La città ha fame, "Cosmopolita", 28 ottobre 1944


La seconda puntata dell'inchiesta di "Cosmopolita" su Roma è dedicata ad uno dei problemi più drammatici della città, la fame. La città ha fame s'intitola infatti il reportage di Igor Stcherbatcheff secondo il quale circa 300.000 romani si nutrirebbero esclusivamente al mercato nero, di cui il giornalista cerca di capire i metodi di approvvigionamento.
Al sabato, in genere, avviene la distribuzione della razione di carne in scatola. al sabato sera o al massimo lunedì mattina, un nuovo quantitativo di scatolame invade il mercato nero. (...) Ogni scatola normale, fornita ai dettaglianti dai grossisti, contiene 800 gr. circa di prodotto netto. L'Udis [uffici di distribuzione della Sezione Provinciale dell'Alimentazione, Sepral] calcola però il peso netto del contenuto in circa gr. 700. Su ogni dieci scatole, di conseguenza, il dettagliante ne guadagna una.
Gli ammalati hanno diritto a una determinata razione settimanale di carne fresca. Accade tuttavia sovente che i quantitativi assegnati ai macellai non vengano smaltiti, e ciò specie nei quartieri poveri, a causa dell'alto prezzo di calmiere fissato per questo prodotto. Perché le quantità invendute non si deteriorino viene concessa la vendita libera delle eccedenze. di ciò approfittano i borsisti neri. Comperano la carne a 220 lire al chilogrammo e la rivendono a 380.
I posti di blocco - continua il cronista - vengono aggirati, sia usando i camion dell'esercito, italiano o alleato, sia le ambulanze, che in genere vengono utilizzate per trasportare la carne. Secondo un funzionario della Sepral combattere il mercato nero è quasi impossibile:
Abolire il razionamento sarebbe l'unico mezzo. Ed anche in tal caso i prezzi non scenderebbero, anzi. Vi è un mezzo indiretto che potrebbe avere un'efficacia per indebolire questo flagello: incoraggiare le cooperative di consumo e le mense aziendali. Sviluppare ancor più le cucine popolari.
Via di Tor di Nona, luogo simbolo della borsa nera a Roma.
Foto tratta dal sito www.romasparita.eu
Il "cuore" del mercato nero è il mercato di Tor di Nona, dove, racconta il cronista, la vendita non è né casuale né libera:
l'organizzazione, sin dall'epoca del dominio nazi-fascista ha stabilito che chi fa parte di questo mercato deve mantenere i suoi prezzi entro i limiti fissati dal consiglio dei maggiorenti. Organizzazione e maggiorenti sono tutt'uno: i proprietari dei tuguri, i signori del luogo. Ma poiché il rischio di un mercato all'aperto era troppo forte si ricorse ad una specie di assicurazione, Si pagarono alcuni agenti per essere avvisati di eventuali incursioni dell'Annona. Non so se tale "assicurazione" sia stata rinnovata dopo l'arrivo degli Alleati. Il mercato continua a funzionare come prima e meglio di prima.
Che cosa fosse quella fame lo spiega chiaramente un medico:
settecento calorie al giorno, pane compreso. Capisci cosa vuol dire? (...) Potranno dire quello che vogliono. Carne di maiale distribuita nel mese di settembre: 2550 quintali? Benissimo. dividi. dividi per trenta giorni, poi per un milione e trecentosessantamila persone. E sai cosa ti dà? Sette grammi al giorno. (...) Sono dieci calorie (...) [e un uomo normale] se lavora consuma almeno duemila e cinquecento calorie.
La conseguenza è un incremento drammatico della mortalità infantile - salita a circa il 40% - e un aumento delle mense popolari, frequentate per la maggior parte da impiegati e professionisti, quasi sempre imbarazzati dal trovarsi lì (il tema tornerà in altre puntate dell'inchiesta): sono centoventitre, gestite da quattro diversi enti, e distribuiscono tra i duecentomila e i duecentotrentamila pasti al giorno.

