No, non è un capolavoro (non ancora, perlomeno)

Ieri sera eravamo solo in 689.000 ad aspettarci il capolavoro, il Masterpiece. E se non è arrivato, pazienza. Il titolo era forse presuntuoso e ci sono ancora molte puntate, e margini di miglioramento. Consola che fossimo in più di quelli che guardavano Mystic River, su Rete 4: perché quel film lo è davvero, un capolavoro, e quindi le aspettative per la nuova scommessa di Rai Tre dovevano essere veramente alte.
Perché è di questo che sto parlando.
 Del nuovo talent che ieri sera ha iniziato il suo lungo cammino su Rai Tre, per farci scoprire una nuova promessa della letteratura italiana.
Beh, forse letteratura è una parola grossa: limitiamoci a dire, qualcuno (o qualcuna) che provi a scrivere libri onestamente e con passione. E già sarebbe tanto.

Con questo programma, un format nostrano, nato nella televisione pubblica, Rai Tre ricorda a tutti le sue due origini: di canale culturale e di canale votato alla sperimentazione e al coraggio. Ci vuole coraggio, infatti, per fare un talent sulla scrittura e sui libri (su quelli ancora da scrivere, e non su quelli già scritti: che lì, di coraggio, e di fantasia, e di talento ce ne vorrebbero veramente molti. Diciamo quelli di un Baricco, quando ancora non faceva Baricco).

Ce ne vuole, dicevo, di coraggio, in un paese dove nel 2012 solo il 46 per cento della popolazione dichiara di aver letto un libro (un libro, ripeto: uno solo) nel suo tempo libero. Però, si sa, le statistiche sono ingannevoli. E infatti il trend, la tendenza alla lettura è in crescita e (dopo una stasi nel 2011) sembra che il consumo di libri sia in ripresa: certo è che se ne stampano una media di 3,5 a testa. Quindi, questa scommessa di Rai Tre ha un senso, anche commerciale (se vi piacciono i dati e ne volete di più seguite il link).
Ma più che altro mi pare che la scommessa rimandi a quello che potrebbe essere uno dei compiti della televisione di servizio pubblico: mettere in contatto il paese con le sue parti meno rappresentate, con le sue storie meno note. Quelle storie che spesso si consumano in solitudine, perché scrivere è un atto solitario, e che magari potrebbero non essere raccontate a nessuno. Ma le storie hanno bisogno di un ascoltatore, sennò muoiono.
E allora, da questo punto di vista, la scommessa è vinta.
Perché la trasmissione ci ha raccontato delle storie, qualcuna anche emozionante. E non solo quelle che erano state scritte, ma quelle segnate sulla pelle e nella carne di chi si era sacrificato per trovare le parole adatte a dire quello che aveva dentro.
E, soprattutto, ce lo ha raccontato bene: certo, copiando qua e là dalla narrazione di Masterchef (ma la consonanza nel titolo non può essere un caso, no?), ma riuscendo a rendere appassionanti anche delle persone ferme davanti ad una tastiera, a scrivere.

Punti deboli ce ne sono, è ovvio.
I "ruoli" dei giudici non sono ancora ben chiari; così come non lo sono le ragioni dei loro giudizi.
La seconda parte, quella relativa all'esperienza e alla prova di scrittura, perde un po' di dinamicità nel montaggio, mentre era quella che si prestava maggiormente ad una narrazione emotiva.
I "trucchi" di regia (le accelerazioni, i cambi di tono e di luce ecc.) sono un po' insistiti, e certe volte gratuiti, così da risultare noiosi.
La suspence non è tenuta bene, perché uno sguardo attento coglie subito chi passa il turno e chi viene respinto (state attenti allo sfondo).
Però il tempo per migliorare ce n'è. Si tratta di correzioni lievi, che si possono fare in corsa.

Per il momento, a me è venuta la curiosità di leggere il libro dell'unica giurata che non conoscevo: lei.
Taiye Selasi, autrice de La bellezza delle cose fragili.
E se un programma sui libri ti fa venire voglia di leggerne uno, allora ha raggiunto il suo scopo.

Ancora sulla cavalleria leggera dell'etere (una lezione)

Se andate a cercare nel passato di questo blog, troverete che l'8 novembre 2010 annunciavo che avrei iniziato il corso di quell'anno con una lezione sulla radio. Intitolavo quel post arriva la cavalleria leggera e anche oggi non ho trovato di meglio, tanto mi piace quella definizione della radio di Peppino Ortoleva.
Il corso di quest'anno è dedicato ai linguaggi della comunicazione audiovisiva (lo divido a metà con Gabriele D'Autilia) e ho riservato qualche lezione alla radio, al modo in cui il linguaggio radiofonico è nato e si è sviluppato, in stretta correlazione con la storia tecnologica e sociale della radio.
Ve ne parlo perché, anche se questo blog è sempre meno un'estensione delle mie lezioni, gli studenti mi hanno chiesto di fargli avere le slides che ho utilizzato e ho deciso di metterle qui.
Però proverò a fare un esperimento.
Non caricherò semplicemente il power point ma mostrerò le singole slides introducendole brevemente con una sintesi di ciò che mi erano servite ad illustrare: in pratica un riassunto della lezione, in modo che servano anche a chi ha preso degli appunti distratti, o a chi non c'era.
Inoltre, visto che qui ne ho la possibilità, introdurrò una serie di link, utili a chi volesse approfondire alcuni aspetti, o fosse semplicemente curioso.

Per non annoiare tutti i miei lettori, proseguo dopo il salto: la visione, potremmo dire, è riservata ai soli studenti...

MigrarTE, 17 e 18 ottobre

Ed eccoci arrivati. Oggi e domani, a Teramo. Nella sala polifunzionale della Provincia e all'Università.
Il programma lo trovate nella locandina qui sotto.

Se ci cliccate sopra diventa molto più grande.

Poi vi racconto com'è andata.

cose che accadranno


Intanto segnatevi la data, che poi vi spiego

Il giorno in cui tutto ricominciò

Esce oggi il numero 325 di Dylan Dog. È intitolato una nuova vita e si presenta con una copertina suggestiva e fortemente simbolica
Gli appassionati sanno già tutto. Alcuni mesi fa è iniziata a circolare la notizia di un profondo cambiamento nella redazione di Dylan Dog, i cui fili sono stati mossi dal creatore dell'indagatore dell'incubo, Tiziano Sclavi. A Giovanni Gualdoni è subentrato Roberto Recchioni, autore di una delle più belle e intense storie di Dylan Dog di tutti i tempi, Mater Morbi, scrittore e disegnatore molto prolifico che ama spaziare attraverso generi molteplici, che contamina senza pudore e con una forte consapevolezza dei linguaggi, autore di un blog molto seguito.
Nei mesi successivi, tra indiscrezioni e annunci, le aspettative per questa "rivoluzione" sono aumentate, ed è facile prevedere che, da domani, nella blogosfera si scontreranno critiche feroci e elogi entusiastici. Ovviamente, una trasformazione è qualcosa di lento (in una macchina produttiva complessa come quella dell'industria del fumetto, poi...): come hanno spesso detto gli stessi protagonisti, ne potremo vedere i veri frutti solo fra alcuni mesi.
Ma intanto i segnali ci sono tutti.
Intanto, nell'ultimo numero l'evoluzione è stata annunciata dallo stesso Sclavi in un redazionale: evento eccezionale per due motivi. In genere quello spazio è occupato dall'editore. E in secondo luogo Sclavi parla (e scrive, soprattutto) ormai di rado.
In realtà ci sarebbe anche un terzo motivo che lascia prevedere qualcosa di molto buono: una sorta di "ritorno alle origini", ma senza crogiolarsi nella nostalgia.
Commentando la nuova veste artistica della copertina, Sclavi fa notare la "citazione" della pop art, e commenta:
quindi facciamo il fumetto che cita l'arte che cita il fumetto.
Un buon inizio, direi: un ritorno ad una delle innovazioni di linguaggio di Sclavi, con il suo citazionismo così postmoderno (non me ne voglia Tiziano per questa definizione) e, allo stesso tempo, così poco esibito.
Era questa una di quelle cose che facevano grande Dylan Dog negli anni '80, prima che anch'essa diventasse di maniera.
Se la "rivoluzione" in corso tornerà ad alcuni di quegli spunti iniziali, riaggiornandoli alla sensibilità contemporanea, forse si potrà dire riuscita. Mi piacerebbe tornarci appena avrò un po' di tempo. Per ora, mi limiterò ad usare le parole di qualcun altro, che è stato capace di cogliere alcuni degli aspetti di innovazione profonda che Dylan Dog introdusse nel panorama fumettistico nello scorcio finale degli anni '80:
tutti i temi dell'interazione e della contaminazione tra i media (cinema, fumetto, tv, letteratura, teatro, pittura...) vengono attraversati e raccontati. (...) Dylan Dog va oltre ogni limite tracciato per distinguere un fumetto seriale da un cosiddetto fumetto d'autore. (...) Gli autori e l'editore di questa serie hanno pienamente travalicato i confini che una volta tenevano distinti i bacini tematici e le forme espressive in rigide separazioni di generi, di pubblici, di qualità e di quantità. Questa serie a fumetti  (...) ha un contorno estremamente serio, una moralità dai tratti perfino illuministici. Tiziano Sclavi e i suoi collaboratori (...) restituiscono la varietà dell'universo mediologico e la consegnano ai giovani lettori in una sorta di adempimento a una funzione - o finzione - iniziatica. Dylan Dog raccoglie un esasperato bisogno di socializzazione primaria e di maturazione individuale spesso negato alle giovani generazioni. Sintomo di disagio (...) questo fumetto è molto di più. Il disagio vi esprime insomma una parzialità politica, radicale, estremamente conflittuale e diretta a uno scopo di individuazione di una moralità insediata nei cuori dei lettori (...) [i quali] sono chiamati a partecipare a una maturazione almeno fantastica del corpo, della psiche, degli equilibri e delle dissonanze tra l'intelligenza e i sentimenti.
Sono le parole con cui Gino Frezza ha analizzato Dyd, nel saggio La poesia matematica di Dylan Dog (in Le carte del fumetto, Liguori, Napoli 2008).
Ci sarebbe da dire ancora molto sul contesto in cui Dyd nasce e coglie i suoi primi successi, gli anni '80 appunto, e sul rapporto di rispecchiamento oppositivo con lo "spirito del tempo" in cui, secondo me, risiede gran parte del suo successo iniziale.
Mi piacerebbe farlo qui e magari, come si dice, ...continua e finisce in una prossima puntata


I sogni (e gli incubi) di Francesco P.

