Nella zona rossa con Diego Cajelli

la copertina del numero di marzo di Dampyr
In questi giorni è in edicola un numero di Dampyr, testata della casa editrice Bonelli, ambientata a L'Aquila. La notizia non ve la sto certo dando io, visto la risonanza che ha avuto sulla stampa nazionale (per esempio qui) e locale (per esempio qui e qui).
E tuttavia mi sembra che questa scelta porti definitivamente il terremoto de L'Aquila nell'immaginario collettivo: una decisione importante dunque, per quanto - come ci tiene a sottolineare in ogni occasione possibile lo sceneggiatore della storia, Diego Cajelli - l'albo non è un esempio di graphic journalism. A me, in realtà, questo non sembra un limite, anzi: è proprio l'essere diventata un luogo dell'immaginario - di un immaginario molto particolare come quello delle storie di Dampyr, sospeso tra realismo e fantasia - che dà ancora maggior forza all'Aquila e alla sua storia recente.
Sulla scia di queste sensazioni ho chiesto a Diego Cajelli di farci una chiacchierata sul suo lavoro, su Dampyr e su L'Aquila.
Se non conoscete Dampyr, fate un salto qui e troverete tutte le informazioni che vi servono.
Se non conoscete Diego Cajelli, invece, potete andare a guardarvi il suo blog (e se lo farete, sono sicuro che poi non riuscirete a smettere tanto facilmente. Per inciso, ha scritto anche un bel post su questo numero di Dampyr: dateci uno sguardo).
Qui vi dico solo che è uno sceneggiatore che scrive per la Bonelli e la Astorina (non vi è chiaro di chi stiamo parlando? sono le case editrici di Tex e Dylan Dog, tanto per dirne due, e di Diabolik) e che ha realizzato importanti progetti autonomi come Milano Criminale e Pulp Stories.
Di lui dicono che sia uno dei più promettenti sceneggiatori italiani ma per me non ha niente da promettere. Ha già mantenuto.
La caratteristica che apprezzo di più in lui è la grande consapevolezza delle tecniche di sceneggiatura: una padronanza che lo porta a scrivere storie che scorrono così naturalmente che la sceneggiatura sembra quasi non esserci. O meglio, sembra che quasi non ci sia il lavoro dello sceneggiatore: e naturalmente, invece, è il contrario, un po' come con il "montaggio invisibile" della Hollywood classica.

E finalmente eccoci alle domande e alle risposte.

Dampyr, pur essendo una serie fantastica, ha una forte componente realistica, in particolare nella scelta degli scenari storici e delle ambientazioni: e questa è una delle caratteristiche che, secondo me, la rendono così interessante e “potente”. C’erano già state avventure ambientate in Italia: da dove nasce la scelta di mandare Harlan Draka a L’Aquila?
Harlan è un personaggio che vive la maggior parte delle sue avventure in trasferta. E’ l’unione dei canoni classici del fumetto di avventura: luogo esotico e misterioso, posti lontani, luoghi dell’immaginario, con una componente horror basata sui miti, le leggende e il folklore locale.
Harlan gira per il mondo e in Italia è venuto diverse volte, sempre “portato” dalla componente folkloristica dei luoghi.
La scelta di ambientare questo episodio a L’Aquila è stata di Mauro Boselli, creatore della serie e curatore della testata.
E’ una scelta dettata da una delle “regole” del fumetto horror di avventura, ovvero le vicende che si svolgono un luogo “a parte” un territorio isolato, ma al tempo stesso vicino. La Zona Rossa di L’Aquila rispetta a pieno questi codici narrativi.


Tu sei noto per l’accuratezza con cui ti documenti prima di scrivere una storia: se non ricordo male ne hai fatto anche cenno in qualche post del tuo blog. Com’è andata in questo caso? Quali sono state le tue fonti documentarie?
Lo stesso Boselli, molto coinvolto e convinto della bontà di questa storia, si è recato apposta a L’Aquila e ha scattato una serie di fotografie.
Io ho rastrellato da Internet tutto quello che potevo trovare. Ho raccolto un paio di gigabytes di documentazione fotografica e non.
I tempi in cui viviamo premiano la “scuola Salgari”, nel senso che per scrivere in modo coerente e realistico spesso non è necessario uscire di casa.
Del resto, stai parlando con uno che ha ambientato un albo di Dampyr a Istanbul prima ancora di andarci, ricevendo comunque pareri entusiasti dai lettori turchi.
Ho sviluppato, con il tempo e la pratica, un mio sistema per trovare e archiviare la documentazione.


