29 giugno 2013, ore 19, presso Citylights

Ecco, quella è la data della prima presentazione del libro Le parole e le figure che i 15 lettori di questo blog (e un po' di studenti di qualche università italiana) conoscono bene.
Certo, presentare viene da praesens, presente, mentre questo incontro avviene quasi un anno dopo la pubblicazione del libro: un po' in ritardo, dunque. Ma tant'è. Il proprietario (oddìo che brutta parola per una persona che è più che altro un ospite) della libreria-circolo culturale Citylights di Pescara, Filippo Montefusco, è stato così gentile da organizzare per me questo incontro e sono molto curioso di vedere come andrà. Per inciso, la sua libreria-caffé è uno di quei bei posti che trovi dove non ti aspetteresti mai: nel caso specifico tra una sopraelevata, un magazzino e un call-center, in uno di quegli strani angoli di città che, pur essendo centrali, sembrano piena periferia. E questo suo essere inaspettata e accogliente, la rende ancora più preziosa.
Però quello di cui volevo dirvi non è questo.
È che annunciando l'incontro, avevo preparato un piccolo, scherzoso invito, che giocasse con il tempo, con l'epoca raccontata nel libro, e l'avevo messo su facebook.
Eccolo qui.

Poi c'ho preso gusto e ne ho fatto un altro,  stavolta un po' più "moderno", usando il più arcaico dei moderni sistemi di comunicazione pubblicitaria
E infine, ieri, un altro ancora, reimpiegando una copertina del 1924 di Radio News.
Solo che qui si è innescato un fantastico cortocircuito culturale, di quelli che attraversano la storia dei media, dei consumi culturali e dell'immaginario collettivo. Perché quell'idea della "visione a distanza", così futuribile nel 1924, rinviava già allora ad idee precedenti come quelle del telefonoscopio di Robida. E sembra - oggi - fare concorrenza a quelle fantastiche e fittizie pubblicità vintage dei new media come quella che vedete qui sotto (oltre a skype ci sono anche quelle di youtube, di facebook ecc).
Coincidenze divententi, ma anche suggestioni che permettono di cogliere alcune dinamiche del modo in cui media e modernità sono presenti nel nostro immaginario collettivo. Cose di cui, magari, potremmo anche parlare domani sera, se vi andrà di venire.

Breaking News: (sabato 29, ore 11,30)
mi avvisano da Citylights che l'appuntamento è anticipato alle 18,30.
Lo prendo come un buon segno: spero voglia dire che chi condurrà l'incontro pensi ci siano molte cose di cui parlare.


In scomparsa di Silvio Lanaro

Ho saputo da poco che non molte ore fa è scomparso Silvio Lanaro.
Verrà il tempo delle commemorazioni, dei necrologi sui quotidiani, dei numeri speciali delle riviste dedicati alla sua memoria.
E verrà, per chi ne sarà capace, anche il tempo della riflessione sull'importanza del suo lavoro per la storia italiana.
Qui, ora, per me è solo il tempo del ricordo minimo, come spesso accade quando si apprendono notizie del genere.
Potrei dire infatti che Silvio Lanaro era l'autore di una Storia dell'Italia repubblicana che a lungo è stata - e che tuttora è, nonostante molti altri studi - una delle più importanti e influenti ricostruzioni delle vicende recenti del nostro paese. Oppure che il suo Nazione e lavoro, è uno dei saggi più illuminanti sulla cultura borghese del nostro paese.
Eppure non è quello che mi è venuto alla mente sapendo della sua scomparsa.
A me è venuto in mente l'incipit di un libro forse minore ma che andrebbe riscoperto: Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi. Un libro che lo stesso Lanaro scriveva nella premessa di non sapere bene che cosa fosse, e che forse era solo
il diario intellettuale di uno studioso che da oltre trent'anni prova smarrimento di fronte alla pagina bianca ogni volta che ha diligentemente termnato di raccogliere materiali. Il mio è un problema di scrittura, insomma. Ma scrittura non vuole dire solo efficacia comunicativa, rigore di argomentazione, rapporto corretto con le fonti, eleganza stilistica: vuol dire anche, e soprattutto, confronto con le tecniche adoperate da altri, con le testimonianze che difficilmente si lasciano sopraffare, con tutti i generi letterari improntati alla narrazione di accadimenti reali, con l'angoscioso dilemma dei silenzi, delle rimozioni e dei tabù imposti da una qualsiasi censura collettiva, con la mutevolezza e l'aleatorietà di un lessico mutuato spesso da altre discipline. Si prenda dunque il libro per quello che è: un vagabondaggio nelle regioni in cui si affolla il passato che vive, spero non troppo arbitrario e non troppo incoerente.
Ecco: in questa premessa ad un testo complesso, ricco di cultura e di riflessione, ricercato nel lessico, ma anche pieno di ironia, c'è il mestiere di storico che io ho spesso riletto nelle pagine di Lanaro (e che ho avuto il piacere di sentire dalla sua voce quando mi è capitato di incontrarlo). Ma, accanto allo studioso, c'è anche l'uomo, di una statura così elevata da non rinnegare quell'umano horror vacui che prova chiunque abbia a che fare con la scrittura (e che spingeva lui alla ricercatezza formale, mentre conduce noi, spesso più di quanto non dovrebbe essere lecito attendersi, all'approssimazione e allo sperpero delle parole). E di una ironia così corrosiva che gli consente di chiedersi, in un altro passaggio dello stesso libro:
Ma allora, alla fin fine, che cosa distingue la figura dello storico? Chi può legittimamente fregiarsi di questo titolo? Quali sono i requisiti che deve possedere? (...) E soprattutto - poiché fra coloro che esercitano questa attività dalle frontiere mobili esistono più dilettanti che fra i pittori, i letterati o i musicisti - una pretesa "scienza" è solo sapiente artigianato o addirittura banale bricolage?
Se volete una risposta a questa domanda riprendete in mano i suoi libri: la troverete là, in ogni singola riga.


