una rivoluzione all'indietro (aspettando il nuovo corso di Dylan Dog)

Ormai è un anno che il sasso è stato lanciato ma il suo effetto nello stagno dei lettori di fumetti, invece che diminuire col tempo, ha raggiunto le proporzioni di uno tsunami.
Uno splendido ritratto di Dylan Dog,
realizzato da Lorezo Ceccotti (LRNZ)
per la copertina dell'ultimo Dylan Dog Color Fest
Fuor di metafora (nemmeno tanto riuscita: scusate), è ormai un anno che si aspetta il nuovo corso di Dylan Dog che, voluto dal creatore Tiziano Sclavi, ha investito della responsabilità e dell'onore di rilanciare il personaggio Roberto Recchioni, bravo - in alcune prove anche ottimo - sceneggiatore, disegnatore, profondo conoscitore del medium fumetto e, in generale, dei media, dal cinema al web, che è capace come pochi altri di utilizzare come cassa di risonanza per i propri lavori (prima che lo semi-abbandonasse migrando su facebook, il suo blog Pronto alla resa era uno dei più seguiti in Italia).
Di recente Recchioni ha rilasciato un'intervista a Vanity Fair (da lui stesso definita come "la migliore intervista che mi è stata fatta a proposito del nuovo Dylan") in cui, in sostanza, parla della imminente "rivoluzione" su Dylan Dog come di un "ritorno alle origini". Probabilmente è proprio la strada giusta per ridare al personaggio quella forza "rivoluzionaria" che aveva avuto nel 1986, quando era arrivato in edicola, e che poi, col tempo, si era smarrita (per ricomparire a tratti).
Ma dove risiedeva quella magia che fece di Dyd, oltre che un successo editoriale, un fenomeno di costume? perché chi lo leggeva - e aveva l'età giusta - scopriva di non essere solo, come annota giustamente il Rrobbe nella sua intervista a Vanity Fair? che cosa faceva, cioè, di Dylan Dog un fenomeno identitario, cosa che gli ha permesso di resistere a lunghi periodi di sceneggiature opache, in cui ciò che lo aveva reso speciale si rovesciava in un odioso luogo comune?

Le risposte possibili sono davvero molte, e ogni lettore avrà le sue. Le prime che mi vengono in mente (e non penso di essere particolarmente originale) sono: le sceneggiature perfette e geniali di Sclavi, con i loro giochi di citazioni e rimandi, colte e pop allo stesso tempo.
L'originalità dei disegni: il tratto spigoloso, schieliano direi, di Angelo Stano sul primo numero e le ombre alla Battaglia di Roi sul quarto, per non dirne che due, io non le avevo mai viste nelle mie esperienze di lettore fino ad allora (o meglio: le avevo viste sì, ma sulle riviste, non sui fumetti della stessa casa editrice di Tex. E sicuramente non su Tex).
L'ironia.
Il fatto che riuscissi a ritrovare la mia sensibilità di diciassettenne (le mie incertezze, i miei sogni, i miei ideali...) nel protagonista, che sicuramente non aveva diciassette anni.
eccetera
eccetera
eccetera
(e ogni lettore può completare la lista con le sue risposte preferite)