Che cosa rimane dell'Aquila dopo quattro anni e mezzo dal terremoto? 
Che cosa rimane per chi, sin dai primi mesi, l'ha raccontata con una videocamera?
Francesco Paolucci è tornato a raccontarci quello che si muove nel fondo del suo cuore, il suo cuore privato, intimo, ma anche quello pubblico, sociale: la sua città. E ora, dopo averci colpito e commosso con il diario di un terremutato, dopo averci fatto ridere - e pensare - con i suoi dice che, ci - e si - chiede: e se fosse stato tutto un sogno?





 

Ho incrociato la strada di Francesco a Teramo, quando era studente di Scienze della Comunicazione. 
Poi l'ho ritrovato come studente nel master di giornalismo, affascinato dalle tecniche e dal linguaggio del reportage giornalistico con una chiara preferenza per lo stile di Iacona. 
Poi l'ho seguito raccontare L'Aquila e il terremoto del 2009 attraverso i suoi video, contemporaneamente dall'interno e dall'esterno: seguendo le storie che si svolgevano nel cratere, e svelando le ambiguità della comunicazione mainstream, da una parte; e raccontandoci i moti del suo animo, dall'altro, inseguendo progetti personali, forse capaci di mostrare con ancora maggiore efficacia quello che stava succedendo.
Ora è giornalista e videomaker: segue sempre i suoi sogni e i suoi fantasmi personali, e ancora una volta ci sa raccontare quello che sta succedendo. E che oggi mi sembra che sia quell'impalpabile sfarinamento della voglia di resistere e di combattere che si accompagna al desiderio di normalità.
 

Una volta, in un intervento a Radiofrequenza, la radio dell'Università di Teramo - se non ricordo male per il primo anniversario del terremoto - mi disse che nei suoi primi video usava la videocamera come un diaframma fra il suo cuore e il mondo, quasi per non avvertire anche sulla pelle quello sgomento, quel dolore e quella rabbia che sentiva nel cuore. Questa commistione fra racconto privato e sguardo oggettivo - capace di rifrangere anche gli altri sguardi pubblici sul terremoto - era la forza dei suoi racconti.
 

Col passare dei mesi il Francesco che si nascondeva dietro l'obiettivo ha avuto la forza, e il coraggio, di uscire e mostrarsi.
E quelli che oggi possono sembrare veli, l'ironia che caratterizzò i "dice che" e ora il mood cinematografico che si respira nel suo ultimo racconto, mi sembra che siano solo una parte del suo modo di essere. Potrà sembrare contraddittorio, ma proprio ora che Francesco usa la finzione per raccontare quello che succede mi pare che si mostri senza schermi: e sia capace, allo stesso tempo, di percepire e raccontare un sentimento diffuso, pur senza arrendersi ad esso.
 

Perché, nonostante tutto, L'Aquila c'è ancora:
"ha presente?"
"sì..." 

Pubblicità di fine stagione

Sarà che l'estate sta finendo e che la mente ama smarrirsi ancora per un po' in pensieri oziosi.
Sarà che se hai la televisione o la radio accesa la vedi e la senti decine e decine di volte al giorno.
Sarà quello che sarà, ma ogni volta che passa questa nuova pubblicità non riesco a non contenere un moto di rabbia.



Ogni volta - ma, dico, ogni volta - che la vedo o la sento penso che siamo proprio messi male.

Lo so: siamo messi male, e non l'ho certo scoperto con questa pubblicità.

Però.

Però se considerate che fine della pubblicità commerciale è indurre il desiderio del consumo e che lo fa rappresentando aspirazioni e desideri sociali. E che nel rappresentarli, certe volte riesce ad intercettare il senso comune, il sentire profondo di una società.

Se pensate ad esempio che i manifesti dei magazzini Mele all'inizio del secolo scorso crearono un gusto borghese della moda e insegnarono al ceto emergente dell'Italia da poco unita a vestirsi.

Oppure che negli anni Ottanta la pubblicità dell'amaro Ramazzotti ha dato forma nell'immaginario collettivo al ritratto della città modello di un'Italia nuova. E che, allo stesso tempo, raccoglieva tutte le suggestioni che formavano il desiderio collettivo di un'epoca "rampante", inventando lo slogan che ancora oggi descrive gli anni Ottanta, nel bene come nel male.



Ecco, se pensate a questi e ad altri esempi possibili, allora la pubblicità con la Ferilli ci dice più di quanto non voglia.
Da un lato, certo, ci dice di un'epoca in cui, dopo anni di produzione industriale standardizzata, si cerca la cura artigianale del prodotto, il vero "valore" del prodotto (Artigiani della qualità).
Ma cura artigianale vuol dire lavoro -tanto, impegnativo lavoro- di uomini e donne.
E quello spot ci dice anche, dall'altro lato, che il lavoro - quel lavoro che dà valore al prodotto - viene pagato "a metà prezzo". E infine che ogni protesta, anche solo accennata, è inutile: e anzi viene sbeffeggiata e ridotta all'impotenza, neutralizzata, con una battuta.

Non mi stupisce che il lavoro - e quello artigianale, per di più: che vuol dire lavoro estremamente qualificato, applicazione di passione e ingegno, oltre che di abilità manuale - venga poco considerato. Lo si può leggere con chiarezza nei dati e nelle storie delle fabbriche che chiudono dalla mattina alla sera, di nascosto, con gli "imprenditori" che, come ladri nella notte, se ne vanno da un'altra parte dove il lavoro costa di meno.
Quello che mi fa arrabbiare è che questo stato di cose abbia finito per essere raccontato da un messaggio pubblicitario. Perché se la pubblicità intercetta "lo spirito del tempo" - o, peggio, mostra desideri e aspirazioni di una società -, allora l'idea che oggi abbiamo del lavoro è che esso debba essere pagato solo la metà di quanto merita (e talvolta anche meno).
E ogni volta che sento questi "artigiani della qualità" umiliarsi di fronte alla Ferilli, io non posso fare a meno di pensare che siamo davvero ai saldi di fine stagione: e che la merce che viene svenduta siamo noi.

29 giugno 2013, ore 19, presso Citylights

Ecco, quella è la data della prima presentazione del libro Le parole e le figure che i 15 lettori di questo blog (e un po' di studenti di qualche università italiana) conoscono bene.
Certo, presentare viene da praesens, presente, mentre questo incontro avviene quasi un anno dopo la pubblicazione del libro: un po' in ritardo, dunque. Ma tant'è. Il proprietario (oddìo che brutta parola per una persona che è più che altro un ospite) della libreria-circolo culturale Citylights di Pescara, Filippo Montefusco, è stato così gentile da organizzare per me questo incontro e sono molto curioso di vedere come andrà. Per inciso, la sua libreria-caffé è uno di quei bei posti che trovi dove non ti aspetteresti mai: nel caso specifico tra una sopraelevata, un magazzino e un call-center, in uno di quegli strani angoli di città che, pur essendo centrali, sembrano piena periferia. E questo suo essere inaspettata e accogliente, la rende ancora più preziosa.
Però quello di cui volevo dirvi non è questo.
È che annunciando l'incontro, avevo preparato un piccolo, scherzoso invito, che giocasse con il tempo, con l'epoca raccontata nel libro, e l'avevo messo su facebook.
Eccolo qui.

Poi c'ho preso gusto e ne ho fatto un altro,  stavolta un po' più "moderno", usando il più arcaico dei moderni sistemi di comunicazione pubblicitaria
E infine, ieri, un altro ancora, reimpiegando una copertina del 1924 di Radio News.
Solo che qui si è innescato un fantastico cortocircuito culturale, di quelli che attraversano la storia dei media, dei consumi culturali e dell'immaginario collettivo. Perché quell'idea della "visione a distanza", così futuribile nel 1924, rinviava già allora ad idee precedenti come quelle del telefonoscopio di Robida. E sembra - oggi - fare concorrenza a quelle fantastiche e fittizie pubblicità vintage dei new media come quella che vedete qui sotto (oltre a skype ci sono anche quelle di youtube, di facebook ecc).
Coincidenze divententi, ma anche suggestioni che permettono di cogliere alcune dinamiche del modo in cui media e modernità sono presenti nel nostro immaginario collettivo. Cose di cui, magari, potremmo anche parlare domani sera, se vi andrà di venire.

Breaking News: (sabato 29, ore 11,30)
mi avvisano da Citylights che l'appuntamento è anticipato alle 18,30.
Lo prendo come un buon segno: spero voglia dire che chi condurrà l'incontro pensi ci siano molte cose di cui parlare.