Il segno di una resa invincibile, venticinque anni dopo

Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1988 Pazienza, contrariamente a quanto amava dire (la pazienza ha un limite... Pazienza no), mostrava di avere un limite. Un limite che aveva già raggiunto molte volte ma che allora superava. Per non tornare più indietro.

Per me Andrea Pazienza ha significato qualcosa che potrei paragonare all'adolescenza o, se preferite un'evocazione di sapore conradiano, al varcare la linea d'ombra: a quel passo che ti porta in un altro mondo, da cui sei allo stesso tempo affascinato e respinto.
Pazienza era affascinante. E terrorizzante.
E terrorizzante perché affascinante. E affascinante perché terrorizzante. (E se non avete capito non avete mai letto le storie di Zanardi oppure Pompeo: oppure li avete letti quando era ormai troppo tardi)

Io, fra l'altro, l'ho incontrato quando era già - diciamo così - "normalizzato": sulle pagine di "Corto Maltese" e di "Comic Art", se non ricordo male.
Era già un Pazienza diverso da quello del "Male", che ho recuperato dopo, con pazienza (e scusate il facile gioco di parole) nelle raccolte o guardando le collezioni di quella storica rivista (e chiedendomi sempre - e sempre senza riuscire a darmi una risposta - come doveva essere leggerla allora, in quegli anni, respirando quell'aria...).
Ma il suo era comunque un segno che apriva mondi: ti faceva vedere per intero qualcosa che faceva capolino anche nella tua esistenza, ma che coglievi al massimo come un movimento fugace ai confini della visione. Come la sagoma di uno squalo sotto il pelo dell'acqua, per dire.

Sarà perché mi è difficile staccarmi da questa prospettiva individuale (e c'entra anche la questione dell'adolescenza), ma io ho sempre sentito Andrea Pazienza come un cantore - o, meglio, un testimone - degli anni '80 più che del '77, come spesso si dice. Ma un testimone in buona misura preveggente: capace di cogliere l'individualismo e l'egoismo; la ricerca del piacere individuale; il crollo dei confini fra il bene collettivo e quello privato, a tutto vantaggio di quest'ultimo; e, in fin dei conti, anche l'atomizzarsi della società, già in quello scampolo di anni Settanta che raccontava con un tratto ancora fortemente influenzato da Moebius ma già fortemente originale.

Tempo fa ho letto un interessante articolo che parlava di una storia cruciale nella produzione di Pazienza, Lupi del 1984, come il punto di passaggio, e il ponte, fra anni Settanta e anni Ottanta (non lo trovo più in rete: mi limito, per chi fosse interessato, a mettere qui un suo riflesso).
Ecco: anch'io penso che Andrea Pazienza sia stato
il ritrattista emotivo di una parabola storica che va dalla festa libertaria degli anni settanta a quella liberista degli ottanta.
Ma penso anche che egli avesse "sentito" (confusamente, irregolarmente, sentito) questa parabola già nei lavori degli anni Settanta. Perché in quello scorcio di tempo, nonostante la Bologna creativa, nonostante la Milano dell'industria culturale, nonostante il movimento studentesco, tutti luoghi da lui frequentati e raccontati in quello strano modo partecipe/distaccato che gli era proprio, quei segni già c'erano.
Ora che si sta finalmente iniziando a studiare a fondo, e in modo nuovo, il passaggio fra anni Settanta e anni Ottanta (per esempio nei lavori di Guido Crainz, Il paese reale e di Fausto Colombo, Il paese leggero, per dire gli ultimi che ho letto) Andrea Pazienza dovrà avere il suo posto fra le fonti di questa nostra storia.


Ah, per chi non l'avesse colto, il riferimento del titolo è ad una storia pubblicata nel 1983, che si chiude in questo modo:
Se ne andò così, per un insulto cardiaco, all'età di ventotto anni. Osservando la sua foto sulla tomba, mi chiesi se il cuore fosse davvero un muscolo involontario e se quella morte non fosse il segno di una resa invincibile
Allontanate pure da voi, se volete e ci riuscite, la facile e ineluttabile suggestione del parallelismo fra arte e vita.

"Le notizie sulla mia morte sono alquanto esagerate"

