero nome dell'autore, Loriano Macchiavelli appunto (dalle cui note introduttive - "Breve storia, a uso del lettore, di questo romanzo" - ho preso queste informazioni e la citazione).

E così veniamo al libro, finalmente.
Macchiavelli è un solido narratore. Potremmo quasi definirlo uno dei padri del "giallo all'italiana", in particolare per le sue storie che hanno come protagonista "Sarti Antonio". Negli ultimi anni forma una coppia di buon successo con Francesco Guccini: i loro romanzi, dopo aver raccontato l'emigrazione, il '68, gli echi delle stragi del dopoguerra, si sono fermati ad osservare l'Italia dall'Appennino tosco-emiliano mostrandoci come anche un luogo appartato e apparentemente immobile possa essere come il vetrino su cui un patologo studia il prolliferare di un bacillo infettivo.
Ma soprattutto Loriano Macchiavelli ha una di quelle qualità che, secondo me, permettono al noir di essere uno dei generi più efficaci per raccontare le trasformazioni di una società: è un attento osservatore dei comportamenti minuti, delle sottili alterazioni della quotidianità, dei lenti slittamenti dei confini sociali tra ciò che si può fare e ciò che non si deve, tra il lecito e l'illecito, il normale e l'anormale, il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. Leggetevi "Che cos'è accaduto alla signora perbene", per dirne uno, e capirete.
Ecco, in questo libro, purtroppo, questa capacità di osservazione, di critica implicita, io non ce l'ho trovata, se non a tratti. Forse è il genere che non si adatta allo scrittore: reinventare la realtà in forma di romanzo di complotto probabilmente non è nelle sue corde, nella sua capacità di penetrare e restituire il quotidiano. E infatti solo quando torna su quelle rotte ci consegna pagine belle e buone intuizioni.

Questo non vuol dire che il romanzo non sia divertente, ben inteso.
Anzi, la dinamica del complotto, confina così tanto con la realtà, che la denuncia che lo aveva costretto a ritirare il libro venne a cadere perché - uso le sue parole -

"l'autore (il sottoscritto) non era punibile in quanto aveva semplicemente esercitato il diritto di cronaca e di critica, emanazioni dell'articolo 21 della Costituzione che sancisce il diritto di libertà di stampa e informazione. Un diritto-dovere - chiosa Macchiavelli, e io sottoscrivo - che, ancor oggi, continua a essere messo in discussione da chi ha altri interessi che la libertà di stampa e l'informazione".
Alcune intuizioni del libro, poi, sono particolarmente divertenti, così come alcuni personaggi sono molto ben delineati e intriganti: il plot appassionante, talvolta, sembra addirittura più credibile dell'incredibile - e per molti versi ancora inspiegabile - realtà.

Quello che forse mi è mancato nella lettura è proprio quello slittamento della realtà che quella tragedia ha significato: non ho percepito in quelle pagine il senso di un "prima" e di un "dopo", che non coinvolge tanto gli eventi, la storia, quanto le persone; ho avvertito come una freddezza della fantasia che mi è sembrata contrastare duramente con il calor bianco di quegli eventi, della realtà, appunto.
Tutte cose di cui l'autore è terribilmente consapevole, come ci ricorda la poesia di Roberto Roversi che introduce alla lettura

Bologna 2 agosto ore 10.25
senza un fiato di vento il cielo ha buttato
un grido tremendo
un sole nero corre per le strade
io voglio provare i miei sentimenti come su una lastra di fuoco

Roberto Roversi, Notizia

Oh, se volete saperne di più e avere un parere diverso, potete leggervi qui la recensione di Valerio Evangelisti (non so se mi spiego) e qui un'altra che sottolinea l'importanza civile di questo libro, come del resto fa Libero Mancuso in una breve introduzione al libro.

