Ieri sera eravamo solo in 689.000 ad aspettarci il capolavoro, il Masterpiece. E se non è arrivato, pazienza. Il titolo era forse presuntuoso e ci sono ancora molte puntate, e margini di miglioramento. Consola che fossimo in più di quelli che guardavano Mystic River, su Rete 4: perché quel film lo è davvero, un capolavoro, e quindi le aspettative per la nuova scommessa di Rai Tre dovevano essere veramente alte.
Perché è di questo che sto parlando.
Del nuovo talent che ieri sera ha iniziato il suo lungo cammino su Rai Tre, per farci scoprire una nuova promessa della letteratura italiana.
Beh, forse letteratura è una parola grossa: limitiamoci a dire, qualcuno (o qualcuna) che provi a scrivere libri onestamente e con passione. E già sarebbe tanto.
Con questo programma, un format nostrano, nato nella televisione pubblica, Rai Tre ricorda a tutti le sue due origini: di canale culturale e di canale votato alla sperimentazione e al coraggio. Ci vuole coraggio, infatti, per fare un talent sulla scrittura e sui libri (su quelli ancora da scrivere, e non su quelli già scritti: che lì, di coraggio, e di fantasia, e di talento ce ne vorrebbero veramente molti. Diciamo quelli di un Baricco, quando ancora non faceva Baricco).
Ce ne vuole, dicevo, di coraggio, in un paese dove nel 2012 solo il 46 per cento della popolazione dichiara di aver letto un libro (un libro, ripeto: uno solo) nel suo tempo libero. Però, si sa, le statistiche sono ingannevoli. E infatti il trend, la tendenza alla lettura è in crescita e (dopo una stasi nel 2011) sembra che il consumo di libri sia in ripresa: certo è che se ne stampano una media di 3,5 a testa. Quindi, questa scommessa di Rai Tre ha un senso, anche commerciale (se vi piacciono i dati e ne volete di più seguite il link).
Ma più che altro mi pare che la scommessa rimandi a quello che potrebbe essere uno dei compiti della televisione di servizio pubblico: mettere in contatto il paese con le sue parti meno rappresentate, con le sue storie meno note. Quelle storie che spesso si consumano in solitudine, perché scrivere è un atto solitario, e che magari potrebbero non essere raccontate a nessuno. Ma le storie hanno bisogno di un ascoltatore, sennò muoiono.
E allora, da questo punto di vista, la scommessa è vinta.
Perché la trasmissione ci ha raccontato delle storie, qualcuna anche emozionante. E non solo quelle che erano state scritte, ma quelle segnate sulla pelle e nella carne di chi si era sacrificato per trovare le parole adatte a dire quello che aveva dentro.
E, soprattutto, ce lo ha raccontato bene: certo, copiando qua e là dalla narrazione di Masterchef (ma la consonanza nel titolo non può essere un caso, no?), ma riuscendo a rendere appassionanti anche delle persone ferme davanti ad una tastiera, a scrivere.
Punti deboli ce ne sono, è ovvio.
I "ruoli" dei giudici non sono ancora ben chiari; così come non lo sono le ragioni dei loro giudizi.
La seconda parte, quella relativa all'esperienza e alla prova di scrittura, perde un po' di dinamicità nel montaggio, mentre era quella che si prestava maggiormente ad una narrazione emotiva.
I "trucchi" di regia (le accelerazioni, i cambi di tono e di luce ecc.) sono un po' insistiti, e certe volte gratuiti, così da risultare noiosi.
La suspence non è tenuta bene, perché uno sguardo attento coglie subito chi passa il turno e chi viene respinto (state attenti allo sfondo).
Però il tempo per migliorare ce n'è. Si tratta di correzioni lievi, che si possono fare in corsa.
Per il momento, a me è venuta la curiosità di leggere il libro dell'unica giurata che non conoscevo: lei.
Taiye Selasi, autrice de La bellezza delle cose fragili.