Gli ospedali, "Cosmopolita" 21 ottobre 1944


L'inchiesta di Cosmopolita su Roma inizia con un viaggio negli ospedali cittadini, realizzata da Brunello Vandano, che visita il Policlinico Umberto I - "l'ospedale dei poveri", descritto come un "fortino" - e l'ospedale di San Giovanni, definito "il peggior ospedale di Roma".
Manca tutto, scrive Vandano: non ci sono biancheria e lenzuola, né guanti sterili e al San Giovanni si opera con le formiche in sala, senza anestesia né filo di sutura e, quando manca la corrente elettrica -  cosa che avviene spesso -, gli interventi sono fatti alla luce delle lampadine tascabili.
Una lotta che ha dell'epico si svolge (...) al Policlinico, come in molti altri ospedali, per sopperire alla mancanza di medicinali. E' avvenuto da qualche tempo un ripiegamento su medicinali vecchi e superati (...). Il laboratorio centrale del Policlinico non è in grado di funzionale. Al laboratorio analisi manca il gas, e spesso anche l'acqua viene meno. Manca o scarseggia il cloruro di sodio, e così l'acido solforico. (...) Infine manca una delle sostanze fondamentali, l'alcool. Eppure - ci si dice - l'alcool a Roma c'è (...) ma solo a borsa nera. Ora, il policlinico non fa borsa nera. (...) Questo è giusto, ma non toglie che si possa rimanere perplessi: di fronte a formidabili necessità è lecito o no venire a patti? (...)
Cosmopolita registrava in questo modo l'assottigliarsi del confine tra il lecito e l'illecito, nella Roma di fine 1944.
Così come, nelle righe dell'inchiesta, emergeva la spinta ad una trasformazione dei costumi e della morale, ad una non meglio indicata palingenesi sociale ed economica che, per il momento, si limitava alla critica, anche radicale. Così, ad esempio, veniva censurato l'istituto delle cliniche universitarie del policlinico dove, sosteneva Vandano,
il paziente è sottoposto allo sfruttamento culturale. (...) Ma non è giusto che un ammalato che non ha i mezzi per curarsi in una clinica a pagamento sia costretto per sopravvivere a diventare oggetto d'osservazione e di studio. (...) Siamo di fronte ad una delle mille articolazioni della crudele fondamentale legge della società capitalista, per cui tutto si deve pagare, e pagare in denaro, e pagare a interesse; per cui l'uomo non ha alcun diritto in quanto uomo, e nella vita non è elemento di misura il bisogno, ma il potere che ha l'individuo di restituire assicurando, con la folle distensione della ricchezza nel tempo, il guadagno del creditore.

"Roma". Un'inchiesta, settant'anni dopo

Settant'anni fa oggi, il 14 ottobre 1944, il settimanale romano Cosmopolita iniziava a pubblicare nella sua ultima pagina un'inchiesta su Roma e sui suoi "problemi sociali ed economici".
Essa, scrivevano i redattori,
non avrà intento demagogico ma solo di chiarificazione morale e di avvicinamento spirituale dei cittadini sul piano del coraggio e della sincerità.
E poi, ancora:
se l'inchiesta su Roma scoprirà tragedie, sozzure, bassezze, truffe, servilismi, egoismi, idiozie, impreparazione, scoprirà anche le cause più forti dell'uomo che portano l'uomo a tanta miseria, che però mai riusciranno a svuotarlo della sua essenza triste ma sublime di angelo decaduto.
C'è in queste parole tutto lo spirito della Roma di fine '44, quando l'euforia della liberazione iniziava ad essere indolentemente sostituita da un sentimento di disincanto, che sarebbe presto scolorato in qualcosa di peggio.

Settant'anni dopo, oggi, vorrei dare il mio piccolo contributo alle celebrazioni del settantesimo della liberazione, trascrivendo in tutto o in parte gli articoli che componevano quell'inchiesta e che, settimana dopo settimana, raccontavano a sé stessa una città dove si viveva come se la guerra fosse già finita e si provava ad immaginare quale strada avrebbe imboccato l'Italia.



