la lettera del ministro Bondi sulla Rai

Riporto il testo di una lettera che il ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi ha inviato al presidente della Rai Claudio Petruccioli, al direttore generale della Rai e, per conoscenza, alle più alte cariche istituzionali.

Contiene la proposta di cui si sta discutendo in questi giorni, una rete senza pubblicitò, di carattere esclusivamente culturale. Si tratta di una ipotesi credibile? Leggete e fatemi sapere che cosa ne pensate.
Caro Presidente, l’occasione di questa lettera è stata la mia partecipazione alla serata di inaugurazione del “Teatro Festival Italia” di Napoli, che mi offre lo spunto per sottolineare l’opportunità di utilizzare la televisione come cassa di risonanza degli eventi culturali e artistici. In virtù di una tradizione drammaturgica ed interpretativa che non ha eguali in Italia, il capoluogo campano diventa punto di riferimento internazionale per gli amanti del palcoscenico e il Festival, promosso dal ministero dei Beni Culturali come il principale evento nazionale di settore, va valorizzato nel modo migliore dalla nostra Rai. La televisione è un formidabile mezzo di diffusione e di amplificazione delle notizie e degli eventi. Perché non farlo diventare anche un veicolo di promozione dei beni artistici e culturali? Nelle linee programmatiche della mia azione di governo ho espresso l’esigenza di “riavvicinare beni culturali e audiovisivo per favorire iniziative comuni con il Servizio pubblico radiotelevisivo e le aziende specializzate nell’audiovisivo al fine di promuovere il territorio e i nostri beni culturali”. Penso alla promozione di un made in Italy del bello, della cultura e dell’arte attraverso un nuovo nodo di raccontare le cose. Tuttavia, mi rendo conto che il mezzo televisivo oggi è condizionato da indici di ascolto e consensi sempre più difficili da raggiungere. Da quando esistono i sistemi di rilevamento, tutta la programmazione ruota attorno ai dati d’ascolto. Ed è facile constatare che i programmi di maggiore successo sono quelli che devono usare i metodi, i linguaggi e i sistemi più semplici, di impatto immediato. Per questo è importante porre la questione di che cosa significhi fare cultura in televisione. La nostra cultura non è fatta soltanto di libri letti, di quadri visti, di opere ritenute altissime e che noi abbiamo avuto il privilegio di contemplare. La sfida che deve vincere l’autore televisivo è quella di offrire la cultura in maniera che non venga percepita solo come un fastidio o come una noia. Generalmente si ritiene che la cultura necessiti della propria chiave per entrare nello schermo televisivo. Non vorrei che fossimo ancora legati all’impostazione secondo cui la cultura fa ingresso in televisione soprattutto nella forma della “lezione”. Al contrario, la cultura è la televisione che esalta i suoi strumenti, il suo linguaggio, le sue modalità espressive. Cultura è anche un programma di varietà condotto bene e con una regia accurata. Del resto, occorre riconoscere e lodare il ruolo culturale svolto dalla televisione di Stato in Italia. Basti pensare al contributo che ha dato alla conoscenza della lingua. “Da cinquant’anni - scrive Aldo Grasso - la televisione inonda la nostra lingua di parole, conia modi di dire, influenza il nostro modo di esprimerci. E per quanto la si possa criticare per l’attuale decadimento e sciatteria dei programmi, non possiamo dimenticare che essa è stata la vera artefice dell’unità linguistica in Italia”. La Tv nazionale generalista è riuscita a dare una forte sensazione di appartenenza. Anche se atomizzati negli appartamenti, i telespettatori del telegiornale o del varietà del sabato sera sentivano di far parte di una comunità che parlava la stessa lingua, che si divertiva allo stesso modo, che era partecipe degli stessi eventi. Mi piace anche ricordare come la televisione del monopolio di Stato sia nata su solide basi umanistiche, con un gruppo dirigente colto, di estrazione letteraria, attento a una produzione media di livello alto, propenso a “usare il nuovo mezzo come strumento di promozione culturale”. Nella nuova televisione, che si sviluppa soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, il linguaggio televisivo cambia profondamente: i singoli programmi perdono i loro caratteri peculiari e vengono accorpati in un unico “contenitore”. Tuttavia, nonostante la diffusione dei computer, dei CD-Rom e di Internet, la televisione continua a costituire la più efficace forma integrativa di apprendimento. Accanto alla televisione “terrestre” si sta sviluppando la televisione via satellite, i cui canali sono a contenuto prevalentemente tematico. Presto si aggiungeranno canali via cavo, per cui l’offerta televisiva messa a disposizione del pubblico sarà ancora più vasta. Con i canali tematici avremo “una televisione più segmentata, selezionata, quasi personalizzata, diretta a particolari gruppi di utenti interessati, appunto, al singolo tema piuttosto che ad un pubblico vasto, indefinito e indifferenziato”. Ma quali saranno le conseguenze sul piano socio culturale? Le prospettive fanno prevedere che la forbice culturale del pubblico televisivo si divaricherà sempre di più nel senso che chi è già provvisto di una buona cultura si orienterà sui canali più colti (teatro, cinema d’autore, concerti, dibattiti culturali, divulgazione scientifica), mentre chi è meno acculturato, sarà inevitabilmente tentato di rivolgersi ai canali dedicati allo sport o agli spettacoli leggeri. Le incidenze delle trasformazioni tecnologiche sulla società sono rilevanti sia da un punto di vista positivo che da un punto di vista negativo. In una prospettiva positiva le tecnologie restringono gli spazi, accelerano i tempi, velocizzano il rapporto comunicativo. In una prospettiva negativa si corre il rischio della dispersione in una sovrabbondanza di notizie e informazioni. Se questo processo non è guidato da un senso di responsabilità molto determinato, l’utente non riesce ad orientarsi. Per questo bisogna insegnare a vedere la televisione e a criticare il suo linguaggio. Popper rimprovera giustamente agli operatori televisivi di sottovalutare il loro compito educativo. Nel mondo contemporaneo c’è una specie di disperazione davanti all’impossibilità di educare l’individuo prima che sia sommerso da messaggi che lo lasciano completamente disorientato. Per questo bisogna utilizzare il mezzo televisivo in modo da creare poco alla volta, senza scoraggiarsi, gli spettatori che sapranno giudicare e dire no al flusso ininterrotto di immagini. La televisione tematica presenta dei rischi poiché dà luogo a una frammentazione del pubblico per generi che produce una cristallizzazione, in cui la cultura rischia di diventare anch’essa un genere come l’intrattenimento, l’informazione, lo sport, la musica. Con la conseguenza che rimane estraneo il grande pubblico della televisione generalista e si accentua il distacco dal mondo della cultura. La cultura non è un genere televisivo accessibile a pochi eletti. Dovrebbero essere i programmi ordinari della Tv generalista a divenire più stimolanti culturalmente. Si può capire che cos’è letteratura più da un buon sceneggiato televisivo che da una rubrica di libri; c’è probabilmente più poesia in uno spettacolo di Roberto Benigni che in una trasmissione sulla poesia; ci può essere più arte in un buon film che in un documentario sui grandi musei del mondo. Confido perciò nella sensibilità dei vertici di un’azienda come la Rai, che tanto può fare per la diffusione e la valorizzazione del nostro patrimonio artistico e culturale.