Così si potrebbe dire, citando Mark Twain, a proposito della scomparsa di Linus, notizia che era riportata  oggi dalla stampa.
Devo confessarvelo: quando l'ho sentito dire stamattina, durante una rassegna stampa, sono rimasto senza parole. Non lo leggevo più da molto tempo, ma il saperlo lì, in edicola, mi dava sicurezza.  Sì, quasi come la coperta.
"Non lasciatemi solo!" aveva scritto un lettore sulla pagina facebook della rivista. Per fortuna sembra che il suo grido di dolore - e quello di centinaia di altri abbonati e lettori più o meno fedeli - sarà ascoltato.
Lo stesso editore - Baldini&Castoldi srl - ha pubblicato un comunicato stampa che ridimensiona la notizia:
Cari Lettori,
con un pesante ma giustificato ritardo eccoci a comunicarvi lo stato dell’arte. Linus si è temporaneamente fermato per una serie di problemi gravi e di complicata soluzione, riguardanti stampa e logistica e conseguenti a un difficile momento della società editrice.
Avremmo atteso più volentieri il momento della soluzione definitiva delle questioni ancora sospese, ma alcune inopportun...e e mal suggerite sciocchezze uscite sui quotidiani dei giorni scorsi ci convincono a intervenire per fare chiarezza.
La volontà dell’editore è senz’altro quella di proseguire la pubblicazione di Linus, come ovvio permettendo agli abbonati di recuperare i numeri persi, ma perché la volontà si trasformi in qualcosa di più concreto, e quindi nelle prossime uscite del mensile, mancano ancora alcuni passaggi che speriamo di potervi comunicare al più presto.
Intanto vi ringraziamo dei moltissimi messaggi di solidarietà e degli incitamenti ricevuti, faremo del nostro meglio per essere all’altezza.
Linus era lì, in edicola, dall'aprile 1965.
Sono tanti, tanti mesi.
Mesi e anni in cui Linus ha fatto capire agli italiani che il fumetto non è una "roba da bambini", come voleva allora (e forse, per molti, anche ora) il senso comune: del resto nel primo numero Umberto Eco aveva intervistato su quest'argomento Elio Vittorini e Oreste Del Buono. Già pochi mesi dopo la sua prima uscita, l'obiettivo poteva dirsi raggiunto perché era letto soprattutto da studenti universitari e liceali, seguiti da impiegati e professori. Nel luglio del 1965, infatti, il mensile pubblica i risultati di un "referendum" che aveva indetto fra i suoi lettori per capire chi fossero: la maggior parte era tra i 23 e i 28 anni, ma ce n'erano pure un certo numero sopra i 40 e alcuni fra gli otto e i dieci. Un pubblico composito, dunque, che oltre al desiderio di leggere buoni fumetti condivideva con i redattori un certo orizzonte di pensiero, una certa - si potrebbe dire - filosofia, come scriveva Oreste Del Buono (che ne sarebbe stato a lungo direttore) nel 1966:
LINUS, si sa, aspira ad essere una rivista non solo per bambini e ragazzi, ma per tutti. Redattori e lettori non sono dei tartufi, dei parrucconi, dei moralisti ad ogni costo. Guardano al mondo con una certa spregiudicatezza, ed è proprio dalla spregiudicatezza  che ricavano la loro allegria 
E la loro spregiudicatezza era anche nelle scelte editoriali: certo, soprattutto all'inizio venivano pubblicati i grandi classici del fumetto americano (e c'erano furibonde polemiche su Li'l Abner, considerato geniale da alcuni e orribilmente reazionario da altri).
Ma su quelle pagine trovano spazio , che io sappia per la prima volta in Italia, i fumetti che in quegli anni stavano sfornando Stan Lee e Jack Kirby: nel Linus Estate del 1966 viene pubblicata una storia dei Fantastici Quattro,
 la più strabiliante galleria di personaggi che il genere fantascientifico abbia mai avuto. Invenzioni strepitose, lotte ciclopiche, magia, mutazioni incredibili, il tutto sorretto però da una certa logica scientifica e, soprattutto, da una buona dose di humour che interviene puntualmente a decantare le situazioni più grandghignolesche.
Una
specie di ghignante “chanson de geste” del futuro [che] ha avuto un successo (...) travolgente in America, soprattutto negli ambienti universitari...
E la produzione di Lee e Kirby viene analizzata nel numero successivo da Alfredo Castelli che, prima di diventare uno dei più importanti sceneggiatori italiani, scriveva su quelle pagine importanti saggi sui fumetti classici e sulla storia del fumetto.
E poi, appena un anno più tardi, ecco apparire un racconto di Guido Crepax intitolato Funny Valentine in cui, come commentava Vittorio Spinazzola, erano sovvertite
 tutte le canoniche convenzioni del comic d’avventure. (…) La trama narrativa è scomparsa; nello stesso tempo di movimento è esploso spezzando l’ordinata serie dei riquadri e puntando a mescolare tutte le immagini in un unico magma, per usare un termine alla moda. Il disegnatore gioca liberamente con lo scorcio, la panoramica, il primo piano senza più bisogno di didascalie per collegare le vignette e colmare gli intervalli. Trionfa il fattore visivo: ma appunto ciò assicura nuovo risalto all’intervento della parola scritta, esaltandone l’icasticità
Questa vena di ricerca, ma anche l'aderenza allo spirito del tempo, saranno esaltate negli anni della direzione di Oreste Del Buono: la rivista arriverà a sdoppiarsi per sostenere meglio le energie creative che ospitava sulle sue pagine, da Lunari a Calegaro, da Breccia a Crumb, fino a Pazienza, che su quelle pagine esordirà.
Rivista culturale, allora, prima ancora che rivista a fumetti. Rivista per cui, come scrivevano nel 1972,
Avere un’opinione e non nasconderla, proporla anzi per un confronto non è il peggiore dei mali, ne siamo convinti. Come siamo convinti che il decidere di non fare politica sarebbe una decisione ugualmente politica 
Anche resistere, oggi, sembra avere il sapore di una decisione politica.
Di una buona politica, culturale ed editoriale.  