Se vi interessa saperlo, io ho "scoperto" Cosmopolita, uno dei settimanali più brillanti e interessanti di quella "vampata" della stampa (per usare le parole di Paolo Murialdi) che caratterizzò il panorama editoriale romano subito dopo la liberazione della città per un paio d'anni, all'epoca della mia tesi di laurea. Poi ci sono tornato con alcuni articoli, in varie occasioni: l'ultima è stata nel giugno 2004, dieci anni fa, nel convegno Roma 1944-45: una stagione di speranze, organizzato dall'Irsifar, Istituto Romano per la Storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza (qui trovate il volume de L'Annale Irsifar che ne è stato tratto). 
Prima di allora avevo scritto un saggio su Problemi dell'Informazione (n. 2/1997), dedicato in particolar modo al panorama della stampa, e uno sulla Rivista storica del Lazio (n.6/1997) in cui mi occupavo soprattutto delle condizioni della città (potete leggerlo seguendo questo link).
Con questa serie di post, in qualche misura, chiudo un cerchio per tornare dove tutto è iniziato: una bella sensazione, in fin dei conti.

"Fratelli tute blu...": un articolo per "Mondo Contemporaneo"

Premessa: più di un anno fa scrivevo questo post, raccontandovi che avrei partecipato ad un convegno sul 1977 organizzato al Senato da un gruppo di giovani storici.
Il convegno - il cui titolo era Italia 1977: ambivalenze di una modernità - andò bene: molte relazioni erano interessanti e lanciavano sguardi non scontati su un anno che è sempre stato difficile raccontare.

Oggi: i frutti di quel convegno hanno preso la forma di un numero monografico della rivista "Mondo Contemporaneo" (n.1/2014). Qui trovate l'indice.
Nel frattempo, il mio intervento ha cambiato titolo.
Più di un anno fa lo avevo intitolato "Amerei dimenticare", prendendo la frase dall'incipit di una scritta su un muro che secondo me spiegava bene il rapporto conflittuale fra mondo giovanile, mondo operaio, lavoro e Pci. («Sopra un muro ho trovato scritto “Amerei dimenticare” e falce e martello, specialmente falce e martello, che nel ’77 era il simbolo del lavoro», diceva la frase).
Ora, per esigenze di maggiore chiarezza, ho preferito cambiarlo con la citazione di un frammento di un verso di Coda di Lupo, in cui De Andrè cantava - ve lo ricordate? -

Ed ero già vecchio quando vicino a Roma 
a Little Big Horn 
capelli corti generale ci parlò all'Università 
dei fratelli tute blu che seppellirono le asce 
ma non fumammo con lui non era venuto in pace 
e a un dio fatti il culo non credere mai.
Se vi interessa, qui, sul sito dell'editore, trovate l'abstract e l'incipit dell'articolo.

una rivoluzione all'indietro (aspettando il nuovo corso di Dylan Dog)

