Dal libro al film e ritorno: Acciaio (quasi una recensione)


In questi giorni drammatici per Taranto, mentre la questione dell'Ilva è tornata ad occupare le prime pagine dei giornali (dalle quali non avrebbe mai dovuto andar via), anche gli schermi cinematografici raccontano una storia legata in qualche modo alle acciaierie. E' infatti nelle sale cinematografiche il film di Stefano Mordini intitolato "Acciaio", tratto dall'omonimo romanzo di Silvia Avallone e presentato all'ultima mostra del cinema di Venezia nelle giornate degli autori.



E' una pura casualità, ovviamente. E, contrariamente a quanto potreste pensare vedendo il trailer, questo film non vi dirà nulla sul duro mondo delle acciaierie e degli uomini e delle donne che vi lavorano. Le acciaierie - la Lucchini di Piombino, e non l'Ilva di Taranto - sono solo lo sfondo della storia, un luogo come un altro per raccontare una vicenda di ingresso nell'età adulta.
Vi avviso subito: se aveste voglia di leggere qualcosa di positivo sul film vi conviene seguire i link e dare un'occhiata alle recensioni di Roberto Nepoti (la Repubblica)  o Alessandra Levantesi Kezich (La Stampa) .
Io, mi spiace per le buone intenzioni del regista, peraltro bravo nella messa in scena e nel fotografare lo stridente contrasto fra acqua e fuoco che avvicina Piombino a Taranto, non vi parlerò bene di questo film. Che ho apprezzato meno di quanto non abbia fatto con il libro, che - come sapete  - già avevo amato poco.
Di norma, poi, credo che film e libri non vadano messi a confronto: troppo diversi i linguaggi, i formati, gli stili narrativi per poter essere paragonati. Però, in questo caso, il parallelo fa parte della critica al film, e quindi  chi volesse proseguire nella lettura se lo dovrà subire.

Diciamolo subito: sia il libro che il film non raccontano storie di fabbrica. Raccontano la storia di due adolescenti che sbocciano all'età adulta in un mondo sul quale le fabbriche incombono e del quale sembrano costituire l'unico orizzonte, fisico ed esistenziale.
E però, nel libro della Avallone questo mondo duro e rugginoso, di rumore e calore, era in qualche modo delineato: la sua scrittura riusciva in qualche misura a farci entrare in quell'universo aspro, a farci percepire quanto l'acciaio costruito dagli uomini finisse in qualche modo per divorare le loro vite. Nella sua descrizione non mancavano certo eccessi e ridondanze,anzi: il suo è un "luna park arrugginito" in cui gli operai sembrano quasi il grado zero dell'umanità, abbrutiti dalla fatica, preoccupati solo del presente e alla ricerca di un effimero benessere materiale, quasi ad anestetizzare la consapevolezza dell'assenza di futuro. E' un mondo un po' troppo letterario forse (basta confrontarlo con quello reale della acciaierie di Terni, raccontato con partecipazione e consapevolezza da Sandro Portelli), che però le consente di descrivere il contrasto con l'arrogante forza della giovinezza delle due protagoniste. E ha il pregio di descrivere la fine di un certo immaginario sul mondo delle fabbriche, lontane ormai anni luce da quelle dove i lavoratori finivano per acquisire una "consapevolezza di classe".
Questo pregio, invece, manca al film di Mordini, dove, se non proprio una consapevolezza di classe, sembra ad un certo punto emergere una sorta di "dignità operaia": quasi a riscattare uno dei personaggio da quell'orizzonte chiuso, da quel futuro che non può vedere, velato com'è dal fumo degli altoforni.
E del resto, se il mondo del libro era abbrutito, almeno era attraversato da una forza primordiale che si incarnava nel continuo vociare, in una vita brulicante che accompagna le protagoniste nelle loro lunghe giornate di adolescenti. Mordini, invece, sostituisce a questa vivacità lunghi silenzi e spazi vuoti, dialoghi spezzettati e incompiuti.
Chissà, magari è stata una scelta dettata solo dalla mancanza di risorse: e tuttavia è una scelta che depotenzia il racconto e che gli leva quella capacità, che il libro aveva, di dare ad una vicenda personale il sembiante di un afflato collettivo.
Così, sebbene con questo film gli operai  siano tornati sugli schermi, essi non sembrano più essere in grado di farci entrare nel loro mondo. Mi sembra simbolica la curiosa scelta del regista di accompagnare il climax emotivo del suo racconto (di cui è meglio non dire, se qualcuno volesse vedere il film) con una serie di immagini d'archivio, peraltro bellissime, quasi come se volesse chiudere un cerchio, segnalando però allo stesso tempo l'impossibilità di raccontare il presente del lavoro industriale (o forse la sua fine?).

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