In scomparsa di Silvio Lanaro

Ho saputo da poco che non molte ore fa è scomparso Silvio Lanaro.
Verrà il tempo delle commemorazioni, dei necrologi sui quotidiani, dei numeri speciali delle riviste dedicati alla sua memoria.
E verrà, per chi ne sarà capace, anche il tempo della riflessione sull'importanza del suo lavoro per la storia italiana.
Qui, ora, per me è solo il tempo del ricordo minimo, come spesso accade quando si apprendono notizie del genere.
Potrei dire infatti che Silvio Lanaro era l'autore di una Storia dell'Italia repubblicana che a lungo è stata - e che tuttora è, nonostante molti altri studi - una delle più importanti e influenti ricostruzioni delle vicende recenti del nostro paese. Oppure che il suo Nazione e lavoro, è uno dei saggi più illuminanti sulla cultura borghese del nostro paese.
Eppure non è quello che mi è venuto alla mente sapendo della sua scomparsa.
A me è venuto in mente l'incipit di un libro forse minore ma che andrebbe riscoperto: Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi. Un libro che lo stesso Lanaro scriveva nella premessa di non sapere bene che cosa fosse, e che forse era solo
il diario intellettuale di uno studioso che da oltre trent'anni prova smarrimento di fronte alla pagina bianca ogni volta che ha diligentemente termnato di raccogliere materiali. Il mio è un problema di scrittura, insomma. Ma scrittura non vuole dire solo efficacia comunicativa, rigore di argomentazione, rapporto corretto con le fonti, eleganza stilistica: vuol dire anche, e soprattutto, confronto con le tecniche adoperate da altri, con le testimonianze che difficilmente si lasciano sopraffare, con tutti i generi letterari improntati alla narrazione di accadimenti reali, con l'angoscioso dilemma dei silenzi, delle rimozioni e dei tabù imposti da una qualsiasi censura collettiva, con la mutevolezza e l'aleatorietà di un lessico mutuato spesso da altre discipline. Si prenda dunque il libro per quello che è: un vagabondaggio nelle regioni in cui si affolla il passato che vive, spero non troppo arbitrario e non troppo incoerente.
Ecco: in questa premessa ad un testo complesso, ricco di cultura e di riflessione, ricercato nel lessico, ma anche pieno di ironia, c'è il mestiere di storico che io ho spesso riletto nelle pagine di Lanaro (e che ho avuto il piacere di sentire dalla sua voce quando mi è capitato di incontrarlo). Ma, accanto allo studioso, c'è anche l'uomo, di una statura così elevata da non rinnegare quell'umano horror vacui che prova chiunque abbia a che fare con la scrittura (e che spingeva lui alla ricercatezza formale, mentre conduce noi, spesso più di quanto non dovrebbe essere lecito attendersi, all'approssimazione e allo sperpero delle parole). E di una ironia così corrosiva che gli consente di chiedersi, in un altro passaggio dello stesso libro:
Ma allora, alla fin fine, che cosa distingue la figura dello storico? Chi può legittimamente fregiarsi di questo titolo? Quali sono i requisiti che deve possedere? (...) E soprattutto - poiché fra coloro che esercitano questa attività dalle frontiere mobili esistono più dilettanti che fra i pittori, i letterati o i musicisti - una pretesa "scienza" è solo sapiente artigianato o addirittura banale bricolage?
Se volete una risposta a questa domanda riprendete in mano i suoi libri: la troverete là, in ogni singola riga.


Il segno di una resa invincibile, venticinque anni dopo

Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1988 Pazienza, contrariamente a quanto amava dire (la pazienza ha un limite... Pazienza no), mostrava di avere un limite. Un limite che aveva già raggiunto molte volte ma che allora superava. Per non tornare più indietro.

Per me Andrea Pazienza ha significato qualcosa che potrei paragonare all'adolescenza o, se preferite un'evocazione di sapore conradiano, al varcare la linea d'ombra: a quel passo che ti porta in un altro mondo, da cui sei allo stesso tempo affascinato e respinto.
Pazienza era affascinante. E terrorizzante.
E terrorizzante perché affascinante. E affascinante perché terrorizzante. (E se non avete capito non avete mai letto le storie di Zanardi oppure Pompeo: oppure li avete letti quando era ormai troppo tardi)

Io, fra l'altro, l'ho incontrato quando era già - diciamo così - "normalizzato": sulle pagine di "Corto Maltese" e di "Comic Art", se non ricordo male.
Era già un Pazienza diverso da quello del "Male", che ho recuperato dopo, con pazienza (e scusate il facile gioco di parole) nelle raccolte o guardando le collezioni di quella storica rivista (e chiedendomi sempre - e sempre senza riuscire a darmi una risposta - come doveva essere leggerla allora, in quegli anni, respirando quell'aria...).
Ma il suo era comunque un segno che apriva mondi: ti faceva vedere per intero qualcosa che faceva capolino anche nella tua esistenza, ma che coglievi al massimo come un movimento fugace ai confini della visione. Come la sagoma di uno squalo sotto il pelo dell'acqua, per dire.

Sarà perché mi è difficile staccarmi da questa prospettiva individuale (e c'entra anche la questione dell'adolescenza), ma io ho sempre sentito Andrea Pazienza come un cantore - o, meglio, un testimone - degli anni '80 più che del '77, come spesso si dice. Ma un testimone in buona misura preveggente: capace di cogliere l'individualismo e l'egoismo; la ricerca del piacere individuale; il crollo dei confini fra il bene collettivo e quello privato, a tutto vantaggio di quest'ultimo; e, in fin dei conti, anche l'atomizzarsi della società, già in quello scampolo di anni Settanta che raccontava con un tratto ancora fortemente influenzato da Moebius ma già fortemente originale.

Tempo fa ho letto un interessante articolo che parlava di una storia cruciale nella produzione di Pazienza, Lupi del 1984, come il punto di passaggio, e il ponte, fra anni Settanta e anni Ottanta (non lo trovo più in rete: mi limito, per chi fosse interessato, a mettere qui un suo riflesso).
Ecco: anch'io penso che Andrea Pazienza sia stato
il ritrattista emotivo di una parabola storica che va dalla festa libertaria degli anni settanta a quella liberista degli ottanta.
Ma penso anche che egli avesse "sentito" (confusamente, irregolarmente, sentito) questa parabola già nei lavori degli anni Settanta. Perché in quello scorcio di tempo, nonostante la Bologna creativa, nonostante la Milano dell'industria culturale, nonostante il movimento studentesco, tutti luoghi da lui frequentati e raccontati in quello strano modo partecipe/distaccato che gli era proprio, quei segni già c'erano.
Ora che si sta finalmente iniziando a studiare a fondo, e in modo nuovo, il passaggio fra anni Settanta e anni Ottanta (per esempio nei lavori di Guido Crainz, Il paese reale e di Fausto Colombo, Il paese leggero, per dire gli ultimi che ho letto) Andrea Pazienza dovrà avere il suo posto fra le fonti di questa nostra storia.


Ah, per chi non l'avesse colto, il riferimento del titolo è ad una storia pubblicata nel 1983, che si chiude in questo modo:
Se ne andò così, per un insulto cardiaco, all'età di ventotto anni. Osservando la sua foto sulla tomba, mi chiesi se il cuore fosse davvero un muscolo involontario e se quella morte non fosse il segno di una resa invincibile
Allontanate pure da voi, se volete e ci riuscite, la facile e ineluttabile suggestione del parallelismo fra arte e vita.

"Le notizie sulla mia morte sono alquanto esagerate"