E se un programma sui libri ti fa venire voglia di leggerne uno, allora ha raggiunto il suo scopo.
Ancora sulla cavalleria leggera dell'etere (una lezione)
Se andate a cercare nel passato di questo blog, troverete che l'8 novembre 2010 annunciavo che avrei iniziato il corso di quell'anno con una lezione sulla radio. Intitolavo quel post arriva la cavalleria leggera e anche oggi non ho trovato di meglio, tanto mi piace quella definizione della radio di Peppino Ortoleva.
Il corso di quest'anno è dedicato ai linguaggi della comunicazione audiovisiva (lo divido a metà con Gabriele D'Autilia) e ho riservato qualche lezione alla radio, al modo in cui il linguaggio radiofonico è nato e si è sviluppato, in stretta correlazione con la storia tecnologica e sociale della radio.
Ve ne parlo perché, anche se questo blog è sempre meno un'estensione delle mie lezioni, gli studenti mi hanno chiesto di fargli avere le slides che ho utilizzato e ho deciso di metterle qui.
Però proverò a fare un esperimento.
Non caricherò semplicemente il power point ma mostrerò le singole slides introducendole brevemente con una sintesi di ciò che mi erano servite ad illustrare: in pratica un riassunto della lezione, in modo che servano anche a chi ha preso degli appunti distratti, o a chi non c'era.
Inoltre, visto che qui ne ho la possibilità, introdurrò una serie di link, utili a chi volesse approfondire alcuni aspetti, o fosse semplicemente curioso.
Per non annoiare tutti i miei lettori, proseguo dopo il salto: la visione, potremmo dire, è riservata ai soli studenti...

Ve ne parlo perché, anche se questo blog è sempre meno un'estensione delle mie lezioni, gli studenti mi hanno chiesto di fargli avere le slides che ho utilizzato e ho deciso di metterle qui.
Però proverò a fare un esperimento.
Non caricherò semplicemente il power point ma mostrerò le singole slides introducendole brevemente con una sintesi di ciò che mi erano servite ad illustrare: in pratica un riassunto della lezione, in modo che servano anche a chi ha preso degli appunti distratti, o a chi non c'era.
Inoltre, visto che qui ne ho la possibilità, introdurrò una serie di link, utili a chi volesse approfondire alcuni aspetti, o fosse semplicemente curioso.
Per non annoiare tutti i miei lettori, proseguo dopo il salto: la visione, potremmo dire, è riservata ai soli studenti...
Etichette:
corso 2013,
lezioni,
radio
MigrarTE, 17 e 18 ottobre
Ed eccoci arrivati. Oggi e domani, a Teramo. Nella sala polifunzionale della Provincia e all'Università.
Il programma lo trovate nella locandina qui sotto.
Se ci cliccate sopra diventa molto più grande.
Poi vi racconto com'è andata.
Il programma lo trovate nella locandina qui sotto.
Se ci cliccate sopra diventa molto più grande.
Poi vi racconto com'è andata.
Etichette:
convegni,
dove vado e cosa faccio,
iniziative di facoltà
Il giorno in cui tutto ricominciò
Esce oggi il numero 325 di Dylan Dog. È intitolato una nuova vita e si presenta con una copertina suggestiva e fortemente simbolica
Gli appassionati sanno già tutto. Alcuni mesi fa è iniziata a circolare la notizia di un profondo cambiamento nella redazione di Dylan Dog, i cui fili sono stati mossi dal creatore dell'indagatore dell'incubo, Tiziano Sclavi. A Giovanni Gualdoni è subentrato Roberto Recchioni, autore di una delle più belle e intense storie di Dylan Dog di tutti i tempi, Mater Morbi, scrittore e disegnatore molto prolifico che ama spaziare attraverso generi molteplici, che contamina senza pudore e con una forte consapevolezza dei linguaggi, autore di un blog molto seguito.