Se poi siete curiosi di sentire come ne parla lo stesso Loriano Macchiavelli, potete guardarvi questo video (a partire dal minuto 7, all'incirca)



l'uomo che immaginò il futuro

Glieli vogliamo fare gli auguri a quest'uomo?
Come chi è? E' Mister Herbert Marshall McLuhan. Lo studioso di letteratura che ha guardato nel suo futuro e ha inventato quei concetti con cui ancora oggi continuiamo a cercare di spiegarci il nostro presente.
Oggi avrebbe compiuto cento anni.
 Ancora oggi la sua capacità profetica ci stupisce se rileggiamo alcuni passaggi dei suoi scritti, collocandoli nel loro tempo. Scriveva cose come questa, nel 1964:

«Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi»

E' un brano tratto da "Gli strumenti del comunicare": non sembra forse parlare di oggi?

Solo che questa sua capacità, allo stesso tempo di analisi e di proiezione nel futuro, ha finito per essere condensata in slogan perfetti, apparentemente autoesplicanti, pur nella loro sintesi. Così essi sono rapidamente entrati a far parte di un lessico comune e sono stati talmente tante volte ripetuti, fuori dal loro contesto e con un senso travisato rispetto a quello originale, da diventare un luogo comune.
Villaggio globale.
Il medium è il messaggio.
Cose così.

E a tutti quelli che dicono "villaggio globale" viene in mente "omologazione", quando invece Mister McLuhan scriveva, ad esempio,

«La radio provoca un’accelerazione dell’informazione che causa anche un’accelerazione di altri media. Restringe il mondo alle dimensioni di un villaggio e crea un insaziabile gusto paesano per i pettegolezzi, le voci e gli attacchi personali. Ma non omogeneizza i diversi quartieri del villaggio»

E' sempre "Gli strumenti del comunicare", 1964.

Ecco, allora, visto che oggi tutti ne parleranno cercando di spiegarci il suo pensiero, io preferisco ricordarlo semplicemente così, con una scena indimenticabile di un film indimenticabile:



Tanti auguri, Herbert Marshall McLuhan.

Letture: Saltare il muro

Mahmoud è palestinese, ha ventidue anni, lavora nella drogheria della famiglia e ama disegnare.

Maximilen ha ventisei anni, è francese, e disegna in modo professionale.
Dal loro incontro è nato questo libro, un reportage disegnato sulla vita di Mahmoud dentro il muro e della sua voglia di saltarlo. Lo ha pubblicato 001 editore di Torino (e se volete sapere di più della casa editrice, andate qui).



E' un argomento difficile, quello scelto da Maximilien Le Roy, l'autore del libro (fate clik qui per sapere qualcosa di più su di lui). E' difficile parlare della vita dei palestinesi nei campi profughi, all'interno del muro. E' difficile non farsi prendere la mano dalla retorica. Difficile rimanere equilibrati. Difficile dare voce ad un conflitto dove occupanti ed occupati sembrano essere entrambi ugualmente  prigionieri.


Però non è un tema nuovo: anzi, è proprio su questo tema che, perlomeno in Italia, ci siamo accorti che esisteva qualcosa che potevamo chiamare graphic journalism (per saperne di più andate qui e soprattutto qui). Ce lo ha fatto capire Joe Sacco con il suo Palestine (ne vedete una tavola qui a fianco).


Solo che Maximilien ha scelto un'altra strada: non ha messo in scena se stesso (come ha fatto Sacco e come fanno molti altri), ma ha messo in scena Mahmoud, che aveva conosciuto durante un corso di disegno tenuto in Palestina.
Così la storia è un racconto in prima persona, un flusso di coscienza per parole e immagini che descrivono una vita prigioniera, dei muri e dei reticolati politici, ma anche sociali e religiosi.
E le parole di Mahmoud ci accompagnano nel difficile equilibrio quotidiano tra una vita prigioniera e il richiamo del terrorismo. 
Leggere questo libro diventa così un esercizio di ascolto per capire le ragioni delle persone, laddove quelle della politica sembrano ormai essersi perse.
 
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