Così si potrebbe dire, citando Mark Twain, a proposito della scomparsa di Linus, notizia che era riportata  oggi dalla stampa.
Devo confessarvelo: quando l'ho sentito dire stamattina, durante una rassegna stampa, sono rimasto senza parole. Non lo leggevo più da molto tempo, ma il saperlo lì, in edicola, mi dava sicurezza.  Sì, quasi come la coperta.
"Non lasciatemi solo!" aveva scritto un lettore sulla pagina facebook della rivista. Per fortuna sembra che il suo grido di dolore - e quello di centinaia di altri abbonati e lettori più o meno fedeli - sarà ascoltato.
Lo stesso editore - Baldini&Castoldi srl - ha pubblicato un comunicato stampa che ridimensiona la notizia:
Cari Lettori,
con un pesante ma giustificato ritardo eccoci a comunicarvi lo stato dell’arte. Linus si è temporaneamente fermato per una serie di problemi gravi e di complicata soluzione, riguardanti stampa e logistica e conseguenti a un difficile momento della società editrice.
Avremmo atteso più volentieri il momento della soluzione definitiva delle questioni ancora sospese, ma alcune inopportun...e e mal suggerite sciocchezze uscite sui quotidiani dei giorni scorsi ci convincono a intervenire per fare chiarezza.
La volontà dell’editore è senz’altro quella di proseguire la pubblicazione di Linus, come ovvio permettendo agli abbonati di recuperare i numeri persi, ma perché la volontà si trasformi in qualcosa di più concreto, e quindi nelle prossime uscite del mensile, mancano ancora alcuni passaggi che speriamo di potervi comunicare al più presto.
Intanto vi ringraziamo dei moltissimi messaggi di solidarietà e degli incitamenti ricevuti, faremo del nostro meglio per essere all’altezza.
Linus era lì, in edicola, dall'aprile 1965.
Sono tanti, tanti mesi.
Mesi e anni in cui Linus ha fatto capire agli italiani che il fumetto non è una "roba da bambini", come voleva allora (e forse, per molti, anche ora) il senso comune: del resto nel primo numero Umberto Eco aveva intervistato su quest'argomento Elio Vittorini e Oreste Del Buono. Già pochi mesi dopo la sua prima uscita, l'obiettivo poteva dirsi raggiunto perché era letto soprattutto da studenti universitari e liceali, seguiti da impiegati e professori. Nel luglio del 1965, infatti, il mensile pubblica i risultati di un "referendum" che aveva indetto fra i suoi lettori per capire chi fossero: la maggior parte era tra i 23 e i 28 anni, ma ce n'erano pure un certo numero sopra i 40 e alcuni fra gli otto e i dieci. Un pubblico composito, dunque, che oltre al desiderio di leggere buoni fumetti condivideva con i redattori un certo orizzonte di pensiero, una certa - si potrebbe dire - filosofia, come scriveva Oreste Del Buono (che ne sarebbe stato a lungo direttore) nel 1966:
LINUS, si sa, aspira ad essere una rivista non solo per bambini e ragazzi, ma per tutti. Redattori e lettori non sono dei tartufi, dei parrucconi, dei moralisti ad ogni costo. Guardano al mondo con una certa spregiudicatezza, ed è proprio dalla spregiudicatezza  che ricavano la loro allegria 
E la loro spregiudicatezza era anche nelle scelte editoriali: certo, soprattutto all'inizio venivano pubblicati i grandi classici del fumetto americano (e c'erano furibonde polemiche su Li'l Abner, considerato geniale da alcuni e orribilmente reazionario da altri).
Ma su quelle pagine trovano spazio , che io sappia per la prima volta in Italia, i fumetti che in quegli anni stavano sfornando Stan Lee e Jack Kirby: nel Linus Estate del 1966 viene pubblicata una storia dei Fantastici Quattro,
 la più strabiliante galleria di personaggi che il genere fantascientifico abbia mai avuto. Invenzioni strepitose, lotte ciclopiche, magia, mutazioni incredibili, il tutto sorretto però da una certa logica scientifica e, soprattutto, da una buona dose di humour che interviene puntualmente a decantare le situazioni più grandghignolesche.
Una
specie di ghignante “chanson de geste” del futuro [che] ha avuto un successo (...) travolgente in America, soprattutto negli ambienti universitari...
E la produzione di Lee e Kirby viene analizzata nel numero successivo da Alfredo Castelli che, prima di diventare uno dei più importanti sceneggiatori italiani, scriveva su quelle pagine importanti saggi sui fumetti classici e sulla storia del fumetto.
E poi, appena un anno più tardi, ecco apparire un racconto di Guido Crepax intitolato Funny Valentine in cui, come commentava Vittorio Spinazzola, erano sovvertite
 tutte le canoniche convenzioni del comic d’avventure. (…) La trama narrativa è scomparsa; nello stesso tempo di movimento è esploso spezzando l’ordinata serie dei riquadri e puntando a mescolare tutte le immagini in un unico magma, per usare un termine alla moda. Il disegnatore gioca liberamente con lo scorcio, la panoramica, il primo piano senza più bisogno di didascalie per collegare le vignette e colmare gli intervalli. Trionfa il fattore visivo: ma appunto ciò assicura nuovo risalto all’intervento della parola scritta, esaltandone l’icasticità
Questa vena di ricerca, ma anche l'aderenza allo spirito del tempo, saranno esaltate negli anni della direzione di Oreste Del Buono: la rivista arriverà a sdoppiarsi per sostenere meglio le energie creative che ospitava sulle sue pagine, da Lunari a Calegaro, da Breccia a Crumb, fino a Pazienza, che su quelle pagine esordirà.
Rivista culturale, allora, prima ancora che rivista a fumetti. Rivista per cui, come scrivevano nel 1972,
Avere un’opinione e non nasconderla, proporla anzi per un confronto non è il peggiore dei mali, ne siamo convinti. Come siamo convinti che il decidere di non fare politica sarebbe una decisione ugualmente politica 
Anche resistere, oggi, sembra avere il sapore di una decisione politica.
Di una buona politica, culturale ed editoriale.  

comunite: (ri)nascita di un sito

Il 26 giugno 2012 scrivevo queste parole (e se volete capire qualcosa di quello che sto per dire dovrete andare a rileggervele) e incrociavo le dita perché le cose andassero a buon fine.
Oggi, finalmente, è ora di disincrociarle (si dirà così?). Certo, dopo quasi un anno sono un po' anchilosate, ma il senso di liberazione e di conquista è ancora più forte.
Da oggi il nuovo sito della facoltà di Scienze della Comunicazione è on line: attivo, funzionante e pronto a ricevere la collaborazione di tutti quelli che vorranno mettersi alla prova e far crescere la comunità in cui vivono, studiano e crescono.
Non tutto è ancora perfetto: alcune pagine sono da rifinire, altre da migliorare, altre ancora da inventare.
Ma è lì, e vi aspetta.
Il nuovo comunite è nato durante il "laboratorio di conunicazione multimediale" che avevo tenuto lo scorso anno insieme a Gabriele D'Autilia. Il senso di quello che avevamo provato a fare era applicare ad un progetto reale tutta la teoria accumulata fino ad allora. C'era un vecchio sito della facoltà da rinnovare e reinventare. E c'era un gruppo volenteroso di studenti, pronti a raccogliere la sfida e a mettersi in gioco.
Finito il corso, il nuovo sito era abbozzato nella sua struttura e, soprattutto, nella sua filosofia: partecipazione, interazione, condivisione, multimedialità dovevano essere le chiavi per accedervi.
Ma la parola chiave, l'architrave, era un altro: comunità. La facoltà - e l'università - come comunità di studenti e docenti, in cui c'è qualcosa di più del semplice trasferimento di conoscenze: c'è un continuo e mutuo scambio - di informazioni, idee, pensieri, opinioni, gusti, passioni - che, quando si attiva, produce crescita in tutti quelli che ne fanno parte.
Certo, poi ci sono le vischiosità, le abitudini, le chiusure, le intolleranze, le scorciatoie, le svogliatezze, le disillusioni, e tutto quello che impedisce a qualsiasi gruppo di crescere e maturare.
E infatti c'è voluto quasi un anno per riuscire a scrociare (si dirà così?) quelle dita che, insieme ad un gruppo di ragazze e di ragazzi, avevo incrociato quasi un anno fa.
Qualcuno, nel frattempo, ha deciso che aveva di meglio da fare. Qualcun altro ha finito il suo percorso, e ha trovato nuove strade. Ma qualcuno è pure arrivato e ha deciso di mettersi in gioco.
E ora la parola è a tutti gli altri: quelli che visiteranno il sito, lo consulteranno, vi collaboreranno.
Se questa idea riuscirà a proseguire il suo cammino sarà anche grazie a loro.
Se è arrivata fino a qui, invece, è grazie a Cosimo, Letizia, Andrea, Anna, Diana, Martina e Valentina.

Da cosa nasce cosa: genesi di un articolo

Comunicazioni sociali 1/2013
copertina di Emiliano Ponzi
E' cominciato tutto a Torino, il settembre scorso. Ero stato invitato alla Summer School Tv organizzata dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione dell'Università di Torino: si parlava di Tv italiana e tv europea nell'epoca di internet.
Un'occasione preziosa per discutere per due giorni di televisione e media in un'ottica internazionale e transnazionale, conoscere programmisti, registi e autori delle tv francesi, inglesi, tedesche, e incontrare altre persone che studiano - da una prospettiva diversa dalla mia - i mass media.
Bene: durante uno di quei discorsi casuali che sono una delle prove dell'esistenza della serendipità, scopro che sto studiando qualcosa di molto vicino a quello che stava studiando allora Luca Barra (che insegna alla Cattolica di Milano ed è coordinatore di questa rivista qui).
Due chiacchiere.
"Sai, stiamo preparando un numero di Comunicazioni sociali proprio su questi temi: l'hai visto il call for paper? Te lo mando".
Progetto per un articolo.
Vaglio della redazione, che lo accetta.
Scrittura e invio.
Double blind peer review.
Piccole correzioni.
E poi, alla fine, eccolo lì, dietro quella bella copertina.
Il titolo è Da libere a private. Sulla nascita della televisione privata in Italia.
E questo è ciò di cui parla:
Il saggio esamina la creazione di un nuovo tipo di televisione in Italia tra il 1971 e il 1980, la cosiddetta “televisione libera”, e il legame tra la sua crescita e le trasformazioni della società italiana negli anni Settanta, con particolare riferimento al cosiddetto “riflusso”. Più nel dettaglio, il contributo analizza quel primo periodo in cui le tv locali iniziarono a contrastare la Rai e a promuoversi come il “vero” servizio pubblico. Le “tv libere”, infatti, erano convinte che la loro vicinanza alle comunità locali permettesse loro di rappresentarle meglio della Rai. In breve tempo, però, le ragioni commerciali sostituirono quest’idea e le televisioni da “libere” diventarono “private”.
Il numero, da quello che ho potuto vedere e leggere finora, è molto interessante.
Se voi volete saperne di più, seguite il link che vi porterà direttamente al sommario on line.

Un anno dopo

Un anno fa avevo il piacere di raccontare la festa del Primo Maggio per Wikiradio, la trasmissione di Radio Tre che si presenta come una sorta di almanacco giornaliero per orientarci nella nostra modernità.
la presentazione di Wikiradio
Un anno dopo è ancora il Primo Maggio, e, leggendo i drammatici dati della disoccupazione, viene da chiedersi ancora una volta se questa festa abbia ancora un senso.
Forse questo senso è da rintracciare nella sua storia, che, se vi va, potete riascoltare qui oppure leggere qui sotto.