Ormai è un anno che il sasso è stato lanciato ma il suo effetto nello stagno dei lettori di fumetti, invece che diminuire col tempo, ha raggiunto le proporzioni di uno tsunami.
Uno splendido ritratto di Dylan Dog,
realizzato da Lorezo Ceccotti (LRNZ)
per la copertina dell'ultimo Dylan Dog Color Fest
Fuor di metafora (nemmeno tanto riuscita: scusate), è ormai un anno che si aspetta il nuovo corso di Dylan Dog che, voluto dal creatore Tiziano Sclavi, ha investito della responsabilità e dell'onore di rilanciare il personaggio Roberto Recchioni, bravo - in alcune prove anche ottimo - sceneggiatore, disegnatore, profondo conoscitore del medium fumetto e, in generale, dei media, dal cinema al web, che è capace come pochi altri di utilizzare come cassa di risonanza per i propri lavori (prima che lo semi-abbandonasse migrando su facebook, il suo blog Pronto alla resa era uno dei più seguiti in Italia).
Di recente Recchioni ha rilasciato un'intervista a Vanity Fair (da lui stesso definita come "la migliore intervista che mi è stata fatta a proposito del nuovo Dylan") in cui, in sostanza, parla della imminente "rivoluzione" su Dylan Dog come di un "ritorno alle origini". Probabilmente è proprio la strada giusta per ridare al personaggio quella forza "rivoluzionaria" che aveva avuto nel 1986, quando era arrivato in edicola, e che poi, col tempo, si era smarrita (per ricomparire a tratti).
Ma dove risiedeva quella magia che fece di Dyd, oltre che un successo editoriale, un fenomeno di costume? perché chi lo leggeva - e aveva l'età giusta - scopriva di non essere solo, come annota giustamente il Rrobbe nella sua intervista a Vanity Fair? che cosa faceva, cioè, di Dylan Dog un fenomeno identitario, cosa che gli ha permesso di resistere a lunghi periodi di sceneggiature opache, in cui ciò che lo aveva reso speciale si rovesciava in un odioso luogo comune?

Le risposte possibili sono davvero molte, e ogni lettore avrà le sue. Le prime che mi vengono in mente (e non penso di essere particolarmente originale) sono: le sceneggiature perfette e geniali di Sclavi, con i loro giochi di citazioni e rimandi, colte e pop allo stesso tempo.
L'originalità dei disegni: il tratto spigoloso, schieliano direi, di Angelo Stano sul primo numero e le ombre alla Battaglia di Roi sul quarto, per non dirne che due, io non le avevo mai viste nelle mie esperienze di lettore fino ad allora (o meglio: le avevo viste sì, ma sulle riviste, non sui fumetti della stessa casa editrice di Tex. E sicuramente non su Tex).
L'ironia.
Il fatto che riuscissi a ritrovare la mia sensibilità di diciassettenne (le mie incertezze, i miei sogni, i miei ideali...) nel protagonista, che sicuramente non aveva diciassette anni.
eccetera
eccetera
eccetera
(e ogni lettore può completare la lista con le sue risposte preferite)

Se però cerco di andare oltre i ricordi di lettore, con quella patina di nostalgia che inevitabilmente li colora, credo che ci sia qualcosa di più.
Penso infatti che una delle chiavi del successo di Dylan Dog sia derivato dall'essere stato capace di intercettare lo spirito del tempo - degli anni Ottanta, e poi, almeno in parte, dei Novanta -, non per adeguarvisi ma per criticarlo. E criticarlo, diciamo pure smontarlo, con le armi della stessa cultura popolare che stava costruendo quell'immaginario.
Per dire: nel 1986, mentre in edicola arriva Dylan Dog, al cinema c'è 9 settimane e mezzo. In quel film, certo, c'è Kim Basinger che si spoglia al ritmo di You can leave your hat on di Joe Cocker: ed è forse questa la scena che è rimasta piantata nell'immaginario collettivo. Ma c'è anche Mickey Rourke che incarna lo spirito yuppie quando spiega che il suo lavoro è "fare soldi con i soldi". Dylan, invece, di soldi ne chiede pochi - appena "cinquanta sterline al giorno più le spese" - e spesso vi rinuncia pure.
Dite che è solo una coincidenza? Ma è proprio questo che mi sembra interessante: non credo che gli autori abbiano cercato questa corrispondenza inversa ed è dunque proprio la sua casualità a renderla significativa di qualcosa di più profondo. Credo allora che se andassimo a guardare con attenzione le storie, cercando i possibili punti di contatto con l'immaginario collettivo che si andava allora formando, ne troveremmo diverse altre. E' un lavoro un po' lungo da fare: quasi un buono spunto per un saggio (se mai ci fosse qualcuno disposto a pubblicarlo...) ma sicuramente troppo per un post.
Però, seguendo questa linea di riflessione, mi sembra chiaro che l'ethos individualista degli anni '80 (per dirla con le parole di Marco Gervasoni) e quello di Dylan Dog sono in perfetta contrapposizione: empatia e attenzione nei confronti dell'altro caratterizzano l'atteggiamento morale e il comportamento dell'indagatore dell'incubo, laddove i modelli di comportamento diffusi sembrano invece indulgere ad un atteggiamento (appunto) individualista, concentrato su se stessi e sulla propria possibilità di raggiungere gli obiettivi che ci si è dati, anche a scapito degli altri (erano gli anni in cui si diffondeva l'idea che, come diceva Margaret Thatcher, "la società non esiste, esistono solo gli individui...").
In realtà, questo scontro fra diversi ethos è addirittura più profondo. Uno dei concetti portanti della "filosofia" di Dylan Dog (se siete fra coloro che credono che il fumetto sia roba da bambini e che non sia possibile parlarne, ricredetevi: per esempio qui e qui), è che "i mostri siamo noi", massima che a me sembra essere un rovesciamento dell'ethos individualistico in una profonda assunzione di responsabilità, piena di senso civico (vi dice niente Johnny Freak?).
Oppure, ancora, prendete una delle caratteristiche di Dylan, il suo romanticismo: non è in perfetta contrapposizione con il cinismo che sembra diventare così diffuso in quegli anni?