Se però cerco di andare oltre i ricordi di lettore, con quella patina di nostalgia che inevitabilmente li colora, credo che ci sia qualcosa di più.
Penso infatti che una delle chiavi del successo di Dylan Dog sia derivato dall'essere stato capace di intercettare lo spirito del tempo - degli anni Ottanta, e poi, almeno in parte, dei Novanta -, non per adeguarvisi ma per criticarlo. E criticarlo, diciamo pure smontarlo, con le armi della stessa cultura popolare che stava costruendo quell'immaginario.
Per dire: nel 1986, mentre in edicola arriva Dylan Dog, al cinema c'è 9 settimane e mezzo. In quel film, certo, c'è Kim Basinger che si spoglia al ritmo di You can leave your hat on di Joe Cocker: ed è forse questa la scena che è rimasta piantata nell'immaginario collettivo. Ma c'è anche Mickey Rourke che incarna lo spirito yuppie quando spiega che il suo lavoro è "fare soldi con i soldi". Dylan, invece, di soldi ne chiede pochi - appena "cinquanta sterline al giorno più le spese" - e spesso vi rinuncia pure.
Dite che è solo una coincidenza? Ma è proprio questo che mi sembra interessante: non credo che gli autori abbiano cercato questa corrispondenza inversa ed è dunque proprio la sua casualità a renderla significativa di qualcosa di più profondo. Credo allora che se andassimo a guardare con attenzione le storie, cercando i possibili punti di contatto con l'immaginario collettivo che si andava allora formando, ne troveremmo diverse altre. E' un lavoro un po' lungo da fare: quasi un buono spunto per un saggio (se mai ci fosse qualcuno disposto a pubblicarlo...) ma sicuramente troppo per un post.
Però, seguendo questa linea di riflessione, mi sembra chiaro che l'ethos individualista degli anni '80 (per dirla con le parole di Marco Gervasoni) e quello di Dylan Dog sono in perfetta contrapposizione: empatia e attenzione nei confronti dell'altro caratterizzano l'atteggiamento morale e il comportamento dell'indagatore dell'incubo, laddove i modelli di comportamento diffusi sembrano invece indulgere ad un atteggiamento (appunto) individualista, concentrato su se stessi e sulla propria possibilità di raggiungere gli obiettivi che ci si è dati, anche a scapito degli altri (erano gli anni in cui si diffondeva l'idea che, come diceva Margaret Thatcher, "la società non esiste, esistono solo gli individui...").
In realtà, questo scontro fra diversi ethos è addirittura più profondo. Uno dei concetti portanti della "filosofia" di Dylan Dog (se siete fra coloro che credono che il fumetto sia roba da bambini e che non sia possibile parlarne, ricredetevi: per esempio qui e qui), è che "i mostri siamo noi", massima che a me sembra essere un rovesciamento dell'ethos individualistico in una profonda assunzione di responsabilità, piena di senso civico (vi dice niente Johnny Freak?).
Oppure, ancora, prendete una delle caratteristiche di Dylan, il suo romanticismo: non è in perfetta contrapposizione con il cinismo che sembra diventare così diffuso in quegli anni?

E allora, tornando all'inizio di questo post, il ritorno alle origini può senz'altro essere una buona strada per un rinnovamento profondo della serie senza che questo significhi stravolgerne la filosofia. A me sembra che alcune delle storie di Roberto Recchioni (o di Paola Barbato, per citare un'altra eccellente sceneggiatrice della serie) si siano mosse in quella direzione: penso ad esempio a Mather Morbi e a Il giudizio del corvo, entrambe vicende che cercano di mettere a nudo il nocciolo pulsante dell'umanità di Dylan scarnificandone il personaggio.

Rimane un punto interrogativo: Recchioni si è formato con quella e di quella cultura, come appare chiaro in molti suoi lavori, ispirati (oltre che a molte altre cose) all'immaginario degli anni '80 e, soprattutto, '90. Potrebbe quindi venire meno quella distanza critica che - immagino - nutrisse Sclavi quando scriveva alcune storie dylaniate. Ma Recchioni è troppo intelligente per cadere in questa trappola e non aderire al "canone" Dylan Dog, snaturandone una delle intime nature.
Forse, invece, ciò che bisognerà fare (e che mi sembra, dalle anticipazioni che sono state fatte trapelare, abbiano in animo di fare) sarà aggiornare ai nostri tempi quella che ho chiamato una corrispondenza inversa: per rinnovarsi Dylan dovrà tornare ad essere in sintonia con i suoi tempi (che sono quelli dei lettori di oggi, e non quelli in cui è nato), estrarne il nucleo profondo e mostrarlo a tutti, grondante contraddizioni e orrori, insieme al proprio cuore, pulsante e sanguinante.
Insomma, levarsi la maschera, ormai un po' screpolata, dell'indagatore dell'incubo e tornare ad essere Dylan.

un viaggio lungo novant'anni nell'immaginario italiano (sulla mostra del LUCE)

Sono mesi, ormai, che questo blog tace. E allora, per contrappasso, mi sembra divertente tornare a farlo parlare quando tutti gli altri stanno zitti, giustamente impegnati ad arrostirsi sulle spiagge o a far prendere aria ai neuroni in montagna: a ferragosto.
A chiunque vorrà perdere un po' di tempo da queste parti, buona lettura.