1 commenti:

fabiofidanza ha detto...

Facciamo finta per un attimo che Bondi non sia Bondi.

Una lettera, la sua, che sono certo troverebbe d'accordo ognuno degli intellettuali che oggi si lamenta della bassa qualità della televisione italiana. C'è dentro una velata nostalgia dei programmi della RAI "di una volta", in cui le scenografie sapevano di avanguardia architettonica, la regia sperimentava con l'immagine e Carlo Conti non era ancora nato.
C'è l'eco del maestro Manzi e degli sceneggiati che ancora oggi gli estimatori rimpiangono (vedi il recente Puccini).

Ora torniamo nella realtà e ridiamo a Bondi la sua essenza.

Dov'è il trucco? Creare un canale culturale a se stante avrebbe a mio avviso un effetto benefico per pochi: i pochi che già oggi cercano cultura selezionerebbero il canale e butterebbero il telecomando; i tanti che non la cercano toglierebbero il programma dai primi 9 tasti, per evitare pressioni accidentali.
Risultato: i colti restano colti e un po' più soddisfatti, i meno colti continuano la loro (spesso involontaria) discesa.
Dubito che l'appeal di un programma culturale, per quanto ben fatto, sia un movente tale da giustificare la diserzione dall'entertainment, tanto più con un'esercito che è di tre misure più grande.

E siamo certi che gli autori dei programmi si sentano stimolati dall'1% di share?

Credo che la soluzione sia una iniezione generale di cultura in tutti i canali pubblici: e la vedo, a meno di rivoluzionari come Bondi, piuttosto dura.

 
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