Uno dei rischi più grandi che si corrono quando si scrivono storie ambientate in un contesto determinato – storico o sociale – è lo “spiegone”: cioè infilare tutte quelle informazioni che il lettore medio potrebbe non possedere. Come hai evitato questo rischio, trovandoti a fronteggiare un realtà delicata come quella de L’Aquila, la cui storia recente non è dettata solo dalla catastrofe naturale ma anche dalle scelte politiche?
Attenzione però. Questo albo di Dampyr è una storia di genere, un horror, ambientato in un luogo reale a noi vicino.
Non è una graphic novel di fumetto/giornalismo o la ricostruzione a fumetti di quanto è accaduto.
E’ una storia di genere, con tutti i meccanismi e le regole di una storia di genere. Di fatti non ci sono spiegazioni o riassunti. Ci sono delle impressioni, date dai personaggi, in un momento narrativo di “pausa”. Di conseguenza lo “spiegone” non l’ho fatto. Il rischio non me lo sono preso perchè, forse sbagliando, non ho voluto pensare al lettore medio.


E sempre riguardo quest’ultimo punto: cosa sapevi de L’Aquila prima di scrivere la storia? Te lo chiedo perché uno dei fenomeni legati al terremoto del 2006 e alla successiva ricostruzione è che c’è stata una sfasatura tra ciò che è stato raccontato e ciò che è avvenuto. Voglio dire, cioè, che, al di là dei limiti della cronaca giornalistica e della maggiore o minore attenzione con cui certe testate hanno seguito la vicenda, il terremoto e la sua ricostruzione sono stati sfruttati dal punto di vista politico: ne è stata fatta una narrazione mediatica che è diventata rapidamente conoscenza diffusa ma che non corrispondeva a ciò che realmente stava succedendo. Così, finché non sono arrivati programmi di approfondimento o film documentari di grande successo (penso a “Presa diretta” e “Draquila” ad esempio), molti pensavano che a L’Aquila tutto fosse a posto e che la ricostruzione fosse avviata, se non addirittura quasi completata (e, chissà, molti magari lo pensano ancora).
Io non guardo i telegiornali. Non seguo programmi di approfondimento, tribune politiche, vite in diretta, talk show, questo e quest’altro.
Mi informo leggendo giornali, seguendo blog e siti di informazione “trasversali”. Ho un’amica a L’Aquila, una giornalista scrittrice molto attiva: Sara Ciambotti (Il terremoto di Sara, Rizzoli)
Tutto questo mi pone nella situazione di avere avuto delle informazioni “diverse” rispetto a quelle televisive. Il che, oltre a deprimermi, oltre a darmi la misura dell’abisso in cui il mio Paese è sprofondato, mi ha fornito una visione globale di come sono andare le cose dalle vostre parti.
Sapevo. Con tutta l’indignazione che la consapevolezza porta con sè.