E allora, tornando all'inizio di questo post, il ritorno alle origini può senz'altro essere una buona strada per un rinnovamento profondo della serie senza che questo significhi stravolgerne la filosofia. A me sembra che alcune delle storie di Roberto Recchioni (o di Paola Barbato, per citare un'altra eccellente sceneggiatrice della serie) si siano mosse in quella direzione: penso ad esempio a Mather Morbi e a Il giudizio del corvo, entrambe vicende che cercano di mettere a nudo il nocciolo pulsante dell'umanità di Dylan scarnificandone il personaggio.

Rimane un punto interrogativo: Recchioni si è formato con quella e di quella cultura, come appare chiaro in molti suoi lavori, ispirati (oltre che a molte altre cose) all'immaginario degli anni '80 e, soprattutto, '90. Potrebbe quindi venire meno quella distanza critica che - immagino - nutrisse Sclavi quando scriveva alcune storie dylaniate. Ma Recchioni è troppo intelligente per cadere in questa trappola e non aderire al "canone" Dylan Dog, snaturandone una delle intime nature.
Forse, invece, ciò che bisognerà fare (e che mi sembra, dalle anticipazioni che sono state fatte trapelare, abbiano in animo di fare) sarà aggiornare ai nostri tempi quella che ho chiamato una corrispondenza inversa: per rinnovarsi Dylan dovrà tornare ad essere in sintonia con i suoi tempi (che sono quelli dei lettori di oggi, e non quelli in cui è nato), estrarne il nucleo profondo e mostrarlo a tutti, grondante contraddizioni e orrori, insieme al proprio cuore, pulsante e sanguinante.
Insomma, levarsi la maschera, ormai un po' screpolata, dell'indagatore dell'incubo e tornare ad essere Dylan.

un viaggio lungo novant'anni nell'immaginario italiano (sulla mostra del LUCE)

Sono mesi, ormai, che questo blog tace. E allora, per contrappasso, mi sembra divertente tornare a farlo parlare quando tutti gli altri stanno zitti, giustamente impegnati ad arrostirsi sulle spiagge o a far prendere aria ai neuroni in montagna: a ferragosto.
A chiunque vorrà perdere un po' di tempo da queste parti, buona lettura.