comunite: (ri)nascita di un sito

Il 26 giugno 2012 scrivevo queste parole (e se volete capire qualcosa di quello che sto per dire dovrete andare a rileggervele) e incrociavo le dita perché le cose andassero a buon fine.
Oggi, finalmente, è ora di disincrociarle (si dirà così?). Certo, dopo quasi un anno sono un po' anchilosate, ma il senso di liberazione e di conquista è ancora più forte.
Da oggi il nuovo sito della facoltà di Scienze della Comunicazione è on line: attivo, funzionante e pronto a ricevere la collaborazione di tutti quelli che vorranno mettersi alla prova e far crescere la comunità in cui vivono, studiano e crescono.
Non tutto è ancora perfetto: alcune pagine sono da rifinire, altre da migliorare, altre ancora da inventare.
Ma è lì, e vi aspetta.
Il nuovo comunite è nato durante il "laboratorio di conunicazione multimediale" che avevo tenuto lo scorso anno insieme a Gabriele D'Autilia. Il senso di quello che avevamo provato a fare era applicare ad un progetto reale tutta la teoria accumulata fino ad allora. C'era un vecchio sito della facoltà da rinnovare e reinventare. E c'era un gruppo volenteroso di studenti, pronti a raccogliere la sfida e a mettersi in gioco.
Finito il corso, il nuovo sito era abbozzato nella sua struttura e, soprattutto, nella sua filosofia: partecipazione, interazione, condivisione, multimedialità dovevano essere le chiavi per accedervi.
Ma la parola chiave, l'architrave, era un altro: comunità. La facoltà - e l'università - come comunità di studenti e docenti, in cui c'è qualcosa di più del semplice trasferimento di conoscenze: c'è un continuo e mutuo scambio - di informazioni, idee, pensieri, opinioni, gusti, passioni - che, quando si attiva, produce crescita in tutti quelli che ne fanno parte.
Certo, poi ci sono le vischiosità, le abitudini, le chiusure, le intolleranze, le scorciatoie, le svogliatezze, le disillusioni, e tutto quello che impedisce a qualsiasi gruppo di crescere e maturare.
E infatti c'è voluto quasi un anno per riuscire a scrociare (si dirà così?) quelle dita che, insieme ad un gruppo di ragazze e di ragazzi, avevo incrociato quasi un anno fa.
Qualcuno, nel frattempo, ha deciso che aveva di meglio da fare. Qualcun altro ha finito il suo percorso, e ha trovato nuove strade. Ma qualcuno è pure arrivato e ha deciso di mettersi in gioco.
E ora la parola è a tutti gli altri: quelli che visiteranno il sito, lo consulteranno, vi collaboreranno.
Se questa idea riuscirà a proseguire il suo cammino sarà anche grazie a loro.
Se è arrivata fino a qui, invece, è grazie a Cosimo, Letizia, Andrea, Anna, Diana, Martina e Valentina.

Da cosa nasce cosa: genesi di un articolo

Comunicazioni sociali 1/2013
copertina di Emiliano Ponzi
E' cominciato tutto a Torino, il settembre scorso. Ero stato invitato alla Summer School Tv organizzata dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione dell'Università di Torino: si parlava di Tv italiana e tv europea nell'epoca di internet.
Un'occasione preziosa per discutere per due giorni di televisione e media in un'ottica internazionale e transnazionale, conoscere programmisti, registi e autori delle tv francesi, inglesi, tedesche, e incontrare altre persone che studiano - da una prospettiva diversa dalla mia - i mass media.
Bene: durante uno di quei discorsi casuali che sono una delle prove dell'esistenza della serendipità, scopro che sto studiando qualcosa di molto vicino a quello che stava studiando allora Luca Barra (che insegna alla Cattolica di Milano ed è coordinatore di questa rivista qui).
Due chiacchiere.
"Sai, stiamo preparando un numero di Comunicazioni sociali proprio su questi temi: l'hai visto il call for paper? Te lo mando".
Progetto per un articolo.
Vaglio della redazione, che lo accetta.
Scrittura e invio.
Double blind peer review.
Piccole correzioni.
E poi, alla fine, eccolo lì, dietro quella bella copertina.
Il titolo è Da libere a private. Sulla nascita della televisione privata in Italia.
E questo è ciò di cui parla:
Il saggio esamina la creazione di un nuovo tipo di televisione in Italia tra il 1971 e il 1980, la cosiddetta “televisione libera”, e il legame tra la sua crescita e le trasformazioni della società italiana negli anni Settanta, con particolare riferimento al cosiddetto “riflusso”. Più nel dettaglio, il contributo analizza quel primo periodo in cui le tv locali iniziarono a contrastare la Rai e a promuoversi come il “vero” servizio pubblico. Le “tv libere”, infatti, erano convinte che la loro vicinanza alle comunità locali permettesse loro di rappresentarle meglio della Rai. In breve tempo, però, le ragioni commerciali sostituirono quest’idea e le televisioni da “libere” diventarono “private”.
Il numero, da quello che ho potuto vedere e leggere finora, è molto interessante.
Se voi volete saperne di più, seguite il link che vi porterà direttamente al sommario on line.

Un anno dopo

Un anno fa avevo il piacere di raccontare la festa del Primo Maggio per Wikiradio, la trasmissione di Radio Tre che si presenta come una sorta di almanacco giornaliero per orientarci nella nostra modernità.
la presentazione di Wikiradio
Un anno dopo è ancora il Primo Maggio, e, leggendo i drammatici dati della disoccupazione, viene da chiedersi ancora una volta se questa festa abbia ancora un senso.
Forse questo senso è da rintracciare nella sua storia, che, se vi va, potete riascoltare qui oppure leggere qui sotto.