C'erano due modi per raccontare i novant'anni dell'Istituto Luce, uno facile e uno difficile.
Si poteva percorrere un sentiero sicuro, poco rischioso, e anche - tutto sommato - poco interessante: rievocarne la storia in modo lineare, utilizzando l'immenso patrimonio di immagini come documenti capaci di parlare da soli. Una via didascalica, già molte volte seguita: forse poco emozionante (se non per le sensazioni che ogni spettatore avrebbe potuto sentire come un'eco in risposta alle immagini) ma in fondo sicura.
E poi si poteva percorrere un sentiero più difficile e pieno di rischi: prendere un concetto quasi abusato, di difficile definizione ma di facile intuizione, l'immaginario italiano, e lavorare su di esso e sul modo in cui l'Istituto Luce lo ha intercettato, attraversato, costruito nel corso dei suoi novant'anni di vita.
E' stata questa la via scelta dai curatori (Gabriele D'Autilia e Roland Sejko, rispettivamente per la parte scientifica e artistica) della mostra LUCE l'immaginario italiano che sarà in esposizione al Complesso del Vittoriano a Roma fino al 21 settembre.
Ho visto la mostra qualche tempo fa e se ve ne parlo è perché vale la pena visitarla, e magari tornarci più di una volta.
Il sentiero impervio che hanno percorso i curatori, va detto subito, paga: hanno rischiato ma hanno ottenuto qualcosa di nuovo e bello. Questo non significa che non ci siano problemi, e ne parleremo. Prima, però, va sottolineato quello che funziona.
Funziona il percorso espositivo, che è allo stesso tempo cronologico, tematico e costruito per assonanze o contrapposizioni visuali.
Funzionano l'allestimento e la scenografia: i testi sono didascalici quel tanto che serve a permettere di orientarsi ai visitatori che non conoscono la storia del Luce (e quella dell'Italia a cui essa si sovrappone). Ma contengono piccole osservazioni, annotazioni, rimandi che coinvolgono - anche in modo critico - il visitatore più attento e lo studioso. La scenografia, poi, rimanda alla grafica degli anni Trenta e Quaranta (e non poteva essere diversamente, vista la storia dell'Istituto) ma la modernizza quel tanto che basta a renderla attuale anche per i decenni successivi.
Soprattutto funzionano i video, che inevitabilmente costituiscono l'elemento caratterizzante dell'intero percorso narrativo-espositivo.
E' proprio in questi video che la scelta attualizzante e - oserei dire - ri-semantizzante degli autori emerge con tutta la sua forza. Voglio dire che la filosofia che, secondo me, guida l'allestimento è il far parlare al presente documenti e immagini del passato: non ci sono cartoline dal passato ma - quasi - sguardi sull'oggi, se non addirittura sul domani.
I video originali, così, sono stati mescolati, manipolati, rimontati, in modo che emergessero dalle stesse immagini (sottolineate, evidenziate, decontestualizzate e ricontestualizzate con giochi grafici eleganti e non banali) ciò che le immagini non vorrebbero (o non avrebbero dovuto, per gli anni Trenta e Quaranta) dire.

Qui c'è un piccolo saggio di quello che voglio dire: appena un divertissement in realtà, giusto per lanciare la mostra.


Nonostante questa sia la parte migliore della mostra (la regia dei video è di Roland Sejko), è anche la parte in cui si riscontrano alcuni problemi, soprattutto di audio: problemi di allestimento, dunque, mi viene da pensare. In effetti spesso l'audio dei diversi video si sovrappone, creando non poca confusione.
Ma, in realtà (e credo del tutto involontariamente), questo difetto finisce per enfatizzare il rimescolamento che è stato realizzato nei video, accentuando quella ri-semantizzazione delle immagini a cui accennavo prima: così, in una sala dedicata ai video di Mussolini, l'audio che accompagna la carrellata delle facce del Duce che si accinge a parlare alla folla è quello del video che lo fronteggia dall'altra parte del corridoio, dedicato ai cambiamenti del costume: si innesca un cortocircuito straniante ma terribilmente efficace che dà un senso nuovo alle espressioni di Mussolini, viste mille e mille volte nei mille e mille documentari a lui dedicati.
E, per inciso, anche in questo caso gli autori hanno saputo guardare oltre il luogo comune: il luogo comune (per il loro abuso nella storia "televisiva") sono, appunto, i discorsi di Mussolini, già visti e ascoltati decine e decine di volte a partire dall'antico (1998) Parla Mussolini di Nicola Caracciolo. Ma qui si vedono solo gli intermezzi, le attese, i silenzi, l'avvio (muto) dei discorsi o la loro conclusione, come se gli autori avessero voluto sottolineare che sono state soprattutto quelle espressioni, quelle posture, quelle mimiche, più che i contenuti dei discorsi che esse punteggiavano, a depositarsi nel nostro immaginario.