Andrea Sangiovanni racconta il Primo Maggio 

(Wikiradio, 1 maggio 2012)


«Alle sette in punto il signor cavaliere Bianchini saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro. Questi se ne stava seduto, con la giacchetta sulle spalle, sullo scalino del suo uscio a vetri (…). Diamine! Se festeggiava il 1° Maggio il Peroni, un operaio vecchio e tranquillo, c’era da credere che lo festeggiassero tutti gli operai di Torino»


Inizia così un romanzo sul primo maggio che Edmondo De Amicis inizia a scrivere nel 1891 e che lascia incompiuto. L’anno precedente, nel 1890, il Primo Maggio era stato celebrato per la prima volta e il romanzo di De Amicis riflette bene le speranze e i timori con cui l’Italia umbertina attendeva questa data; aspettative e paure che un personaggio riassume in questa frase e che mi pare un buon punto per iniziare a raccontare il Primo Maggio.

Chi parla è un giovane ingegnere, «un uomo d’ingegno, che pensava con la sua testa, che s’intendeva di tutto e aveva gran pratica d’operai», per usare le parole di De Amicis. E dice:


«Certo, questa qui del 1° Maggio è stata una gran pensata. Per il socialismo è come il punto d’appoggio, che cercava Archimede… per sollevare la terra.

E la mobilitazione internazionale delle forze operaie… le par poco? ma questa commozione che c’è già da un mese nei governi, nella stampa, in tutto il pubblico, in attesa del 1° Maggio, è già una grande vittoria. Chiamano l’attenzione del mondo sulla questione. La questione delle 8 ore… da ridere! dietro la questione delle otto ore c’è il socialismo intero che s’avanza e minaccia».

Tutto quello che accadrà oggi, aggiunge, qualunque cosa accada, non sarà certo tale da costituire una vera minaccia per la società. Ma poi conclude: «Quello che è grave, quello che mi sconcerta, è che questo 1° Maggio non andrà più giù, e che sarà ogni anno più serio…»


E non aveva certo torto, se oggi siamo qui a parlarne ancora una volta, a cercare di raccontare una data che è ogni anno uguale a se stessa, ricorrenza rituale di un ideale calendario civile, e, allo stesso tempo, sempre diversa, specchio del modo in cui la società – le società, al plurale, perché una delle particolarità del Primo Maggio è di nascere internazionale – si confrontano con l’idea e il valore di lavoro.

Così, per raccontare il Primo Maggio si può certo ricostruire la storia degli eventi più o meno importanti che hanno contrassegnato negli anni questo giorno particolare. Ma si può anche raccontare il modo in cui questa data viene vissuta: che cosa poteva significare per il muratore Peroni descritto da De Amicis sedere tranquillamente sulla soglia di casa con la giacchetta sulle spalle e poi, magari appuntandosi un fiore rosso all’occhiello, andare con gli altri muratori in giro per il centro della città con le mani in tasca, o in osteria a bere un bicchiere di vino intonando canti rivoluzionari. Anche perché, sin dall’inizio, la forza simbolica – ma anche reale – del Primo Maggio risiede in eguale misura nelle speranze che suscita e nei timori che evoca. I lavoratori, da una parte, vi vedono la promessa di una società futura mentre, dall’altra parte, i “signori” vi scorgono la minaccia alla società presente.


Il racconto del Primo Maggio, insomma, ha molte facce, apparentemente contraddittorie: talmente tante di quelle facce che quando si è trattato di celebrarne il centenario, convegni e manifestazioni si sono susseguiti per ben cinque anni, dal 1986 al 1990. E non è un paradosso, né un’indecisione da parte degli storici o di coloro che avevano organizzato le celebrazioni: il fatto è che l’origine del Primo Maggio risiede in due eventi distanti nel tempo e nello spazio, e tuttavia fortemente intrecciati.

Il primo sono le lotte degli operai a favore della giornata lavorativa di otto ore, e in particolare quello che accade a Chicago nel 1886. Il primo maggio di quell’anno in tutti gli Stati Uniti c’è un imponente sciopero che coinvolge circa 400.000 lavoratori: nella sola Chicago, che allora era uno dei centri ferroviari ed industriali più importanti del paese, i dimostranti sono circa 80.000. Le manifestazioni proseguono anche nei giorni successivi e il tre maggio una carica della polizia durante un comizio, e gli scontri che ne seguono, lascia sul terreno due vittime, due operai. Il giorno seguente, il 4 maggio, c’è un nuovo comizio di protesta in Haymarket Square: la polizia carica di nuovo ma qualcuno lancia una bomba che fa diversi morti e feriti. Per l’opinione pubblica i colpevoli sono gli anarchici e la polizia, che scatena una dura repressione contro il movimento dei lavoratori, individua e arresta nove persone. Un rapido processo ne stabilisce la colpevolezza e i nove vengono condannati a morte (anche se poi alcune delle pene verranno trasformate in ergastoli): in quegli stessi mesi, però, si sviluppa un forte movimento di opinione pubblica che si oppone al modo in cui il processo è condotto, e chiede la liberazione degli arrestati. Inutilmente: nel 1887, quattro dei nove condannati vengono impiccati: saranno definiti i “martiri di Chicago” ed è in loro nome che una parte dell’opinione pubblica continua a fare pressioni sulle autorità locali, per non lasciare l’ultima parola al boia e riabilitarne almeno la memoria. Ci riuscirà solo qualche anno più tardi quando, nel 1892, il nuovo governatore dell’Illinois riconoscerà che il processo era stato viziato dal clima di isteria innescato dagli scontri di Haymarket Square.

La storia dei martiri di Chicago si radica profondamente nella memoria del movimento operaio, e finisce per diventare un “mito di fondazione” del Primo Maggio, evocato soprattutto alla fine dell’800, in particolare da parte anarchica: nei molti significati che questa giornata stava assumendo allora, infatti, c’era anche la commemorazione delle «vittime tutte invendicate», per usare un’espressione dell’epoca, vittime del lavoro, ma anche dell’ingiustizia sociale e simbolo della contrapposizione di classe.


Il secondo evento a cui si deve la nascita del Primo Maggio è anch’esso legato alla questione delle otto ore, anche se è molto meno “epico” dei fatti di Chicago (e non è un caso che non sia un “mito fondativo”).

Siamo nel 1889 e a Parigi, tra il 14 e il 20 luglio, si tiene il Congresso Internazionale Socialista. Fra le molte questioni esaminate c’è anche quella della riduzione ad otto ore della giornata lavorativa: si decide allora di indire una manifestazione da svolgersi contemporaneamente in tutti i paesi per chiederne ai governi l’approvazione. Inizialmente però l’assemblea non individua una data specifica e l’idea del Primo Maggio è introdotta solo in un secondo tempo quando un osservatore americano chiede la solidarietà dell’assemblea per lo sciopero generale per le otto ore che l’ American Federation of Labour avrebbe indetto il 1° maggio dell’anno successivo.

Ed è così, in conclusione dei lavori e, verrebbe da dire, in modo quasi casuale, che il Congresso produce il documento che certifica la nascita del Primo Maggio:

«Una grande manifestazione sarà organizzata per una data da stabilire, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città nello stesso giorno i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del congresso di Parigi. Considerato che una manifestazione dello stesso tipo è già stata decisa per il primo maggio dalla American Federation of Labor nel congresso tenutosi a St. Louis nel dicembre 1888, questa data è stata adottata [anche] per la manifestazione internazionale. I lavoratori dei vari paesi daranno luogo alla manifestazione entro i limiti loro imposti dalla particolare situazione di ciascun Paese».


Un documento quasi prosaico, e che tuttavia è fondamentale nel dare una dimensione internazionale alla manifestazione, sancendone in qualche misura la forza, anche simbolica.


La dichiarazione d’intenti che il Congresso internazionale socialista approva nel 1889 assume rapidamente – e quasi inaspettatamente – una grande forza simbolica: il Primo Maggio diventa una data in cui un intero mondo si può specchiare, riconoscendosi e soprattutto facendosi riconoscere dagli altri. E così in breve tempo quella «grande manifestazione» indetta a Parigi diventa qualcosa di più; in Italia Costantino Lazzari, uno dei massimi esponenti del Partito Socialista nei primi anni del Novecento, parla del Primo Maggio come di una «commemorazione dell’avvenire», un’espressione che riassume perfettamente l’ambivalenza, forse la contraddittorietà, ma anche la ricchezza di significati, che il giorno sta assumendo.

Per raccontarvi alcune delle caratteristiche del Primo Maggio a cavallo tra XIX e XX secolo, vorrei leggervi alcune righe pubblicate su uno dei giornali che venivano stampati in occasione del Primo Maggio, numeri unici che, fra l’altro, raccontano molto bene l’eccezionalità di quella giornata, perché finivano per sostituire i quotidiani borghesi che non erano pubblicati perché i tipografi non lavoravano.


«Sì, giorno di riposo, di voluta festa, di gioia, di speranza, di pensiero; giorno bello, gaio, ridente, anche se l’orizzonte era annuvolato e la natura in collera; (…) sciopero d’un giorno, ma sciopero perché (volenti o nolenti i padroni, i capo-ufficio, i maestri d’arte) i lavoratori d’ogni genere si astenevano o dovevano astenersi dal lavoro. Era sciopero, era volontà, era ribellione, era l’affermazione dei diritti del lavoratore imposta dal lavoratore stesso».


È un brano che riesce a trasmettere molto bene l’entusiasmo con cui veniva vissuta una giornata che era allo stesso tempo di lotta e di festa. È una di quelle ambiguità che costituiscono la forza del Primo Maggio, giorno nel quale c’è una tensione continua fra l’interruzione del lavoro, lo sciopero, per quanto di un giorno solo, e la festa: è festa perché non si va al lavoro, ma non si va al lavoro perché in questo modo si rivendica la propria consapevolezza di classe (se mi permettete un’espressione un po’ inattuale).