Nei mesi successivi, tra indiscrezioni e annunci, le aspettative per questa "rivoluzione" sono aumentate, ed è facile prevedere che, da domani, nella blogosfera si scontreranno critiche feroci e elogi entusiastici. Ovviamente, una trasformazione è qualcosa di lento (in una macchina produttiva complessa come quella dell'industria del fumetto, poi...): come hanno spesso detto gli stessi protagonisti, ne potremo vedere i veri frutti solo fra alcuni mesi.
Ma intanto i segnali ci sono tutti.
Intanto, nell'ultimo numero l'evoluzione è stata annunciata dallo stesso Sclavi in un redazionale: evento eccezionale per due motivi. In genere quello spazio è occupato dall'editore. E in secondo luogo Sclavi parla (e scrive, soprattutto) ormai di rado.
In realtà ci sarebbe anche un terzo motivo che lascia prevedere qualcosa di molto buono: una sorta di "ritorno alle origini", ma senza crogiolarsi nella nostalgia.
Commentando la nuova veste artistica della copertina, Sclavi fa notare la "citazione" della pop art, e commenta:
Era questa una di quelle cose che facevano grande Dylan Dog negli anni '80, prima che anch'essa diventasse di maniera.
Se la "rivoluzione" in corso tornerà ad alcuni di quegli spunti iniziali, riaggiornandoli alla sensibilità contemporanea, forse si potrà dire riuscita. Mi piacerebbe tornarci appena avrò un po' di tempo. Per ora, mi limiterò ad usare le parole di qualcun altro, che è stato capace di cogliere alcuni degli aspetti di innovazione profonda che Dylan Dog introdusse nel panorama fumettistico nello scorcio finale degli anni '80:
Sono le parole con cui Gino Frezza ha analizzato Dyd, nel saggio La poesia matematica di Dylan Dog (in Le carte del fumetto, Liguori, Napoli 2008).
Ci sarebbe da dire ancora molto sul contesto in cui Dyd nasce e coglie i suoi primi successi, gli anni '80 appunto, e sul rapporto di rispecchiamento oppositivo con lo "spirito del tempo" in cui, secondo me, risiede gran parte del suo successo iniziale.
Mi piacerebbe farlo qui e magari, come si dice, ...continua e finisce in una prossima puntata
Gli appassionati sanno già tutto. Alcuni mesi fa è iniziata a circolare la notizia di un profondo cambiamento nella redazione di Dylan Dog, i cui fili sono stati mossi dal creatore dell'indagatore dell'incubo, Tiziano Sclavi. A Giovanni Gualdoni è subentrato Roberto Recchioni, autore di una delle più belle e intense storie di Dylan Dog di tutti i tempi, Mater Morbi, scrittore e disegnatore molto prolifico che ama spaziare attraverso generi molteplici, che contamina senza pudore e con una forte consapevolezza dei linguaggi, autore di un blog molto seguito.
Nei mesi successivi, tra indiscrezioni e annunci, le aspettative per questa "rivoluzione" sono aumentate, ed è facile prevedere che, da domani, nella blogosfera si scontreranno critiche feroci e elogi entusiastici. Ovviamente, una trasformazione è qualcosa di lento (in una macchina produttiva complessa come quella dell'industria del fumetto, poi...): come hanno spesso detto gli stessi protagonisti, ne potremo vedere i veri frutti solo fra alcuni mesi.
Ma intanto i segnali ci sono tutti.
Intanto, nell'ultimo numero l'evoluzione è stata annunciata dallo stesso Sclavi in un redazionale: evento eccezionale per due motivi. In genere quello spazio è occupato dall'editore. E in secondo luogo Sclavi parla (e scrive, soprattutto) ormai di rado.
In realtà ci sarebbe anche un terzo motivo che lascia prevedere qualcosa di molto buono: una sorta di "ritorno alle origini", ma senza crogiolarsi nella nostalgia.