Un altro problema riguarda gli anni Sessanta e Settanta, perché qui l'immaginario degli italiani cambia anche - e soprattutto - per mezzo della televisione. E la televisione è - gioco forza - assente (o quasi) nei materiali dell'Archivio Luce (che poi sono anche i cinegiornali della Settimana Incom e tutte le altre acquisizioni che negli anni l'Istituto ha potuto fare).
Ancora una volta gli autori cercano di superare il problema giocando sull'allestimento, con pannelli video di grande effetto nei quali ci si perderebbe volentieri.
E tuttavia rimane il problema di fondo che è stato soprattutto l'immaginario italiano della prima metà del Novecento ad essere attraversato e modellato - addirittura, in qualche misura, anche fondato - dal Luce. Il suo ruolo nel dopoguerra diventa sempre più marginale e, per quanto i curatori ne siano pienamente consapevoli e siano bravi ad indicare altri percorsi (come quello che vede il Luce produttore cinematografico, o fotografo), l'immaginario nella seconda metà del secolo c'è solo in parte. Li aiuta, certo, il fatto che concentrarsi sull'immaginario abbia voluto dire allontanarsi metaforicamente dalla storia politica per concentrarsi soprattutto su quella sociale (con ampie aperture al costume), cosa che gli permette di sfruttare al meglio le immagini degli anni Sessanta e Settanta quando i cinegiornali hanno sempre più come modello il rotocalco e sempre meno il quotidiano: ma le assenze si sentono.
Così come si sente, almeno in qualche sezione, la mancanza di didascalie che indichino gli autori dei filmati originali: certo, il lavoro di ricontestualizzazione dei video è in contrasto concettuale con questo tipo di didascalie filologiche; e tuttavia la sala d'ingresso (dedicata ai primissimi video Luce, di natura educativa) e quella riservata ai documentari "d'autore" si sarebbero senz'altro giovate di questa ulteriore informazione.

Ma, in fin dei conti, sono poche e marginali osservazioni critiche (anche se qualcun'altra se ne potrebbe fare) di fronte ad un lavoro notevole che ha il suo maggior pregio nel far "vivere" l'archivio Luce, facendolo parlare al presente e non più solo al passato.

tante immagini per salutare il primo di maggio

Per ricordare il primo maggio di quest'anno mi affido a Rai Storia e alla selezione di immagini che hanno fatto. Le trovate se seguite questo link: Da Chicago a Roma: storia per immagini del Primo Maggio - Rai Storia
Ma se non vi bastano e volete provare a capire un po' meglio che cosa sia stato il primo maggio, eccovene un altro po', tratte dal canale youtube della British Pathé:

Un primo maggio londinese nel 1920


E poi a Roma, nel 1955


Dite che ci sono un po' poche bandiere rosse? E ci sono un po' troppe immagini di piazza San Pietro? Certo, perché quello del 1955 è stato un primo maggio particolare: la chiesa festeggiava infatti, su indicazione delle Acli, San Giuseppe artigiano (leggete qui il discorso del Papa alle Acli) . E il conflitto simbolico che questa scelta sottendeva è entrato così profondamente nell'immaginario collettivo da diventare la sequenza di apertura de La dolce vita


Tre anni dopo la Pathé ci racconta l'intervento della polizia a Londra

e le sfilate a piazza San Venceslao, in Cecoslovacchia


...e buon primo maggio

con le ali legate

La cultura in Abruzzo non se la passa bene.
Giusto per dare qualche cifra indicativa, nel 2011 la graduatoria di quelli che si è soliti chiamare "consumi culturali" era questa:
su 1.266.000 abitanti (oltre i sei anni), il 58,8% è andata al cinema, il 33,8% ha assistito ad uno spettacolo sportivo, il 24,2% è andata a sentire un concerto (ma solo l'8,1% un concerto di musica classica); il 23,7% è andata in un museo e il 23,2% ha frequentato discoteche, balere o simili, il 19,7% è andato a teatro e il 17% ha visitato un sito archeologico o un monumento (si tratta di dati istat e se vi interessa il dettaglio, andate qui).

Lo scandalo che ha visto protagonista l'assessore regionale alla cultura e che, per i suoi toni boccacceschi (o forse da commedia pecoreccia dei tardi anni Settanta, non saprei), ha ottenuto una certa visibilità nelle cronache nazionali (volete un promemoria? ecco qui), non ha fatto che aggravare le cose.
O forse, semplicemente, rivelarle.

