Stesera Enrico Mentana propone un "film evento" su La7, trasmettendo il film che nel 2010 il ministro della cultura Bondi aveva bollato come "propaganda", rifiutando di assistere alla proiezione durante il festival di Cannes. E garantendogli così un altro po' di pubblicità gratuita: quella che, con un'espressione difficile che un ministro della Cultura dovrebbe apprezzare, si potrebbe chiamare eterogenesi dei fini.
Il film l'ho visto una sera a Roma, in una sala quasi vuota. E per una volta ho apprezzato un'abitudine che in genere detesto: il vizio di commentare ad alta voce il film durante la sua proiezione. Nelle parole delle poche persone con cui dividevo la visione sentivo lo stupore e la crescente indignazione per quello che vedevano. E che era molto, molto diverso da quello che gli aveva fino a quel momento raccontato la televisione (ma non tutta la televisione, bisogna riconoscere). Erano cose che, per una serie fortuita di casi (e magari anche perché ho il vizio di approfondire, o almeno provarci), già conoscevo: e che mi avevano fatto già fremere di indignazione. Cose che, quando le raccontavo, venivano accolte da espressioni stupite e incredule.
Questo è il grande merito del film, che ha anche alcuni - e forse non pochi - difetti. Pregi e difetti che, se non lo avete ancora visto, potrete giudicare da soli.
Mi è capitato poi di scriverne per Meridiana in un articolo che s'intitolava Macerie d'Italia.
Magari vi va di leggerne qualche passaggio:
(...) Va detto subito: Draquila è un documentario a tesi, e forse questo è l’aspetto più caduco del film, più ancora dell’essere un istant movie, girato e montato a ridosso degli eventi e quindi inevitabilmente condizionato dalle notizie di cronaca che venivano pubblicate nel periodo in cui era in realizzazione. La tesi è semplice: il terremoto dell’Aquila e la gestione dei mesi immediatamente successivi hanno costituito la prova generale per un’attività di governo che, in nome dell’emergenza e della sicurezza, ha sospeso i diritti arrivando, in pratica, ad esercitare una forma di autoritarismo “morbido”.
(...)
Sono tesi che espresse in questa forma possono apparire forse eccessivamente semplificatrici ma sulle quali negli anni recenti e sotto la spinta dell’“emergenza” terrorismo si è molto riflettuto in ambito politologico e storico. Del resto – come dimostrano i saggi contenuti in un libro curato da Francesco Benigno e da Luca Scuccimarra, dedicato alcuni anni fa proprio a Il governo dell’emergenza (Viella, 2007) – la logica dell’emergenza è stata chiamata in causa nelle situazioni storiche più diverse per legittimare una radicale trasformazione delle pratiche di governo che ha comportato spesso la sospensione dei diritti civili. Nell’attuale situazione italiana poi, è stato notato, la politica dell’emergenza assume una dimensione del tutto peculiare perché si unisce alla politica-spettacolo, ad una “politica-pop” che «si inscena meglio su rovine fumanti e montagne di spazzatura, tra frane, lacrime e sangue. In questi set si esalta la virtù salvifica del governante che incoraggia, protegge, tranquillizza e lenisce perfino il dolore. Chi governa diventa lo zio buono che ti dà una mano. Così nell’emergenza viene incrociato il paternalismo di tendenza populista e il potere tecnocratico, il carisma massmediatico con il decisionismo» (Carlo Donolo, Il cratere della politica, “Lo straniero”, n. 118, aprile 2010) fino a scavalcare la logica della rappresentanza. Di più: lungo questi percorsi L’Aquila finisce per diventare suo malgrado l’icona di una “politica-pop” che trova la sua massima espressione nel trasferimento del G8 dalla Maddalena – dove era inizialmente previsto – al capoluogo abruzzese, una forma della politica tutta giocata sulla rappresentazione e sul presente, su un “qui ed ora” che assorbe anche la ricostruzione con l’idea delle “new town” che inizia a circolare nei giorni immediatamente successivi al sisma e che, come ben testimonia il film, era già stata applicata in occasione di altre catastrofi naturali. Tutta giocata sul presente, una tale azione politica ignora senza remore il passato: colpisce così sentire l’ex-direttore del servizio sismico nazionale, Roberto De Marco, che nel film ricorda come il terremoto sia stato preceduto da uno sciame sismico di ben quattro mesi, in modo simile a quanto era avvenuto in occasione degli altri terremoti da cui L’Aquila era stata colpita nel corso della sua storia. Concentrata solo su un eterno presente la politica - ma anche la cultura com’è stato notato - finiscono per smarrire anche la capacità di pensare al futuro: le attuali difficoltà legate alla ricostruzione – una ricostruzione che, al di là delle C.A.S.E., non sembra ancora essere iniziata – sono forse figlie anche di questa incapacità di progettazione, oltre che di evidenti difficoltà economiche legate al ciclo attuale.
(...)alla fine, muovendosi in un difficile equilibrio fra grottesco e patetico, fra satira ed informazione, Draquila riesce a dare molte notizie su aspetti meno noti dei processi avviati dal terremoto aquilano e, allo stesso tempo, a tracciare un ritratto impietoso dello stato attuale del nostro paese. Viene da sorridere quando, in una sequenza del film, una signora, grata per i soccorsi ricevuti, identifica lo Stato con il premier: vorrebbe abbracciarlo perché, dice convinta, «lo Stato è Berlusconi», salvo poi aggiungere, di fronte all’espressione perplessa della sua interlocutrice, «o no?». Viene da sorridere, appunto, ma è un sorriso amaro che nasconde l’imbarazzo per il livello di incultura politica diffusa in un paese dove il 23,3% della popolazione non si informa mai di politica e il 60,7% se ne occupa solo una volta alla settimana, secondo quanto sostiene il rapporto Istat del 2009 sulla partecipazione politica. In un simile quadro, certo, il film può risultare fazioso e, come già detto, forse l’aspetto meno convincente è proprio quello legato alla recente cronaca politico-scandalistica; e tuttavia questa faziosità ha il pregio di essere dichiarata, un po’ come nei documentari di Michel Moore al quale, non a caso, molta stampa si è richiamata per descrivere il film di Sabina Guzzanti: ma, contrariamente al regista americano, l’autrice italiana è abile nel defilarsi dalla scena quando mostra la realtà aquilana, per poi riaffacciarvisi quando racconta lo spettacolo della nostra politica-pop, innescando in questo modo un corto circuito che stimola più di una riflessione sui nostri anni recenti.
(qui, sul sito della Viella, la casa editrice, se volete, potete acquistare l'intero articolo in .pdf)
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