Andrea Sangiovanni racconta il Primo Maggio 

(Wikiradio, 1 maggio 2012)


«Alle sette in punto il signor cavaliere Bianchini saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro. Questi se ne stava seduto, con la giacchetta sulle spalle, sullo scalino del suo uscio a vetri (…). Diamine! Se festeggiava il 1° Maggio il Peroni, un operaio vecchio e tranquillo, c’era da credere che lo festeggiassero tutti gli operai di Torino»


Inizia così un romanzo sul primo maggio che Edmondo De Amicis inizia a scrivere nel 1891 e che lascia incompiuto. L’anno precedente, nel 1890, il Primo Maggio era stato celebrato per la prima volta e il romanzo di De Amicis riflette bene le speranze e i timori con cui l’Italia umbertina attendeva questa data; aspettative e paure che un personaggio riassume in questa frase e che mi pare un buon punto per iniziare a raccontare il Primo Maggio.

Chi parla è un giovane ingegnere, «un uomo d’ingegno, che pensava con la sua testa, che s’intendeva di tutto e aveva gran pratica d’operai», per usare le parole di De Amicis. E dice:


«Certo, questa qui del 1° Maggio è stata una gran pensata. Per il socialismo è come il punto d’appoggio, che cercava Archimede… per sollevare la terra.

E la mobilitazione internazionale delle forze operaie… le par poco? ma questa commozione che c’è già da un mese nei governi, nella stampa, in tutto il pubblico, in attesa del 1° Maggio, è già una grande vittoria. Chiamano l’attenzione del mondo sulla questione. La questione delle 8 ore… da ridere! dietro la questione delle otto ore c’è il socialismo intero che s’avanza e minaccia».

Tutto quello che accadrà oggi, aggiunge, qualunque cosa accada, non sarà certo tale da costituire una vera minaccia per la società. Ma poi conclude: «Quello che è grave, quello che mi sconcerta, è che questo 1° Maggio non andrà più giù, e che sarà ogni anno più serio…»


E non aveva certo torto, se oggi siamo qui a parlarne ancora una volta, a cercare di raccontare una data che è ogni anno uguale a se stessa, ricorrenza rituale di un ideale calendario civile, e, allo stesso tempo, sempre diversa, specchio del modo in cui la società – le società, al plurale, perché una delle particolarità del Primo Maggio è di nascere internazionale – si confrontano con l’idea e il valore di lavoro.

Così, per raccontare il Primo Maggio si può certo ricostruire la storia degli eventi più o meno importanti che hanno contrassegnato negli anni questo giorno particolare. Ma si può anche raccontare il modo in cui questa data viene vissuta: che cosa poteva significare per il muratore Peroni descritto da De Amicis sedere tranquillamente sulla soglia di casa con la giacchetta sulle spalle e poi, magari appuntandosi un fiore rosso all’occhiello, andare con gli altri muratori in giro per il centro della città con le mani in tasca, o in osteria a bere un bicchiere di vino intonando canti rivoluzionari. Anche perché, sin dall’inizio, la forza simbolica – ma anche reale – del Primo Maggio risiede in eguale misura nelle speranze che suscita e nei timori che evoca. I lavoratori, da una parte, vi vedono la promessa di una società futura mentre, dall’altra parte, i “signori” vi scorgono la minaccia alla società presente.


Il racconto del Primo Maggio, insomma, ha molte facce, apparentemente contraddittorie: talmente tante di quelle facce che quando si è trattato di celebrarne il centenario, convegni e manifestazioni si sono susseguiti per ben cinque anni, dal 1986 al 1990. E non è un paradosso, né un’indecisione da parte degli storici o di coloro che avevano organizzato le celebrazioni: il fatto è che l’origine del Primo Maggio risiede in due eventi distanti nel tempo e nello spazio, e tuttavia fortemente intrecciati.

Il primo sono le lotte degli operai a favore della giornata lavorativa di otto ore, e in particolare quello che accade a Chicago nel 1886. Il primo maggio di quell’anno in tutti gli Stati Uniti c’è un imponente sciopero che coinvolge circa 400.000 lavoratori: nella sola Chicago, che allora era uno dei centri ferroviari ed industriali più importanti del paese, i dimostranti sono circa 80.000. Le manifestazioni proseguono anche nei giorni successivi e il tre maggio una carica della polizia durante un comizio, e gli scontri che ne seguono, lascia sul terreno due vittime, due operai. Il giorno seguente, il 4 maggio, c’è un nuovo comizio di protesta in Haymarket Square: la polizia carica di nuovo ma qualcuno lancia una bomba che fa diversi morti e feriti. Per l’opinione pubblica i colpevoli sono gli anarchici e la polizia, che scatena una dura repressione contro il movimento dei lavoratori, individua e arresta nove persone. Un rapido processo ne stabilisce la colpevolezza e i nove vengono condannati a morte (anche se poi alcune delle pene verranno trasformate in ergastoli): in quegli stessi mesi, però, si sviluppa un forte movimento di opinione pubblica che si oppone al modo in cui il processo è condotto, e chiede la liberazione degli arrestati. Inutilmente: nel 1887, quattro dei nove condannati vengono impiccati: saranno definiti i “martiri di Chicago” ed è in loro nome che una parte dell’opinione pubblica continua a fare pressioni sulle autorità locali, per non lasciare l’ultima parola al boia e riabilitarne almeno la memoria. Ci riuscirà solo qualche anno più tardi quando, nel 1892, il nuovo governatore dell’Illinois riconoscerà che il processo era stato viziato dal clima di isteria innescato dagli scontri di Haymarket Square.

