Tre film

Tre film, tre sguardi sull'Italia che raccontano un paese molto lontano dal riflesso distorto che appare spesso sugli schermi televisivi nei quali la maggioranza degli italiani continua a specchiarsi.
Sto parlando di tre film molto diversi fra loro: due sono documentari, di stile quasi opposto, e uno è un film di finzione. Tutti, però, sono accomunati dall'aver ricevuto premi nazionali e internazionali e dalla volontà di raccontare l'Italia del nostro tempo, un paese al quale sembra spesso difficile guardare e che appare sicuramente misterioso e poco comprensibile a chi lo guarda dal di fuori: forse non è un caso che due di questi, Draquila e La nostra vita, siano stati molto applauditi in Francia, a Cannes.
E forse non è nemmeno un caso che il rappresentante istituzionale della cultura italiana non fosse lì, quasi a rimarcare una distanza amplissima fra il paese e la sua rappresentanza formale (due esempi? vedi qui e qui).
E non è nemmeno un caso che due di questi film richiamino sin dal titolo l'idea della comunità, dell'appartenza comune: uno racconta La nostra vita, l'altro inneggia ai Fratelli d'Italia. In realtà anche il titolo del terzo, Draquila, è frutto di una comunità, quella del web che lo ha suggerito alla regista, Sabina Guzzanti.

Fratelli d'Italia è, credo, il meno conosciuto dei tre.

E probabilmente è il più sorprendente, il più spiazzante sin dal titolo. Che si riferisce agli immigrati di seconda generazione, quei ragazzi e quelle ragazze figli di genitori stranieri ma nati e cresciuti in Italia, che frequentano scuole italiane e vivono da italiani, spesso anche in conflitto con un'identità culturale e familiare che sentono come residuale.
Claudio Giovannesi, il regista, ha seguito per molti mesi tre storie qualunque alla periferia di Roma, partendo da una scuola con un'altissima percentuale di figli di immigrati, la Toscanelli di Ostia. Mostrando una grande sensibilità è riuscito a mescolarsi, a confondersi e a sparire in quella realtà così fluida, portandoci letteralmente nelle vite qualunque di quei ragazzi e facendoci scontrare con la questione dell'integrazione dal loro punto di vista.
È un'Italia che non si conosce e a cui non si pensa mai, ma sarà l'Italia di domani: e la chiusura del paese si misura anche sull'incapacità di confrontarsi realmente con questo tema, lasciando soli a confrontarcisi alcuni insegnanti (e alcuni sono veramente eroici), le famiglie e gli stessi ragazzi, neo-italiani schiacciati in una terra di nessuno fra la cultura di provenienza e quella di approdo.

Se Claudio Giovannesi scompare dalla scena e non dà giudizi, Sabina Guzzanti costruisce invece un documentario a tesi: però anche lei ha la sensibilità di levarsi quasi subito da davanti e di lasciarci vedere il film (per parafrasare Monicelli). In questo senso, non è vero che il suo è un film alla Michael Moore: lo è invece se lo si considera un film-pamplhet, tutto costruito intorno all'idea che il terremoto de L'Aquila abbia costituito una specie di prova generale per uno strisciante colpo di stato fondato sulla gestione autoritaria dell'emergenza.


Anche chi non è d'accordo con la tesi del film, non potrà negare che ci sono alcuni momenti di grandissima emozione: l'inizio, con una passeggiata notturna nella città vuota, e l'intervista a Raffaele Colapietra, l'anziano storico che continua a vivere nella sua casa del centro (e per farlo ha dovuto "combattere" contro la Protezione Civile) che assurge alla dimensione gigantesca e tragica di anima e coscienza della città. Quasi un fantasma a sorvegliare una città fantasma.
Ma, soprattutto, è un film che permette di scoprire che le cose sono diverse da come sono state raccontate, e da come la maggior parte degli italiani, probabilmente, pensa che siano.

E La nostra vita? Forse dovrò tornarci con un altro post e una riflessione un po' più ampia. Anche perché, nonostante il suo tentativo di essere realista, a partire dalla scelta dei luoghi e dall'uso delle inquadrature strette e mosse, molto documentaristiche, il film non è un documentario: e si sente. E si vede.

Che cosa lo accomuna agli altri film di cui sto parlando? Almeno due cose.
La prima è una sensazione di vuoto, che si manifesta sin dai luoghi in cui il film è girato: sono le periferie che stanno sorgendo ad est della città, uno sprawl suburbano arroccato intorno alle cittadelle fortificate del consumo, i mega-centri commerciali in cui cercano rifugio e momentaneo sollievo gli abitanti di quelle terre di nessuno, nella finzione come nella realtà.
Il vuoto è anche quello in cui precipita il protagonista del film, dopo l'improvvisa morte della moglie. È un vuoto di valori, di cultura, di prospettive: non è cattiveria (anzi, lui non ce la fa proprio ad essere cattivo), è solo assenza. Assenza che cerca di riempire con quanto di più concreto conosca, i soldi e tutto quello che possono comprare.
Questa è una cosa che ritorna spesso nel film, ed è la seconda delle cose che lo accomuna agli altri.
I soldi della "cricca" che ha cercato di spartirsi (si è spartita?) la ricostruzione de L'Aquila.
I soldi che sembrano essere l'unica cosa da conquistarsi nella vita per qualche fratellino d'Italia: c'è un passaggio secondario del film in cui uno dei protagonisti, romeno, va in una discoteca romena; la musica in sottofondo - opportunamente sottotitolata - è un inno dance ai soldi e a tutto quello che ti permettono di avere, macchine donne rispetto. Ed è interessante vedere come nel film di Lucchetti la prospettiva sia ribaltata: qui sono i romeni a rimproverare agli italiani di essere ossessionati dai soldi.
I soldi con cui Claudio, il protagonista interpretato da Elio Germano, cerca di comprare un futuro migliore per i propri figli, un futuro fatto di cose perché altro a cui aggrapparsi non c'è.

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