Ultimamente ci sono stati alcuni fumetti che, ambientati nella contemporaneità, hanno introdotto situazioni e personaggi della cronaca: penso alle recenti storie della Cacciatrice ambientate a Napoli, ad esempio. Mi chiedo – e ti chiedo – se e quanto quest’uso della cronaca in storie di fantasia entri in rapporto con l’immaginario collettivo e, forse, anche, con la costruzione – o quanto meno la sensibilizzazione – di un’opinione pubblica. Se da un lato ciò produce una sensibilizzazione su alcuni temi (ricordo una storia di molti anni fa utilizzata per una campagna contro le armi, in cui il protagonista era Batman), dall’altro non potrebbe innescarsi una specie di “narrativizzazione” della realtà per cui il lettore potrebbe finire con il perdere di vista il confine tra elementi di cronaca ed elementi di fantasia?
Mi dispiace tirare fuori del pessimismo così all’improvviso, ma non credo nel concetto di “campagna di sensibilizzazione”. Per dire, non credo che un subumano picchiatore della propria moglie possa, in qualche modo, essere “sensibilizzato” da una campagna fatta ad hoc.
Al tempo stesso però quel tipo di cose bisogna farle, si deve farle, se non altro per poter dire che ci abbiamo provato, abbiamo fatto qualcosa, ci siamo impegnati.
Poi, che la sensibilizzazione abbia effetti soltanto su chi è già “sensibile”, è un argomento di tecnica di comunicazione sul quale dibatteremo in un altro momento!
Interessante invece il tuo concetto di “narrativizzazione” del quotidiano. Mi fa venire in mente le riflessioni di Guy Debord sulla società dello spettacolo.
Quello, comunque, è un rischio che c’è sempre stato. Non è una boutade, giuro, ho il CD con la trasmissione de “La Guerra dei Mondi” di Orson Welles ai microfoni della CBS nel 1938.
Dal mio punto di vista però, il fumetto, come supporto narrativo è a basso rischio di confusione tra finzione e realtà. Perchè è sempre finzione, ed è sempre una rappresentazione iconica della realtà.
Anche quando racconta una storia vera. Anzi, più la storia è vera, più il fumetto è finzione, perchè per essere letta e compresa ha bisogno di essere riscritta attraverso la lente narrativa e visiva del fumetto.


Mi sono chiesto spesso quanto delle idee – diciamo, in senso lato, delle idee politiche, ovvero una visione della società – di uno scrittore vivano all’interno di un personaggio. Se penso a personaggi Bonelli come Dylan Dog o Julia, o anche Ken Parker – per fare un passo indietro nel tempo –, mi viene in mente che in essi c’è molto dei loro “padri” di penna. Però Dylan Dog è diventato quasi un “carattere” da “Commedia dell’arte”, se mi passi il paragone un po’ ardito; mentre Julia o Ken Parker sono quasi sempre scritti da Berardi che mantiene uno stretto controllo sul loro sviluppo emotivo. Nel caso di Dampyr, invece, Harlan mi è sempre sembrato un po’ più “sfumato”, un po’ meno determinato caratterialmente: spesso quasi solo uno “strumento” per raccontare una storia. E tuttavia c’è una trama molto ben strutturata che si dipana nel tempo, con personaggi che tornano tra un episodio e l’altro. Quindi, da un lato, un personaggio che potrebbe lasciare molto spazio allo scrittore; dall’altro una intelaiatura che non consente grandi evoluzioni: quanto Diego riusciamo a vedere dietro Harlan?
C’è molto di me in Kurjak!
In realtà, c’è molto di me in quanto “vede” Harlan. Io sono nelle situazioni in cui si trova, nelle difficoltà che affronta, nei cattivi che incontra numero dopo numero. Harlan ha una personalità, ma sopratutto ha una sua storia personale molto precisa e dettagliata. E’ un personaggio scritto ispirandosi ai grandi classici dei fumetti. Un protagonista dalle caratteristiche uniche, piuttosto distanti dall’essere umano normale, come è giusto che sia. Dove si infila un autore in seconda come sono io?
In tutto il resto. Harlan è un personaggio così forte da sopravvivere a me e in grado di uscirne sempre e comunque nel migliore dei modi.


E dietro Long Wei, la nuova serie pubblicata dall’editrice Aurea che uscirà in edicola il mese prossimo? Da quello che ho letto in giro, in questo personaggio c’è molto delle tue passioni e di un mondo che conosci bene. E della tua “visione del mondo”, nei limiti di una serie d’avventura e dei suoi canoni narrativi?
Con Long Wei è tutto diverso. A partire dal fatto che il personaggio è mio, fin dalla sua gestazione e arrivando alla sua nascita su carta. Lì è più semplice, se non obbligatorio e naturale, inserirsi quasi in prima persona nella struttura caratteriale del personaggio. Se non altro come catarsi o come metafora della propria vita.
In Long Wei c’è molto di me. Forse troppo. Ma sono comunque elementi del mio carattere e del mia visione del mondo trasformati in punti e nodi narrativi.
Non è un fumetto minimalista sulle mie menate, è una storia d’azione, ambientata a Milano, dove il protagonista ha parecchi punti in comune con il sottoscritto.
Il linguaggio, su Long Wei cambia completamente rispetto a Dampyr, è lì, sulle pagine del fumetto che uscirà a Marzo, posso permettermi di essere più ironico e meno tenebroso.

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