La storia dei martiri di Chicago si radica profondamente nella memoria del movimento operaio, e finisce per diventare un “mito di fondazione” del Primo Maggio, evocato soprattutto alla fine dell’800, in particolare da parte anarchica: nei molti significati che questa giornata stava assumendo allora, infatti, c’era anche la commemorazione delle «vittime tutte invendicate», per usare un’espressione dell’epoca, vittime del lavoro, ma anche dell’ingiustizia sociale e simbolo della contrapposizione di classe.


Il secondo evento a cui si deve la nascita del Primo Maggio è anch’esso legato alla questione delle otto ore, anche se è molto meno “epico” dei fatti di Chicago (e non è un caso che non sia un “mito fondativo”).

Siamo nel 1889 e a Parigi, tra il 14 e il 20 luglio, si tiene il Congresso Internazionale Socialista. Fra le molte questioni esaminate c’è anche quella della riduzione ad otto ore della giornata lavorativa: si decide allora di indire una manifestazione da svolgersi contemporaneamente in tutti i paesi per chiederne ai governi l’approvazione. Inizialmente però l’assemblea non individua una data specifica e l’idea del Primo Maggio è introdotta solo in un secondo tempo quando un osservatore americano chiede la solidarietà dell’assemblea per lo sciopero generale per le otto ore che l’ American Federation of Labour avrebbe indetto il 1° maggio dell’anno successivo.

Ed è così, in conclusione dei lavori e, verrebbe da dire, in modo quasi casuale, che il Congresso produce il documento che certifica la nascita del Primo Maggio:

«Una grande manifestazione sarà organizzata per una data da stabilire, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città nello stesso giorno i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del congresso di Parigi. Considerato che una manifestazione dello stesso tipo è già stata decisa per il primo maggio dalla American Federation of Labor nel congresso tenutosi a St. Louis nel dicembre 1888, questa data è stata adottata [anche] per la manifestazione internazionale. I lavoratori dei vari paesi daranno luogo alla manifestazione entro i limiti loro imposti dalla particolare situazione di ciascun Paese».


Un documento quasi prosaico, e che tuttavia è fondamentale nel dare una dimensione internazionale alla manifestazione, sancendone in qualche misura la forza, anche simbolica.


La dichiarazione d’intenti che il Congresso internazionale socialista approva nel 1889 assume rapidamente – e quasi inaspettatamente – una grande forza simbolica: il Primo Maggio diventa una data in cui un intero mondo si può specchiare, riconoscendosi e soprattutto facendosi riconoscere dagli altri. E così in breve tempo quella «grande manifestazione» indetta a Parigi diventa qualcosa di più; in Italia Costantino Lazzari, uno dei massimi esponenti del Partito Socialista nei primi anni del Novecento, parla del Primo Maggio come di una «commemorazione dell’avvenire», un’espressione che riassume perfettamente l’ambivalenza, forse la contraddittorietà, ma anche la ricchezza di significati, che il giorno sta assumendo.

Per raccontarvi alcune delle caratteristiche del Primo Maggio a cavallo tra XIX e XX secolo, vorrei leggervi alcune righe pubblicate su uno dei giornali che venivano stampati in occasione del Primo Maggio, numeri unici che, fra l’altro, raccontano molto bene l’eccezionalità di quella giornata, perché finivano per sostituire i quotidiani borghesi che non erano pubblicati perché i tipografi non lavoravano.


«Sì, giorno di riposo, di voluta festa, di gioia, di speranza, di pensiero; giorno bello, gaio, ridente, anche se l’orizzonte era annuvolato e la natura in collera; (…) sciopero d’un giorno, ma sciopero perché (volenti o nolenti i padroni, i capo-ufficio, i maestri d’arte) i lavoratori d’ogni genere si astenevano o dovevano astenersi dal lavoro. Era sciopero, era volontà, era ribellione, era l’affermazione dei diritti del lavoratore imposta dal lavoratore stesso».


È un brano che riesce a trasmettere molto bene l’entusiasmo con cui veniva vissuta una giornata che era allo stesso tempo di lotta e di festa. È una di quelle ambiguità che costituiscono la forza del Primo Maggio, giorno nel quale c’è una tensione continua fra l’interruzione del lavoro, lo sciopero, per quanto di un giorno solo, e la festa: è festa perché non si va al lavoro, ma non si va al lavoro perché in questo modo si rivendica la propria consapevolezza di classe (se mi permettete un’espressione un po’ inattuale).

È quasi un paradosso che i lavoratori scelgano per riconoscersi fra loro, ma anche per mostrarsi sul palcoscenico pubblico, di non fare più proprio quello che li caratterizza agli occhi della società, agli occhi dei “padroni”. E così il muratore Peroni, per evocare ancora il personaggio di De Amicis, se ne sta seduto su un gradino a prendere il sole, il tipografo non stampa il giornale e l’operaio esce dalla fabbrica; e tutti insieme vanno in giro per la città, in quei luoghi che non frequentano abitualmente – lungo i corsi, nelle piazze e nelle strade del centro – e in quegli orari – durante il tempo del lavoro – in cui non li si vede normalmente. E in questo modo si riappropriano del loro tempo e di quegli spazi della città che normalmente gli sono preclusi.