È quasi un paradosso che i lavoratori scelgano per riconoscersi fra loro, ma anche per mostrarsi sul palcoscenico pubblico, di non fare più proprio quello che li caratterizza agli occhi della società, agli occhi dei “padroni”. E così il muratore Peroni, per evocare ancora il personaggio di De Amicis, se ne sta seduto su un gradino a prendere il sole, il tipografo non stampa il giornale e l’operaio esce dalla fabbrica; e tutti insieme vanno in giro per la città, in quei luoghi che non frequentano abitualmente – lungo i corsi, nelle piazze e nelle strade del centro – e in quegli orari – durante il tempo del lavoro – in cui non li si vede normalmente. E in questo modo si riappropriano del loro tempo e di quegli spazi della città che normalmente gli sono preclusi.

Ma questa anormalità, questa eccezionalità sottolineano che la festa del Primo Maggio è una festa tutta operaia, una festa che non è segnata nel calendario borghese. E per dirlo ancora più forte, per farlo capire con chiarezza, i lavoratori esibiscono con orgoglio i propri simboli di classe: e torniamo allora alla descrizione del Primo Maggio che vi ho già citato. Ve ne leggo un altro passaggio:

«Io ricordo con una certa commozione quella data e rivedo ancora con gli occhi del pensiero quella balda gioventù operaia che aveva abbandonato il lavoro e passeggiava per le vie delle grandi città, delle province, dei paesi, co’ cappelli flosci inclinati, le vivaci cravatte rosse o rosso-nere svolazzanti, garofani color fuoco all’occhiello ed in mano, o sporgente dal taschino, il numero unico del partito, lieti, sprezzanti, audaci, pieni di santo entusiasmo, dipinta in volto la sicura coscienza del proprio io formante nella solidarietà dell’espressione e dell’idea la coscienza tutta della collettività. Sembrava fossero scesi in piazza, sia pure a fare festa, sia pure senza picche e senza fucili ed armati solo d’amore, ma vi fossero scesi per contarsi, per misurarsi, per conoscersi, per dirsi: “Siam noi! e se vorremo… quando vorremo…” »

È chiaro allora che tutte le azioni e tutti i simboli dei lavoratori servono a dire al mondo borghese: eccoci, siamo qua. E siamo tanti. I colori e i vestiti, i cortei e i canti sono tutti simboli che la borghesia legge come un’implicita minaccia: ed è proprio questa paura che finisce per accrescere l’importanza del Primo Maggio.

Nel 1890, infatti, il governo Crispi emana delle disposizioni per impedire assembramenti o manifestazioni nei luoghi pubblici e le città vengono presidiate dall’esercito, con un dispiegamento di forze che rinforza i timori della borghesia. Gli incidenti, però, sono pochi e, paradossalmente, sono proprio le disposizioni governative e il massiccio schieramento dei militari a generare il panico. Insomma, si potrebbe quasi dire che sia più il tentativo del governo di controllare le manifestazioni che non le ridotte capacità di mobilitazione del movimento operaio e socialista, a trasformare il Primo Maggio in una giornata particolare e memorabile, cosa che avviene su due livelli. Da una parte, infatti, le proibizioni governative di fare riunioni, assembramenti, “processioni” o “passeggiate collettive”, finiscono per suggerire le forme che le manifestazioni assumeranno negli anni successivi, fino a ritualizzarsi: e così ecco che le riunioni, che non si potevano tenere all’aperto, si svolgevano al chiuso, nelle sedi delle associazioni operaie, oppure nei luoghi della socialità pubblica, nelle osterie e nei caffè, in cui si mescolavano i discorsi politici e i brindisi, i canti e le “bicchierate”. E infine, essendo precluse le città presidiate dall’esercito, la festa usciva dai confini cittadini, con scampagnate che assumevano un carattere sempre più marcatamente ludico.

Dall’altra parte, poi, il conflitto – più temuto che concreto – passa dal piano reale a quello simbolico: e qui si fa in qualche modo permanente, e si rinnova di anno in anno. Recuperando, fra l’altro, tutta una serie di simboli diffusi nelle feste popolari che salutano l’arrivo della primavera, non a caso stagione di rinascita e rinnovamento



Ho già detto che ogni anno il Primo Maggio celebra se stesso, anche se non è mai uguale a se stesso: come ha scritto uno storico, «il Primo Maggio ha avuto una origine unitaria e una attuazione plurima».

È un’affermazione che suona più contraddittoria di quanto non sia – pensate solo alla pluralità di forme e riti con cui il Primo Maggio viene festeggiato nei diversi paesi – e che ci rimanda invece alla complessità di questa data che, nonostante sia parte centrale del nostro calendario civile, è stata più volte giudicata in crisi d’identità e in pieno declino. Non è una questione da sottovalutare, anche al netto delle polemiche politiche, effimere quando non strumentali: tutte le feste civili con forti componenti simboliche e rituali sono manifestazioni sociali che per mantenere la propria attualità devono essere continuamente ricontrattate e ridefinite, in un dialogo incessante fra le diverse componenti della società. E infatti, sin dalle sue prime celebrazioni c’era chi sottolineava che il Primo Maggio correva il rischio di trasformarsi in un rito sterile: perché conservasse la sua forza doveva mantenere il carattere di “festa ribelle” perché, come si legge in un numero unico, «quando dovesse perdere questa sintomatica caratteristica o finirebbe per scomparire, o diventerebbe una cosa vuota e insignificante come il giorno dello Statuto o, per un esempio fra i tanti, come la festa di San Giuseppe».

E infatti sarà solo mantenendo i suoi caratteri di “festa ribelle” che il Primo Maggio riuscirà ad attraversare gli anni del fascismo. Infatti Mussolini, che evidentemente era ben consapevole del suo ruolo simbolico, lo abolisce subito, già nella primavera del 1923, per sottolineare in questo modo la totale e definitiva sconfitta del movimento operaio. Al posto del Primo Maggio viene istituita una festa del lavoro, a cui viene riservato il 21 aprile, il giorno che si voleva della fondazione di Roma, ma anche una data abbastanza prossima al Primo Maggio da cancellarla simbolicamente.

Negli anni del regime, allora, festeggiare il Primo Maggio è proibito: per coloro che in quel giorno si astengono dal lavoro viene addirittura previsto il licenziamento, e la Milizia opera con grande sollecitudine per reprimere qualsiasi manifestazione, anche quelle private. Eppure questa dura repressione non riesce ad eliminare del tutto la festa del Primo Maggio, che continua ad essere celebrato, certo in forma diversa e privata, spesso magari solamente simbolica: uno dei modi, per esempio, era quello di esporre di nascosto dei drappi rossi, magari sugli alberi o sui pali della luce, dove era più facile appenderli senza farsi vedere, ma anche in quei posti dove far sventolare una bandiera diventava un chiaro segno di provocazione: ne saranno affisse sulla Mole Antoneliana e addirittura dal balcone di Montecitorio. Negli anni del regime, così, festeggiare il Primo Maggio diventa un modo per esprimere il proprio dissenso politico: e il farlo di nascosto rinforza quella funzione di identificazione di classe che il fascismo aveva voluto annullare.

Il conflitto simbolico intorno alla festa del lavoro non cessa neppure nel dopoguerra: nel 1955, per esempio, Pio XII proclama il Primo Maggio festa liturgica di San Giuseppe artigiano, trasformando così la festa socialista per eccellenza in una festa cattolica: e un anno dopo, quasi in un nuovo scontro di questa guerra di simboli, una statua del Cristo lavoratore attraversa in volo l’Italia da Milano a Roma, prima in aereo e poi in elicottero, fino a Piazza San Pietro.

A parte questi episodi, però, negli anni della Repubblica il Primo Maggio è soprattutto una spia del grado di coesione del movimento operaio e dello stato delle relazioni sindacali. Il Primo Maggio del 1948, ad esempio, i rapporti fra i sindacati sono molto tesi e si stanno avviando verso la rottura: nel gesto del segretario della Cisl Giulio Pastore che scende dal palco per non parlare insieme al leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, c’è quasi una prefigurazione simbolica della rottura che si consumerà qualche mese più tardi. E da allora, e per alcuni anni, i sindacati celebreranno separatamente il Primo Maggio.

Torneranno di nuovo sullo stesso palco solo nel 1970, dopo l’autunno caldo delle lotte unitarie. Ancora una volta l’episodio si carica di forza simbolica e diventa la rappresentazione del prestigio di cui ormai godono i sindacati che, scrive Enzo Forcella, «sono diventati "arbitri" dei futuri sviluppi della vita pubblica del Paese»: siamo agli inizi di quella stagione che sarà definitia della “supplenza sindacale”, in cui i sindacati sembrano caricare sulle proprie spalle le funzioni politiche che sarebbero dovute spettare ai partiti e al governo.

Poi, però, i cortei e i palchi del Primo Maggio sindacale tornano a separarsi ancora: è il 1987 e, ancora una volta, queste feste separate sono lo specchio della debolezza delle organizzazioni di categoria e della profonda trasformazione del loro ruolo nella società, e, direi, un effetto posticipato della serie di sconfitte dei primi anni ’80, dalla marcia dei quarantamila al referendum sulla scala mobile dell’85.

Sarà il centenario del Primo Maggio a riportare nuovamente i tre sindacati a celebrazioni unitarie. Ma nel 1990 il rito si innova radicalmente: inizia allora infatti quello che tutti chiamano con familiarità il “concertone” di Piazza San Giovanni.