C'erano due modi per raccontare i novant'anni dell'Istituto Luce, uno facile e uno difficile.
Si poteva percorrere un sentiero sicuro, poco rischioso, e anche - tutto sommato - poco interessante: rievocarne la storia in modo lineare, utilizzando l'immenso patrimonio di immagini come documenti capaci di parlare da soli. Una via didascalica, già molte volte seguita: forse poco emozionante (se non per le sensazioni che ogni spettatore avrebbe potuto sentire come un'eco in risposta alle immagini) ma in fondo sicura.
E poi si poteva percorrere un sentiero più difficile e pieno di rischi: prendere un concetto quasi abusato, di difficile definizione ma di facile intuizione, l'immaginario italiano, e lavorare su di esso e sul modo in cui l'Istituto Luce lo ha intercettato, attraversato, costruito nel corso dei suoi novant'anni di vita.
E' stata questa la via scelta dai curatori (Gabriele D'Autilia e Roland Sejko, rispettivamente per la parte scientifica e artistica) della mostra LUCE l'immaginario italiano che sarà in esposizione al Complesso del Vittoriano a Roma fino al 21 settembre.
Ho visto la mostra qualche tempo fa e se ve ne parlo è perché vale la pena visitarla, e magari tornarci più di una volta.
Il sentiero impervio che hanno percorso i curatori, va detto subito, paga: hanno rischiato ma hanno ottenuto qualcosa di nuovo e bello. Questo non significa che non ci siano problemi, e ne parleremo. Prima, però, va sottolineato quello che funziona.
Funziona il percorso espositivo, che è allo stesso tempo cronologico, tematico e costruito per assonanze o contrapposizioni visuali.
Funzionano l'allestimento e la scenografia: i testi sono didascalici quel tanto che serve a permettere di orientarsi ai visitatori che non conoscono la storia del Luce (e quella dell'Italia a cui essa si sovrappone). Ma contengono piccole osservazioni, annotazioni, rimandi che coinvolgono - anche in modo critico - il visitatore più attento e lo studioso. La scenografia, poi, rimanda alla grafica degli anni Trenta e Quaranta (e non poteva essere diversamente, vista la storia dell'Istituto) ma la modernizza quel tanto che basta a renderla attuale anche per i decenni successivi.
Soprattutto funzionano i video, che inevitabilmente costituiscono l'elemento caratterizzante dell'intero percorso narrativo-espositivo.
E' proprio in questi video che la scelta attualizzante e - oserei dire - ri-semantizzante degli autori emerge con tutta la sua forza. Voglio dire che la filosofia che, secondo me, guida l'allestimento è il far parlare al presente documenti e immagini del passato: non ci sono cartoline dal passato ma - quasi - sguardi sull'oggi, se non addirittura sul domani.
I video originali, così, sono stati mescolati, manipolati, rimontati, in modo che emergessero dalle stesse immagini (sottolineate, evidenziate, decontestualizzate e ricontestualizzate con giochi grafici eleganti e non banali) ciò che le immagini non vorrebbero (o non avrebbero dovuto, per gli anni Trenta e Quaranta) dire.

Qui c'è un piccolo saggio di quello che voglio dire: appena un divertissement in realtà, giusto per lanciare la mostra.


Nonostante questa sia la parte migliore della mostra (la regia dei video è di Roland Sejko), è anche la parte in cui si riscontrano alcuni problemi, soprattutto di audio: problemi di allestimento, dunque, mi viene da pensare. In effetti spesso l'audio dei diversi video si sovrappone, creando non poca confusione.
Ma, in realtà (e credo del tutto involontariamente), questo difetto finisce per enfatizzare il rimescolamento che è stato realizzato nei video, accentuando quella ri-semantizzazione delle immagini a cui accennavo prima: così, in una sala dedicata ai video di Mussolini, l'audio che accompagna la carrellata delle facce del Duce che si accinge a parlare alla folla è quello del video che lo fronteggia dall'altra parte del corridoio, dedicato ai cambiamenti del costume: si innesca un cortocircuito straniante ma terribilmente efficace che dà un senso nuovo alle espressioni di Mussolini, viste mille e mille volte nei mille e mille documentari a lui dedicati.
E, per inciso, anche in questo caso gli autori hanno saputo guardare oltre il luogo comune: il luogo comune (per il loro abuso nella storia "televisiva") sono, appunto, i discorsi di Mussolini, già visti e ascoltati decine e decine di volte a partire dall'antico (1998) Parla Mussolini di Nicola Caracciolo. Ma qui si vedono solo gli intermezzi, le attese, i silenzi, l'avvio (muto) dei discorsi o la loro conclusione, come se gli autori avessero voluto sottolineare che sono state soprattutto quelle espressioni, quelle posture, quelle mimiche, più che i contenuti dei discorsi che esse punteggiavano, a depositarsi nel nostro immaginario.