Ma questa anormalità, questa eccezionalità sottolineano che la festa del Primo Maggio è una festa tutta operaia, una festa che non è segnata nel calendario borghese. E per dirlo ancora più forte, per farlo capire con chiarezza, i lavoratori esibiscono con orgoglio i propri simboli di classe: e torniamo allora alla descrizione del Primo Maggio che vi ho già citato. Ve ne leggo un altro passaggio:

«Io ricordo con una certa commozione quella data e rivedo ancora con gli occhi del pensiero quella balda gioventù operaia che aveva abbandonato il lavoro e passeggiava per le vie delle grandi città, delle province, dei paesi, co’ cappelli flosci inclinati, le vivaci cravatte rosse o rosso-nere svolazzanti, garofani color fuoco all’occhiello ed in mano, o sporgente dal taschino, il numero unico del partito, lieti, sprezzanti, audaci, pieni di santo entusiasmo, dipinta in volto la sicura coscienza del proprio io formante nella solidarietà dell’espressione e dell’idea la coscienza tutta della collettività. Sembrava fossero scesi in piazza, sia pure a fare festa, sia pure senza picche e senza fucili ed armati solo d’amore, ma vi fossero scesi per contarsi, per misurarsi, per conoscersi, per dirsi: “Siam noi! e se vorremo… quando vorremo…” »

È chiaro allora che tutte le azioni e tutti i simboli dei lavoratori servono a dire al mondo borghese: eccoci, siamo qua. E siamo tanti. I colori e i vestiti, i cortei e i canti sono tutti simboli che la borghesia legge come un’implicita minaccia: ed è proprio questa paura che finisce per accrescere l’importanza del Primo Maggio.

Nel 1890, infatti, il governo Crispi emana delle disposizioni per impedire assembramenti o manifestazioni nei luoghi pubblici e le città vengono presidiate dall’esercito, con un dispiegamento di forze che rinforza i timori della borghesia. Gli incidenti, però, sono pochi e, paradossalmente, sono proprio le disposizioni governative e il massiccio schieramento dei militari a generare il panico. Insomma, si potrebbe quasi dire che sia più il tentativo del governo di controllare le manifestazioni che non le ridotte capacità di mobilitazione del movimento operaio e socialista, a trasformare il Primo Maggio in una giornata particolare e memorabile, cosa che avviene su due livelli. Da una parte, infatti, le proibizioni governative di fare riunioni, assembramenti, “processioni” o “passeggiate collettive”, finiscono per suggerire le forme che le manifestazioni assumeranno negli anni successivi, fino a ritualizzarsi: e così ecco che le riunioni, che non si potevano tenere all’aperto, si svolgevano al chiuso, nelle sedi delle associazioni operaie, oppure nei luoghi della socialità pubblica, nelle osterie e nei caffè, in cui si mescolavano i discorsi politici e i brindisi, i canti e le “bicchierate”. E infine, essendo precluse le città presidiate dall’esercito, la festa usciva dai confini cittadini, con scampagnate che assumevano un carattere sempre più marcatamente ludico.

Dall’altra parte, poi, il conflitto – più temuto che concreto – passa dal piano reale a quello simbolico: e qui si fa in qualche modo permanente, e si rinnova di anno in anno. Recuperando, fra l’altro, tutta una serie di simboli diffusi nelle feste popolari che salutano l’arrivo della primavera, non a caso stagione di rinascita e rinnovamento



Ho già detto che ogni anno il Primo Maggio celebra se stesso, anche se non è mai uguale a se stesso: come ha scritto uno storico, «il Primo Maggio ha avuto una origine unitaria e una attuazione plurima».

È un’affermazione che suona più contraddittoria di quanto non sia – pensate solo alla pluralità di forme e riti con cui il Primo Maggio viene festeggiato nei diversi paesi – e che ci rimanda invece alla complessità di questa data che, nonostante sia parte centrale del nostro calendario civile, è stata più volte giudicata in crisi d’identità e in pieno declino. Non è una questione da sottovalutare, anche al netto delle polemiche politiche, effimere quando non strumentali: tutte le feste civili con forti componenti simboliche e rituali sono manifestazioni sociali che per mantenere la propria attualità devono essere continuamente ricontrattate e ridefinite, in un dialogo incessante fra le diverse componenti della società. E infatti, sin dalle sue prime celebrazioni c’era chi sottolineava che il Primo Maggio correva il rischio di trasformarsi in un rito sterile: perché conservasse la sua forza doveva mantenere il carattere di “festa ribelle” perché, come si legge in un numero unico, «quando dovesse perdere questa sintomatica caratteristica o finirebbe per scomparire, o diventerebbe una cosa vuota e insignificante come il giorno dello Statuto o, per un esempio fra i tanti, come la festa di San Giuseppe».

E infatti sarà solo mantenendo i suoi caratteri di “festa ribelle” che il Primo Maggio riuscirà ad attraversare gli anni del fascismo. Infatti Mussolini, che evidentemente era ben consapevole del suo ruolo simbolico, lo abolisce subito, già nella primavera del 1923, per sottolineare in questo modo la totale e definitiva sconfitta del movimento operaio. Al posto del Primo Maggio viene istituita una festa del lavoro, a cui viene riservato il 21 aprile, il giorno che si voleva della fondazione di Roma, ma anche una data abbastanza prossima al Primo Maggio da cancellarla simbolicamente.

Negli anni del regime, allora, festeggiare il Primo Maggio è proibito: per coloro che in quel giorno si astengono dal lavoro viene addirittura previsto il licenziamento, e la Milizia opera con grande sollecitudine per reprimere qualsiasi manifestazione, anche quelle private. Eppure questa dura repressione non riesce ad eliminare del tutto la festa del Primo Maggio, che continua ad essere celebrato, certo in forma diversa e privata, spesso magari solamente simbolica: uno dei modi, per esempio, era quello di esporre di nascosto dei drappi rossi, magari sugli alberi o sui pali della luce, dove era più facile appenderli senza farsi vedere, ma anche in quei posti dove far sventolare una bandiera diventava un chiaro segno di provocazione: ne saranno affisse sulla Mole Antoneliana e addirittura dal balcone di Montecitorio. Negli anni del regime, così, festeggiare il Primo Maggio diventa un modo per esprimere il proprio dissenso politico: e il farlo di nascosto rinforza quella funzione di identificazione di classe che il fascismo aveva voluto annullare.