In vista del centenario della festa del lavoro il sindacato vuole fare le cose in grande e organizza due concerti: uno classico a Milano, con l’orchestra diretta dal Maestro Abbado, e uno pop-rock a Roma, forse ispirandosi ai grandi raduni rock legati a cause umanitarie che erano nati in quegli anni, dal Live-Aid in avanti. In quei giorni Gugliemo Epifani, che anni dopo sarebbe diventato segretario generale della Cgil, dichiarava ad un giornale che «festeggiare cento anni del primo maggio affidandosi alla musica, anziché al tradizionale comizio, è una scelta nuova ed è un tramite importante perché è un mezzo che permette di raggiungere tutto il pubblico». Bisogna riconoscere che il sindacato aveva indovinato la formula, grazie anche alla complicità della Rai, che nei primi anni trasmetteva il concerto integralmente.

E però, proprio allora, iniziano a nascere le domande sulla possibile decadenza del Primo Maggio: accentuarne gli aspetti legati alla festa, non era forse un segno della sua debolezza? In realtà lungo tutti gli anni ’80 la polarità fra il rito politico e il momento della festa era andata rafforzandosi: da un lato, infatti, la dimensione festiva si era accentuata, almeno a partire dalle iniziative organizzate a Roma nel 1981, cose come la “camminata delle azalee” o lo spettacolo di fuochi artificiali che avevano dato alla giornata un tono speciale, tutto festivo e spensierato. Dall’altro, invece, l’indebolimento dei sindacati e il depotenziamento del ruolo sociale dei partiti lungo tutti gli anni ’80 avevano in qualche modo sterilizzato la forza rivendicativa e politica delle celebrazioni, fino ad arrivare ai festeggiamenti separati ai quali abbiamo già accennato. E però, pensiamoci un momento: non è anche questo processo un segno della particolarità che contraddistingue il Primo Maggio di racchiudere «in sé il ritmo mutevole della lotta proletaria», di vivere «insieme con il movimento operaio» e di mutare con esso, come scriveva nel 1907 Rosa Luxemburg? Se è così, allora i Primo Maggio degli anni ’80 riflettono quella tendenza ad allontanarsi dalla politica totalizzante che ha caratterizzato la società italiana in quel decennio. E la forza aggregatrice che il “concertone” di Piazza San Giovanni continua ad avere, riflette la costante ricerca da parte del sindacato di linguaggi diversi per parlare ancora del lavoro, della sua dignità e della centralità che continua ad avere nella nostra società, cercando nel suono rock quei connotati “ribelli” che – ricordate quanto si scriveva all’inizio del Novecento? – la festa del Primo Maggio non dovrebbe mai perdere per non smarrire la propria identità.

25 aprile

...dietro ai partigiani italiani, in questo momento, non v’è alcun consolidato e sano ordinamento politico: da un lato, v’è il caos, anarchico e tirannico ad un tempo, della cosiddetta repubblica sociale fascista; dall’altro, v’è una nuova organizzazione, a base popolare e democratica, tuttora in fase rivoluzionaria, che conduce la guerra antitedesca e antifascista, e tende a un radicale rinnovamento del paese. Ora, di questa organizzazione i partigiani non sono solo i mandatari ed esecutori, ma anche parte costitutiva ispiratrice e promotrice (…). Ecco dunque perché dire partigiano senza coscienza politica è, sostanzialmente, una contraddizione in termini.
Naturalmente, coscienza politica non significa appartenenza a un determinato partito: non è necessario cioè, per essere un vero partigiano, militare più o meno formalmente nelle file di un partito progressista. Ma significa invece sapere cosa si vuole, avere un orientamento, ispirarsi a un indirizzo politico: su quella linea di democrazia progressiva, in funzione di quegli ideali di giustizia e di libertà, che stanno alla base della nostra lotta, piaccia o non piaccia a taluno.
Partigianato e politica, "Quelli della montagna", n.3, novembre 1944
e ancora
La vita partigiana si presta alle idealizzazioni romantiche, perché ha i misteri del carbonaro del nostro Risorgimento, l’avventura del fuori legge, la passione del rivoluzionario. Tra cinquant’anni il partigiano (…) sarà trasformato dalla leggenda in un mitico eroe della montagna, cui fu cibo la fede e compagno il moschetto. (…)
Ma io vi dico che questa è retorica! È quella retorica di buon ricordo, per cui il popolo italiano pareva fosse un blocco di granito lanciato alla conquista del mondo, auspice un solenne volo d’aquila; è quella retorica per cui un pugno di uomini ha salvato l’Italia dal disonore, creando una Repubblica che continuerà fino all’ultimo sangue la lotta al fianco del tedesco. Ma noi pensiamo che sia stata una buffonata quella e sia una farsa questa; una farsa tragica (…) perché la farsa si svolge nella guerra fratricida, e in questa avrà il suo terribile epilogo. (…)
La retorica è il conforto dei vecchi o dei deboli, o degli illusi. Ma a noi che siamo giovani e sappiamo benissimo come vanno le cose, a noi coscienti di noi, non ammannite, retorica, perché ci offendete...
Retorica, "Il cacasenno. Quindicinale polemico della II divisione alpina "Giustizia e Libertà", n.3, 15 novembre 1944
Due lunghe citazioni oggi, da due giornali partigiani, casualmente entrambi pubblicati nello stesso periodo.
In queste parole penso che sia ancora racchiuso il perché del 25 aprile, anche oggi, ancora oggi.
Buona festa della Liberazione.

Amerei dimenticare...

Amerei dimenticare aveva scritto qualcuno su un muro di Bologna nel 1977, e accanto aveva disegnato il simbolo della falce e del martello, il simbolo del Pci che per molti, allora,  era anche il simbolo del lavoro.
Di lavoro, mondi operai e sindacato nel 1977 parlerò la prossima settimana in un convegno che si terrà al Senato, il 18 e 19 marzo. Ha per titolo Italia 1977, ambivalenze di una modernità e qui trovate il programma e tutte le informazioni.
Scritta su un muro a Cologno Monzese (1978)
Il mio intervento prende le mosse proprio da quella frase, amerei dimenticare, perché mi è sembrata estremamente simbolica di molte delle caratteristiche del Settantasette. Di alcune, quelle legate al cambiamento dell'idea di lavoro, alle crisi sotterranee del sindacato, allo scontro frontale fra Partito Comunista e movimento giovanile, parlerò nel mio intervento.
C'è qualcosa però che non riuscirò a dire giovedì, e che pure mi si è affacciata alla mente tornando a studiare quell'anno: amerei dimenticare, infatti, è una frase che mi pare rappresenti bene, da un lato, il "rifiuto della storia" da parte del movimento giovanile ("non abbiamo né passato né futuro: la storia ci uccide" era scritto sui muri di Roma) ; e, dall'altro, il "rifiuto del '77" di chi aveva fatto politica fino ad allora (e in particolare, mi sembra, della generazione del '68) e che allora vide chiudersi le residue prospettive di agibilità politica.
Sarà forse anche per l'esistenza di questo doppio rifiuto incrociato che il '77 si è collocato in una strana dimensione della nostra memoria collettiva, letto spesso nelle sue opposte polarità (creatività contro dottrinarismo oppure pacifismo contro terrorismo, per dirne solo due) che ne hanno schiacciato e deformato la complessità. E sarà forse per questo, ancora, che continua a suscitare interesse nelle generazioni più giovani di studiosi, che immagino insoddisfatti da questa narrazione polarizzata.
Allora, forse, è arrivato il momento di andare oltre quella sorta di profezia che si autodetermina che si può leggere proprio in un libro pubblicato nel 1977, poco tempo dopo il marzo bolognese (Bologna 1977... fatti nostri):
non esisterà uno storico, non tollereremo che esista uno storico, che assolvendo una funzione maggiore del linguaggio, offrendo i suoi servizi alla lingua del potere, ricostruisca i fatti, innestandosi sul nostro silenzio, silenzio ininterrotto, interminabile, rabbiosamente estraneo
E, chissà?, speriamo che il convegno della prossima settimana possa essere una buona occasione per iniziare.
In ogni caso, amerei dimenticare, racconta anche della implicita contraddittorietà del '77: che cosa voleva dimenticare quell'anonimo scrivente?
Secondo chi ha riportato la frase, il membro di un gruppo di lavoratori precari intervistato nel 1980 sul significato del Settantasette, essa indicava il rapporto conflittuale con il lavoro che aveva caratterizzato quell'anno.
Ma il fatto che accanto alla scritta fossero stati disegnati falce e martello poteva forse significare la volontà di scordarsi del Pci bolognese, aspramente criticato dal movimento per la gestione della crisi del marzo.
Oppure, ancora, la frase potrebbe essere stata scritta da qualcuno che, firmandosi con falce e martello, e quindi rivendicando la propria identità di partito, avrebbe voluto dimenticare quel duro scontro generazionale che aveva opposto il Pci, non solo bolognese, al movimento giovanile.

Tanti punti di vista, tanti conflitti, nei cui rapporti - in fondo -  c'è ancora tanto da indagare.
Giovedì prossimo, salendo sulle spalle di chi ci ha provato prima di noi, speriamo di cominciare a farlo. 

un paio di prezi

Ormai il corso di storia dei media sta arrivando alle battute conclusive e si comincia davvero a correre. Si corre così velocemente che qualcosa mi sono lasciato qualcosa alle spalle, ed è ora di recuperare.
Allora, ecco qui sotto due prezi (quelle presentazioni animate che avete imparato a conoscere) su alcuni degli argomenti che abbiamo toccato nelle ultime lezioni.
E' ovvio che non sono altro che una traccia, uno schema rapido e sommario per fissare qualche punto e fornire qualche indicazione a chi non c'era.

Si parte da una veloce sintesi sul fascismo



per poi passare ad una corsa attraverso i mass media durante gli anni della seconda guerra mondiale (con un piccolo richiamo a quello che era successo nel mondo mentre in Italia si affermava e consolidava il fascismo)



E infine, per saperne un po' di più su alcune delle cose di cui abbiamo accennato a lezione, vi metto un paio di link su Lord Haw-Haw e sulla storia di Radio Libertà.