Commentando la nuova veste artistica della copertina, Sclavi fa notare la "citazione" della pop art, e commenta:
quindi facciamo il fumetto che cita l'arte che cita il fumetto.Un buon inizio, direi: un ritorno ad una delle innovazioni di linguaggio di Sclavi, con il suo citazionismo così postmoderno (non me ne voglia Tiziano per questa definizione) e, allo stesso tempo, così poco esibito.
Era questa una di quelle cose che facevano grande Dylan Dog negli anni '80, prima che anch'essa diventasse di maniera.
Se la "rivoluzione" in corso tornerà ad alcuni di quegli spunti iniziali, riaggiornandoli alla sensibilità contemporanea, forse si potrà dire riuscita. Mi piacerebbe tornarci appena avrò un po' di tempo. Per ora, mi limiterò ad usare le parole di qualcun altro, che è stato capace di cogliere alcuni degli aspetti di innovazione profonda che Dylan Dog introdusse nel panorama fumettistico nello scorcio finale degli anni '80:
tutti i temi dell'interazione e della contaminazione tra i media (cinema, fumetto, tv, letteratura, teatro, pittura...) vengono attraversati e raccontati. (...) Dylan Dog va oltre ogni limite tracciato per distinguere un fumetto seriale da un cosiddetto fumetto d'autore. (...) Gli autori e l'editore di questa serie hanno pienamente travalicato i confini che una volta tenevano distinti i bacini tematici e le forme espressive in rigide separazioni di generi, di pubblici, di qualità e di quantità. Questa serie a fumetti (...) ha un contorno estremamente serio, una moralità dai tratti perfino illuministici. Tiziano Sclavi e i suoi collaboratori (...) restituiscono la varietà dell'universo mediologico e la consegnano ai giovani lettori in una sorta di adempimento a una funzione - o finzione - iniziatica. Dylan Dog raccoglie un esasperato bisogno di socializzazione primaria e di maturazione individuale spesso negato alle giovani generazioni. Sintomo di disagio (...) questo fumetto è molto di più. Il disagio vi esprime insomma una parzialità politica, radicale, estremamente conflittuale e diretta a uno scopo di individuazione di una moralità insediata nei cuori dei lettori (...) [i quali] sono chiamati a partecipare a una maturazione almeno fantastica del corpo, della psiche, degli equilibri e delle dissonanze tra l'intelligenza e i sentimenti.
Ci sarebbe da dire ancora molto sul contesto in cui Dyd nasce e coglie i suoi primi successi, gli anni '80 appunto, e sul rapporto di rispecchiamento oppositivo con lo "spirito del tempo" in cui, secondo me, risiede gran parte del suo successo iniziale.
Mi piacerebbe farlo qui e magari, come si dice, ...continua e finisce in una prossima puntata
Etichette:
fumetti
I sogni (e gli incubi) di Francesco P.
Che cosa rimane dell'Aquila dopo quattro anni e mezzo dal terremoto?
Che cosa rimane per chi, sin dai primi mesi, l'ha raccontata con una videocamera?
Francesco Paolucci è tornato a raccontarci quello che si muove nel fondo del suo cuore, il suo cuore privato, intimo, ma anche quello pubblico, sociale: la sua città. E ora, dopo averci colpito e commosso con il diario di un terremutato, dopo averci fatto ridere - e pensare - con i suoi dice che, ci - e si - chiede: e se fosse stato tutto un sogno?
Ho incrociato la strada di Francesco a Teramo, quando era studente di Scienze della Comunicazione.
Poi l'ho ritrovato come studente nel master di giornalismo, affascinato dalle tecniche e dal linguaggio del reportage giornalistico con una chiara preferenza per lo stile di Iacona.
Poi l'ho seguito raccontare L'Aquila e il terremoto del 2009 attraverso i suoi video, contemporaneamente dall'interno e dall'esterno: seguendo le storie che si svolgevano nel cratere, e svelando le ambiguità della comunicazione mainstream, da una parte; e raccontandoci i moti del suo animo, dall'altro, inseguendo progetti personali, forse capaci di mostrare con ancora maggiore efficacia quello che stava succedendo.