Il conflitto simbolico intorno alla festa del lavoro non cessa neppure nel dopoguerra: nel 1955, per esempio, Pio XII proclama il Primo Maggio festa liturgica di San Giuseppe artigiano, trasformando così la festa socialista per eccellenza in una festa cattolica: e un anno dopo, quasi in un nuovo scontro di questa guerra di simboli, una statua del Cristo lavoratore attraversa in volo l’Italia da Milano a Roma, prima in aereo e poi in elicottero, fino a Piazza San Pietro.

A parte questi episodi, però, negli anni della Repubblica il Primo Maggio è soprattutto una spia del grado di coesione del movimento operaio e dello stato delle relazioni sindacali. Il Primo Maggio del 1948, ad esempio, i rapporti fra i sindacati sono molto tesi e si stanno avviando verso la rottura: nel gesto del segretario della Cisl Giulio Pastore che scende dal palco per non parlare insieme al leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, c’è quasi una prefigurazione simbolica della rottura che si consumerà qualche mese più tardi. E da allora, e per alcuni anni, i sindacati celebreranno separatamente il Primo Maggio.

Torneranno di nuovo sullo stesso palco solo nel 1970, dopo l’autunno caldo delle lotte unitarie. Ancora una volta l’episodio si carica di forza simbolica e diventa la rappresentazione del prestigio di cui ormai godono i sindacati che, scrive Enzo Forcella, «sono diventati "arbitri" dei futuri sviluppi della vita pubblica del Paese»: siamo agli inizi di quella stagione che sarà definitia della “supplenza sindacale”, in cui i sindacati sembrano caricare sulle proprie spalle le funzioni politiche che sarebbero dovute spettare ai partiti e al governo.

Poi, però, i cortei e i palchi del Primo Maggio sindacale tornano a separarsi ancora: è il 1987 e, ancora una volta, queste feste separate sono lo specchio della debolezza delle organizzazioni di categoria e della profonda trasformazione del loro ruolo nella società, e, direi, un effetto posticipato della serie di sconfitte dei primi anni ’80, dalla marcia dei quarantamila al referendum sulla scala mobile dell’85.

Sarà il centenario del Primo Maggio a riportare nuovamente i tre sindacati a celebrazioni unitarie. Ma nel 1990 il rito si innova radicalmente: inizia allora infatti quello che tutti chiamano con familiarità il “concertone” di Piazza San Giovanni.

In vista del centenario della festa del lavoro il sindacato vuole fare le cose in grande e organizza due concerti: uno classico a Milano, con l’orchestra diretta dal Maestro Abbado, e uno pop-rock a Roma, forse ispirandosi ai grandi raduni rock legati a cause umanitarie che erano nati in quegli anni, dal Live-Aid in avanti. In quei giorni Gugliemo Epifani, che anni dopo sarebbe diventato segretario generale della Cgil, dichiarava ad un giornale che «festeggiare cento anni del primo maggio affidandosi alla musica, anziché al tradizionale comizio, è una scelta nuova ed è un tramite importante perché è un mezzo che permette di raggiungere tutto il pubblico». Bisogna riconoscere che il sindacato aveva indovinato la formula, grazie anche alla complicità della Rai, che nei primi anni trasmetteva il concerto integralmente.

E però, proprio allora, iniziano a nascere le domande sulla possibile decadenza del Primo Maggio: accentuarne gli aspetti legati alla festa, non era forse un segno della sua debolezza? In realtà lungo tutti gli anni ’80 la polarità fra il rito politico e il momento della festa era andata rafforzandosi: da un lato, infatti, la dimensione festiva si era accentuata, almeno a partire dalle iniziative organizzate a Roma nel 1981, cose come la “camminata delle azalee” o lo spettacolo di fuochi artificiali che avevano dato alla giornata un tono speciale, tutto festivo e spensierato. Dall’altro, invece, l’indebolimento dei sindacati e il depotenziamento del ruolo sociale dei partiti lungo tutti gli anni ’80 avevano in qualche modo sterilizzato la forza rivendicativa e politica delle celebrazioni, fino ad arrivare ai festeggiamenti separati ai quali abbiamo già accennato. E però, pensiamoci un momento: non è anche questo processo un segno della particolarità che contraddistingue il Primo Maggio di racchiudere «in sé il ritmo mutevole della lotta proletaria», di vivere «insieme con il movimento operaio» e di mutare con esso, come scriveva nel 1907 Rosa Luxemburg? Se è così, allora i Primo Maggio degli anni ’80 riflettono quella tendenza ad allontanarsi dalla politica totalizzante che ha caratterizzato la società italiana in quel decennio. E la forza aggregatrice che il “concertone” di Piazza San Giovanni continua ad avere, riflette la costante ricerca da parte del sindacato di linguaggi diversi per parlare ancora del lavoro, della sua dignità e della centralità che continua ad avere nella nostra società, cercando nel suono rock quei connotati “ribelli” che – ricordate quanto si scriveva all’inizio del Novecento? – la festa del Primo Maggio non dovrebbe mai perdere per non smarrire la propria identità.
 
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