Fatto sta che, nell'imminenza delle elezioni regionali, sono molti i soggetti privati e pubblici che si stanno muovendo per richiamare l'attenzione sul ruolo centrale che la cultura può e deve svolgere nell'agenda politica regionale. Lo sta facendo il Club Unesco Città di Pescara che, attraverso il lavoro di un focus group, vuole individuare i punti centrali di un piano straordinario per la cultura in Abruzzo (trovate qui il comunicato stampa). Lo ha fatto l'Università di Teramo che, insieme alla Provincia, ha organizzato l'11 aprile scorso un incontro intitolato #tesorocultura: qui, qui, qui e qui trovate una breve rassegna stampa dell'evento, in cui si accenna anche al video che ho realizzato insieme ad alcuni studenti della facoltà di Scienze della comunicazione su questo tema.

Abbiamo scelto di intitolarlo Con le ali legate. Impressioni sulla cultura in Abruzzo e potete vederlo qui sotto (ma visualizzatelo direttamente su youtube, per vederlo meglio, che qui è un po' costretto).



Non è un reportage sullo stato della cultura in Abruzzo (che pure avrebbe meritato di essere fatto), né un viaggio sulle possibilità inespresse di una regione (cosa che certo non sarebbe di scarso interesse) ma solo una - come dire? - "fotografia emotiva" di quello che c'è qui ed ora, e dello stato d'animo di chi, per professione e per passione, guarda alla realtà della regione e di coloro che provano a fare cultura.
E' uno sguardo limitato, ristretto, come ristretto è il numero degli interlocutori.
Che tuttavia, per quanto pochi, sono stati pur sempre troppi per il minutaggio che ci eravamo dati come obiettivo iniziale.
Ci eravamo detti, progettando il lavoro: dieci minuti massimo; e pensavamo a sette.
Siamo arrivati a diciotto: e ce ne sarebbero voluti venti, o forse più.

Il fatto è che ci sarebbe tanto da dire. Tante riflessioni da fare e tante storie da raccontare. Storie di passione e di sacrificio, spesso. E fin troppo spesso, di sprechi e di dissipazioni (di risorse, bellezza, dedizione, amore). Ma anche storie di successi e di inesausta volontà. Tutte storie che aspettavano solo qualcuno che le volesse ascoltare.

Se questo video sarà anche solo un piccolo tassello di un percorso (lungo e faticoso) di risalita - e di rinascita, diciamolo pure - avrà fatto molto di più di quanto chi lo ha realizzato potesse sperare nel momento in cui lo stava facendo.

Noi abbiamo lavorato di corsa, come sempre accade in questi casi.
Ma ve lo posso dire con sincerità: è stato bello progettare e discutere con alcuni studenti di un tema del genere, così complesso e scivoloso; ragionare con loro sulle domande da fare; immaginare lo stile da adottare.
E' stato bello anche pensare soluzioni visive che poi non si sono potute adottare.
Scegliere.
Scartare.

E' stato un bel modo di fare università: certo diverso da una lezione; meno complesso - forse - di una dissertazione teorica. Ma un modo per crescere ed imparare, questo sì: di sicuro. Per loro e per me. E anche questa è cultura e trasmissione di sapere.


Una generazione d'emergenza ad Ascoli Piceno

Ecco qua:

 il 4 aprile, venerdì prossimo, alle 17,30 sono ad Ascoli Piceno per discutere insieme a Silvia Casilio del suo libro Una generazione d'emergenza (Le Monnier, Firenze). Il sottotitolo è L'Italia della controcultura e questa qui è la copertina:

Se volete qualche anticipazione in forma di recensione potete andare qui. E altre ne troverete, se vi farete un giro su internet.
Poi ne riparliamo venerdì.

Per ora vi dico solo che una delle cose che mi hanno colpito del libro non è nel libro, ma sul sito della casa editrice che sta facendo un lavoro secondo me utile: mettere a disposizione dei lettori dei materiali aggiuntivi, di vario genere (documentario, iconografico), che non sono potuti confluire nel volume. Per vederli seguite il link.
Si tratta di una sorta di compendio al già ricco materiale presente nel libro, utile per approfondire alcuni aspetti, ma anche per cogliere i processi di selezione che ha fatto l'autrice: selezione che, di fronte ad un materiale eterogeneo come quello di cui si è servita, è già parte del processo di analisi e di scrittura.