Rovistando nell'immensa soffitta di internet

In attesa di pubblicare le presentazioni che ho usato nelle ultime lezioni, vi posto un link a qualcosa che ho scovato rovistando in quell'infinito ripostiglio di cose dismesse in cui si trasforma qualche volta internet.
E' una lezione online sulla radio e la storia realizzata dal gruppo di Formazione Aperta in Rete dell'Università di Torino.
L'avevo visto molti anni fa e allora mi era sembrato assolutamente all'avanguardia. Oggi, certo, risente del tempo trascorso (il browser che uso io, ad esempio, lo visualizza male), eppure è ancora utile, uno strumento ben fatto e intelligente.
Ci troverete cose interessanti, che in parte integrano ciò che si è detto a lezione sulla radio durante la seconda guerra mondiale.
E poi, in un certo senso, è un piccolo pezzo di storia della rete e della formazione in rete, che ci dà molte informazioni su come pensavamo dovesse essere un sito educativo, anche solo pochi anni fa.
Buona lettura

Seconda settimana (corso di storia dei media)

Ed anche la seconda settimana del corso è passata. Ed io ho già il fiato un po' corto.
La parte iniziale, infatti, mi ha preso più tempo del previsto ma credo di aver posto delle basi abbastanza solide che ci consentiranno di proseguire più rapidamente nelle prossime settimane.
Certo, fra tesi e vacanze pasquali, andremo un po' a singhiozzo ma sono ragionevolmente certo che prima dell'interruzione riusciremo ad arrivare alla seconda guerra mondiale e avremo poi il tempo di dedicarci con più calma al secondo dopoguerra.
Qui sotto trovate un nuovo prezi, una presentazione animata e (novità) sonorizzata: abbiate la pazienza, quando ci arrivate, di fermarvi a sentire i frammenti audio, un gradevole intermezzo - certo - ma anche un piccolo promemoria per alcuni dei processi che vengono raccontati nelle slides.



Come sempre, lo spazio dei commenti qui sotto è tutto per voi: approfittatene.

Note integrative: dal muto al sonoro

Se questo posto deve ricominciare ad essere un luogo di discussione con i miei studenti, una sorta di prosecuzione del dialogo che si intesse a lezione fra noi, allora ecco una buona occasione.

(l'avrai già capito: questo post è rivolto ai miei studenti, ma se sei capitato da queste parti per caso, o se sei uno di quei quindici coraggiosi che mi seguono regolarmente e ti va di leggerlo, vai pure avanti. A me fa piacere. Magari lo farà anche a te) 

In questi giorni a lezione ci stiamo occupando del sistema dei media tra gli anni Dieci e gli anni Trenta. Naturalmente, uno dei temi centrali è il passaggio da un ambiente mediatico muto ad uno sempre più ricco di suoni. Ed è chiaro che, oltre alla radio e alla sua capacità di "organizzare il mondo per l'orecchio", uno degli argomenti di cui discutiamo è il cinema.
Il caso vuole che io abbia a disposizione un bel film di un paio di anni fa a farmi da supporto didattico, The artist di Michel Hazanavicius, vincitore di un elenco lunghissimo di premi fra cui cinque oscar (se proprio volete vedere nominatios e vittorie, basta che facciate un salto qui). 
La visione del film è naturalmente consigliata a tutti (e non solo a quelli che ci devono scrivere su un paper), così come è consigliato dare un'occhiata a questa recensione muta, realizzata dai critici del New Yorker nel  febbraio 2012.


Sono d'accordo? 
Non sono d'accordo? 
Importa poco in realtà, perché questa critica è così ricca di sottotesti da essere un modello di recensione contemporanea.
E, soprattutto, è un notevole spunto di discussione, che coglie in profondità tutta la complessità di un film apparentemente semplice e leggero come The Artist.
Se volete, continuiamo a parlarne nei commenti.

Ritorno alle origini

Quando ho aperto questo blog avevo un solo obiettivo: continuare a tenere aperto un canale di comunicazione con gli studenti che seguivano il mio corso anche oltre le ore di lezione. Poi le cose hanno preso la loro direzione, che non è sempre stata coincidente con il progetto iniziale.
In modo altalenante, però, queste pagine hanno continuato a riflettere l'idea da cui tutto era partito. E' un ritorno ciclico, come le generazioni di studenti e i corsi universitari.
E così eccoci di nuovo alla prima settimana di un nuovo corso. E a sperimentare ancora una volta la funzionalità di questo canale.

Nella nuova pagina che trovate in alto, storia dei media 2012-2013, ci sono il programma d'esame e quello delle lezioni.
Qui sotto, invece, ci sono la presentazione del corso e la lezione introduttiva, un percorso che, attraverso invenzioni tecnologiche e rivoluzioni sociali, porta alla nascita del sistema dei mass media.





Nelle prossime settimane posterò le altre presentazioni, e tutto il materiale, le riflessioni, le integrazioni che potranno essere utili per gli studenti e - magari - incuriosire gli altri lettori casuali di queste pagine.
La pagina dei commenti è lì per voi: non fate i timidi.

Levando un po' di macerie: due chiacchiere con Fabrizio Russo

Harlan Draka in un disegno di Fabrizio Russo
Dopo aver sentito ieri Diego Cajelli, è la volta di Fabrizio Russo, disegnatore della storia di Dampyr ambientata a L'Aquila e in edicola questo mese.
Come sanno i pochi che mi leggono, altre volte mi è capitato di occuparmi della responsabilità intrinseca nel disegnare le macerie
(come? non ve lo ricordate...? fate un salto qui e poi tornate)
Ne ho parlato un po' anche con Fabrizio, che ringrazio molto della disponibilità, non solo per la breve chiacchierata ma anche per i disegni che mi ha prestato per questa pagina.

Ma prima di tutto ve lo presento:

nato nel 1970, milanese, ha studiato al liceo artistico e si è specializzato in illustrazione alla Scuola Superiore d'Arte del Castello Sforzesco (e mi sembra che questa sua impostazione traspaia dalla cura del dettaglio e dal realismo quasi fotografico). Studia poi alla Scuola del Fumetto con Enea Riboldi (copertinista di Dampyr) e dal 1994 inizia a lavorare per la Bonelli.

Ed eccoci alle domande:

Ciao Fabrizio. Mi sembra che tu abbia uno stile realista classico, molto bonelliano se vuoi, in cui è evidente il grande lavoro con i riferimenti fotografici. So che ne hai avuti molti a disposizione per questa storia: hai usato solo quelli oppure sei andato a vedere la città?

Come giustamente hai notato, su Dampyr il realismo e la ricerca del dettaglio quasi maniacale è molto presente: normalmente in tutte le storie si cerca la maggior fedeltà alla realtà e nel nostro caso questo obbiettivo è stato ricercato ancor piu scupolosamente. Purtroppo non mi è stato possibile fare un sopraluogo fisico delle zone, cosa che invece ha fatto Mauro Boselli, cocreatore di Dampyr, che ha fornito una documentazione vastissima sia di foto che di video che mi è stata utilissima. Il tutto è stato ulteriormente integrato da una mia ricerca e di Diego Cajelli su google.

tavola di Fabrizio Russo, parzialmente chinata
Mi sembra di aver notato una grande attenzione nel cercare di restituire attraverso il segno l'atmosfera che si respira a L'Aquila, e, allo stesso tempo, un certo "rispetto" per la città, che mi sembra si sia espresso soprattutto nel non voler calcare più del necessario sugli elementi di distruzione. Si trattava solamente di un'esigenza di sceneggiatura, oppure hai scelto tu di dare questa impostazione grafica e narrativa? E che tipo di libertà hai avuto nello scegliere scorci e ambientazioni?

In realtà abbiamo cercato di essere il piu attendibile possibile nella ricostruzione delle ambientazioni: faccio un esempio, inizialmente in molte scene (tipo l'aggressione dei cani al lupo azzurro superstite) avevo disegnato moltissime macerie per la strada per dare piu drammaticità alla situazione. Quando poi Boselli ha avuto modo di visitare la città e ha rilevato che non erano piu presenti le macerie, ho provveduto a correggere tutte le vignette allo scopo di essere il piu verosimile possibile.
Sulla liberà, in genere se qualcosa non è indicato in sceneggiatura il disegnatore è abbastanza libero di scegliere gli scorci che preferisce, cosa che ho fatto anche in questa storia.

tavola a mezzi toni di Fabrizio Russo

tavola di Fabrizio Russo
Rimango sempre sullo stesso punto: nonostante ciò che ti ho detto prima, nelle scene ambientate nel centro mi sembra di aver notato una certa "rigidità" nel segno rispetto ad altre sequenze, come se la necessità di mostrare scorci reali (e una situazione così delicata) ti avesse un po' intimidito. Quando ti è stato proposto di affrontare una storia con questo tipo di ambientazione, quali sono state le tue reazioni? E con quali sentimenti ti sei avvicinato alla rappresentazione di una città le cui ferite sono ancora fresche?
Quando mi è stata proposta questa storia ovviamente ne sono stato onorato, innanzitutto perchè Boselli ha scelto me ed è un attestato di stima da parte sua visto le difficoltà alle quali si andava incontro; inoltre adoro lavorare con Diego Cajelli, che non solo stimo tantissimo come professionista ma è anche un caro amico. E in ultimo, ma piu importante, condividevo appieno l'idea alla base: gli aquilani ma come tutte le popolazioni terremotate, nel momento del disastro vengono sempre rassicurate dalle istituzioni che non saranno abbandonate, COSA CHE INVECE CAPITA PUNTUALMENTE OGNI VOLTA!

 
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