Ora è giornalista e videomaker: segue sempre i suoi sogni e i suoi fantasmi personali, e ancora una volta ci sa raccontare quello che sta succedendo. E che oggi mi sembra che sia quell'impalpabile sfarinamento della voglia di resistere e di combattere che si accompagna al desiderio di normalità.
Una volta, in un intervento a Radiofrequenza, la radio dell'Università di Teramo - se non ricordo male per il primo anniversario del terremoto - mi disse che nei suoi primi video usava la videocamera come un diaframma fra il suo cuore e il mondo, quasi per non avvertire anche sulla pelle quello sgomento, quel dolore e quella rabbia che sentiva nel cuore. Questa commistione fra racconto privato e sguardo oggettivo - capace di rifrangere anche gli altri sguardi pubblici sul terremoto - era la forza dei suoi racconti.
Col passare dei mesi il Francesco che si nascondeva dietro l'obiettivo ha avuto la forza, e il coraggio, di uscire e mostrarsi.
E quelli che oggi possono sembrare veli, l'ironia che caratterizzò i "dice che" e ora il mood cinematografico che si respira nel suo ultimo racconto, mi sembra che siano solo una parte del suo modo di essere. Potrà sembrare contraddittorio, ma proprio ora che Francesco usa la finzione per raccontare quello che succede mi pare che si mostri senza schermi: e sia capace, allo stesso tempo, di percepire e raccontare un sentimento diffuso, pur senza arrendersi ad esso.
Perché, nonostante tutto, L'Aquila c'è ancora:
"ha presente?"
"sì..."
Francesco Paolucci è tornato a raccontarci quello che si muove nel fondo del suo cuore, il suo cuore privato, intimo, ma anche quello pubblico, sociale: la sua città. E ora, dopo averci colpito e commosso con il diario di un terremutato, dopo averci fatto ridere - e pensare - con i suoi dice che, ci - e si - chiede: e se fosse stato tutto un sogno?
Ho incrociato la strada di Francesco a Teramo, quando era studente di Scienze della Comunicazione.
Poi l'ho ritrovato come studente nel master di giornalismo, affascinato dalle tecniche e dal linguaggio del reportage giornalistico con una chiara preferenza per lo stile di Iacona.
Poi l'ho seguito raccontare L'Aquila e il terremoto del 2009 attraverso i suoi video, contemporaneamente dall'interno e dall'esterno: seguendo le storie che si svolgevano nel cratere, e svelando le ambiguità della comunicazione mainstream, da una parte; e raccontandoci i moti del suo animo, dall'altro, inseguendo progetti personali, forse capaci di mostrare con ancora maggiore efficacia quello che stava succedendo.
Ora è giornalista e videomaker: segue sempre i suoi sogni e i suoi fantasmi personali, e ancora una volta ci sa raccontare quello che sta succedendo. E che oggi mi sembra che sia quell'impalpabile sfarinamento della voglia di resistere e di combattere che si accompagna al desiderio di normalità.
Una volta, in un intervento a Radiofrequenza, la radio dell'Università di Teramo - se non ricordo male per il primo anniversario del terremoto - mi disse che nei suoi primi video usava la videocamera come un diaframma fra il suo cuore e il mondo, quasi per non avvertire anche sulla pelle quello sgomento, quel dolore e quella rabbia che sentiva nel cuore. Questa commistione fra racconto privato e sguardo oggettivo - capace di rifrangere anche gli altri sguardi pubblici sul terremoto - era la forza dei suoi racconti.
Col passare dei mesi il Francesco che si nascondeva dietro l'obiettivo ha avuto la forza, e il coraggio, di uscire e mostrarsi.
E quelli che oggi possono sembrare veli, l'ironia che caratterizzò i "dice che" e ora il mood cinematografico che si respira nel suo ultimo racconto, mi sembra che siano solo una parte del suo modo di essere. Potrà sembrare contraddittorio, ma proprio ora che Francesco usa la finzione per raccontare quello che succede mi pare che si mostri senza schermi: e sia capace, allo stesso tempo, di percepire e raccontare un sentimento diffuso, pur senza arrendersi ad esso.