Potrebbe essere fatto meglio?
Potrebbe essere fatto meglio.
Non tanto dal punto di vista della selezione, nel cui merito non entro perché il libro non l'ho scritto io, ovviamente, ma da quello dell'organizzazione per il web. L'uso di pdf mi sembra una scorciatoia (di cui capisco le motivazioni, economiche e di funzionalità innanzitutto) che finisce per sminuire la forza dei materiali. Meglio sarebbe stato, secondo me, osare dei percorsi multimediali da consultare on line: si sarebbe, forse, rischiato di fare perdere il lettore fra tutti questi rimandi, ma certo lo si sarebbe portato anche a cogliere - almeno in parte - la complessità e l'eterogeneità di quella cultura a cui Silvia Casilio ha cercato di dare sistematicità.
Comunque una strada interessante che, percorsa in modo sistematico e con un minimo di investimenti, potrebbe rendere molto più permeabile il confine fra libri cartacei e digitali, soprattutto in ambito accademico (ma anche divulgativo).

Tra luoghi e mestieri, il giorno dopo (quasi una recensione)

Come vi avevo annunciato, ieri sono stato alla Casa della Memoria e della Storia di Roma per presentare Tra luoghi e mestieri, il libro pubblicato dalle edizioni Ca' Foscari e curato da Gilda Zazzara.
E' stata una bella occasione per discutere di lavoro, precarietà, identità, ma non è stata certo una presentazione - come dire? - ordinaria.
"Ragazzi, è stata una bella cosa. Non so esattamente cosa, ma è stata bella", ci hanno detto dal pubblico alla fine.
In effetti, assenze e presenze impreviste hanno finito per stravolgere il classico modulo della presentazione dei libri:
il moderatore introduce
parla il primo relatore
parla il secondo
"ci sono interventi dal pubblico?"
silenzio
"allora grazie a tutti".
E alla fine abbiamo fatto pure un piccolo aperitivo con il pubblico, in cui la discussione è continuata a piccoli gruppi, mischiandosi con le chiacchiere sull'attualità politica.
Naturalmente, non ho potuto usare il testo che avevo preparato. E allora lo metto qui sotto, quasi come se fosse una recensione.
Chi fosse interessato, può continuare dopo il salto.
Chi invece vuole leggersi il libro può seguire il link, perché la casa editrice lo ha pubblicato in forma digitale e gratuita.

Tra luoghi e mestieri: lunedì 24 febbraio

Lunedì 24 febbraio sarò alla Casa della memoria e della storia di Roma (Via S. Francesco di Sales, 5) per presentare questo libro.

Cominciamo alle 16, e avrò il piacere di parlarne con tre delle autrici (Gilda Zazzara, Eloisa Betti e Stefania Ficacci) e con Giovanni Contini.
Si tratta di un volume a più mani (gli altri autori sono Stefano Gallo, Maria Porzio e Eloisa Betti) che raccoglie alcuni saggi sul lavoro scritti da ricercatori giovani dal punto di vista anagrafico ma maturi per le capacità di ricerca e analisi.
Naturalmente, qui non vi anticipo niente di quello che dirò: se siete interessati - e siete a Roma - venite anche voi alla discussione.
Però voglio segnalarvi qualche elemento in più per inquadrare il libro (e magari farvi venire un po' di curiosità).
I saggi affrontano alcuni temi del lavoro: e già questo è un punto a loro favore, in epoca di deindustrializzazione, esternalizzazioni e lavoro che, dopo essersi fatto immateriale, sembra farsi sempre più evaniescente. Ma lo fanno raccontando lavori tanto inusuali (non perché poco frequenti ma perché poco indagati) quanto interessanti: i mille mestieri dei quartieri popolari di Roma, i lavoratori del mare di Torre del Greco, le rammendatrici vicentine e così via. E lo fanno soprattutto attraverso gli strumenti della storia orale, da una prospettiva che non si può più definire insolita ma che, più la si usa più continua a rivelarsi ricca dal punto di vista euristico.
 Del resto, le ricerche nascono all'interno di un seminario dell'Università Ca' Foscari di Venezia chiamato "Ascoltare il lavoro" (qui il programma dell'edizione 2013), un'iniziativa che ormai ha qualche anno e che mi auguro continuerà a lungo. Anche perché ascoltando questi lavori del passato (il cuore dei racconti si situa tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta) continuiamo a porci domande sui lavori di oggi, ma anche sul modo in cui il lavoro e i suoi mondi sono stati raccontati fin'ora, all'ombra di idee e categorie la cui compattezza sembra venire sempre più erosa dalle ricerche di oggi.

Ci vediamo lì, allora. (questa è la locandina: se ci cliccate sopra si ingrandisce)
Oppure - forse - ci rileggiamo da queste parti, così vi dico com'è andata e vi racconto qualcosa di più sul libro.
 
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