Un altro problema riguarda gli anni Sessanta e Settanta, perché qui l'immaginario degli italiani cambia anche - e soprattutto - per mezzo della televisione. E la televisione è - gioco forza - assente (o quasi) nei materiali dell'Archivio Luce (che poi sono anche i cinegiornali della Settimana Incom e tutte le altre acquisizioni che negli anni l'Istituto ha potuto fare).
Ancora una volta gli autori cercano di superare il problema giocando sull'allestimento, con pannelli video di grande effetto nei quali ci si perderebbe volentieri.
E tuttavia rimane il problema di fondo che è stato soprattutto l'immaginario italiano della prima metà del Novecento ad essere attraversato e modellato - addirittura, in qualche misura, anche fondato - dal Luce. Il suo ruolo nel dopoguerra diventa sempre più marginale e, per quanto i curatori ne siano pienamente consapevoli e siano bravi ad indicare altri percorsi (come quello che vede il Luce produttore cinematografico, o fotografo), l'immaginario nella seconda metà del secolo c'è solo in parte. Li aiuta, certo, il fatto che concentrarsi sull'immaginario abbia voluto dire allontanarsi metaforicamente dalla storia politica per concentrarsi soprattutto su quella sociale (con ampie aperture al costume), cosa che gli permette di sfruttare al meglio le immagini degli anni Sessanta e Settanta quando i cinegiornali hanno sempre più come modello il rotocalco e sempre meno il quotidiano: ma le assenze si sentono.
Così come si sente, almeno in qualche sezione, la mancanza di didascalie che indichino gli autori dei filmati originali: certo, il lavoro di ricontestualizzazione dei video è in contrasto concettuale con questo tipo di didascalie filologiche; e tuttavia la sala d'ingresso (dedicata ai primissimi video Luce, di natura educativa) e quella riservata ai documentari "d'autore" si sarebbero senz'altro giovate di questa ulteriore informazione.

Ma, in fin dei conti, sono poche e marginali osservazioni critiche (anche se qualcun'altra se ne potrebbe fare) di fronte ad un lavoro notevole che ha il suo maggior pregio nel far "vivere" l'archivio Luce, facendolo parlare al presente e non più solo al passato.

tante immagini per salutare il primo di maggio

Per ricordare il primo maggio di quest'anno mi affido a Rai Storia e alla selezione di immagini che hanno fatto. Le trovate se seguite questo link: Da Chicago a Roma: storia per immagini del Primo Maggio - Rai Storia
Ma se non vi bastano e volete provare a capire un po' meglio che cosa sia stato il primo maggio, eccovene un altro po', tratte dal canale youtube della British Pathé:

Un primo maggio londinese nel 1920


E poi a Roma, nel 1955


Dite che ci sono un po' poche bandiere rosse? E ci sono un po' troppe immagini di piazza San Pietro? Certo, perché quello del 1955 è stato un primo maggio particolare: la chiesa festeggiava infatti, su indicazione delle Acli, San Giuseppe artigiano (leggete qui il discorso del Papa alle Acli) . E il conflitto simbolico che questa scelta sottendeva è entrato così profondamente nell'immaginario collettivo da diventare la sequenza di apertura de La dolce vita


Tre anni dopo la Pathé ci racconta l'intervento della polizia a Londra

e le sfilate a piazza San Venceslao, in Cecoslovacchia


...e buon primo maggio
 
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