Perché, nonostante tutto, L'Aquila c'è ancora:
"ha presente?"
"sì..."
Etichette:
cose da vedere,
Terremoto de L'Aquila
Pubblicità di fine stagione
Sarà che l'estate sta finendo e che la mente ama smarrirsi ancora per un po' in pensieri oziosi.
Sarà che se hai la televisione o la radio accesa la vedi e la senti decine e decine di volte al giorno.
Sarà quello che sarà, ma ogni volta che passa questa nuova pubblicità non riesco a non contenere un moto di rabbia.
Sarà che se hai la televisione o la radio accesa la vedi e la senti decine e decine di volte al giorno.
Sarà quello che sarà, ma ogni volta che passa questa nuova pubblicità non riesco a non contenere un moto di rabbia.
Ogni volta - ma, dico, ogni volta - che la vedo o la sento penso che siamo proprio messi male.
Lo so: siamo messi male, e non l'ho certo scoperto con questa pubblicità.
Però.
Però se considerate che fine della pubblicità commerciale è indurre il desiderio del consumo e che lo fa rappresentando aspirazioni e desideri sociali. E che nel rappresentarli, certe volte riesce ad intercettare il senso comune, il sentire profondo di una società.
Se pensate ad esempio che i manifesti dei magazzini Mele all'inizio del secolo scorso crearono un gusto borghese della moda e insegnarono al ceto emergente dell'Italia da poco unita a vestirsi.
Oppure che negli anni Ottanta la pubblicità dell'amaro Ramazzotti ha dato forma nell'immaginario collettivo al ritratto della città modello di un'Italia nuova. E che, allo stesso tempo, raccoglieva tutte le suggestioni che formavano il desiderio collettivo di un'epoca "rampante", inventando lo slogan che ancora oggi descrive gli anni Ottanta, nel bene come nel male.
Ecco, se pensate a questi e ad altri esempi possibili, allora la pubblicità con la Ferilli ci dice più di quanto non voglia.
Da un lato, certo, ci dice di un'epoca in cui, dopo anni di produzione industriale standardizzata, si cerca la cura artigianale del prodotto, il vero "valore" del prodotto (Artigiani della qualità).
Ma cura artigianale vuol dire lavoro -tanto, impegnativo lavoro- di uomini e donne.
E quello spot ci dice anche, dall'altro lato, che il lavoro - quel lavoro che dà valore al prodotto - viene pagato "a metà prezzo". E infine che ogni protesta, anche solo accennata, è inutile: e anzi viene sbeffeggiata e ridotta all'impotenza, neutralizzata, con una battuta.
Non mi stupisce che il lavoro - e quello artigianale, per di più: che vuol dire lavoro estremamente qualificato, applicazione di passione e ingegno, oltre che di abilità manuale - venga poco considerato. Lo si può leggere con chiarezza nei dati e nelle storie delle fabbriche che chiudono dalla mattina alla sera, di nascosto, con gli "imprenditori" che, come ladri nella notte, se ne vanno da un'altra parte dove il lavoro costa di meno.
Quello che mi fa arrabbiare è che questo stato di cose abbia finito per essere raccontato da un messaggio pubblicitario. Perché se la pubblicità intercetta "lo spirito del tempo" - o, peggio, mostra desideri e aspirazioni di una società -, allora l'idea che oggi abbiamo del lavoro è che esso debba essere pagato solo la metà di quanto merita (e talvolta anche meno).
E ogni volta che sento questi "artigiani della qualità" umiliarsi di fronte alla Ferilli, io non posso fare a meno di pensare che siamo davvero ai saldi di fine stagione: e che la merce che viene svenduta siamo noi.
Etichette:
pensieri,
pubblicità,
specchio della società