E' stata una bella occasione per discutere di lavoro, precarietà, identità, ma non è stata certo una presentazione - come dire? - ordinaria.
"Ragazzi, è stata una bella cosa. Non so esattamente cosa, ma è stata bella", ci hanno detto dal pubblico alla fine.
In effetti, assenze e presenze impreviste hanno finito per stravolgere il classico modulo della presentazione dei libri:
il moderatore introduce
parla il primo relatore
parla il secondo
"ci sono interventi dal pubblico?"
silenzio
"allora grazie a tutti".
E alla fine abbiamo fatto pure un piccolo aperitivo con il pubblico, in cui la discussione è continuata a piccoli gruppi, mischiandosi con le chiacchiere sull'attualità politica.
Naturalmente, non ho potuto usare il testo che avevo preparato. E allora lo metto qui sotto, quasi come se fosse una recensione.
Chi fosse interessato, può continuare dopo il salto.
Chi invece vuole leggersi il libro può seguire il link, perché la casa editrice lo ha pubblicato in forma digitale e gratuita.
Sono particolarmente lieto di essere qui oggi per parlare di
questo libro insieme a buona parte delle sue autrici innanzitutto perché è un
libro sul lavoro, ed è quanto mai opportuno tornare a parlare di lavoro oggi,
in una fase storica in cui questo tema sembra essere scomparso dal discorso
pubblico se non nella sua forma de-materializzata. Voglio dire che se ne parla
sempre in termini di statistiche, di indicatori economici, di progetti
legislativi (quando va bene), oppure di strategie imprenditoriali, trascurando
– per così dire – il “lato umano”, che poi è quello che dovrebbe interessarci
di più. È come se, di fronte ad un
lavoro sempre più de-territorializzato e smaterializzato si fossero
de-territorializzati e smaterializzati i discorsi che lo riguardano, con il
paradosso che di lavoro si finisce per parlare sempre quando esso non c’è o
rischia di scomparire.
Per inciso, ciò finisce, a sua volta, per condurre ad un
altro paradosso: che oggi le rappresentazioni pubbliche del lavoro somigliano terribilmente
a quelle del passato. Per esempio, quando è scoppiato il caso dell’Electrolux
(o meglio, quando se n’è accorta la stampa nazionale) su un quotidiano ho letto
un reportage molto bello sulla
situazione dei lavoratori dello stabilimento di Porcìa: il giornalista era
tornato davanti ai cancelli di una fabbrica e raccontava quello che aveva
visto, ridava la parola alle operaie e agli operai , come da tempo non vedevo
fare. Ma quello che ho letto era come l’eco di qualcosa che avevo già sentito
prima: infatti mi ha fatto tornare alla mente gli articoli degli anni della
“contingenza” del 1964 quando l’immagine pubblica degli operai, sulle cui
spalle avevano poggiato il miracolo economico, era di nuovo quella dei
“poveri”; oppure i resoconti della fine degli anni Settanta quando, di fronte
alla crisi economica e ai licenziamenti, gli operai tornavano a recitare sulle
pagine dei quotidiani e dei periodici la parte dei “poveri”.
Ciò che si perde in queste rappresentazioni – su cui ci
sarebbe da dire ma che inevitabilmente ci porterebbe lontano dal libro – è il
senso del lavoro, che viene ridotto ad un puro fattore economico. Quando invece
il lavoro è molto più di questo: è rete di relazioni; è conoscenza e
trasmissione della conoscenza; è, in una parola, identità, come questo volume ci mostra molto bene, pur descrivendo
situazioni molto differenti tra loro, per localizzazione geografica, per
tipologia di lavoro, per ambiente, per identità di genere. È come se i saggi contenuti in questo volume, insomma, riuscissero a
dare “corpo” a quel lavoro che oggi si dice smaterializzato e
de-territorializzato.
In secondo luogo, come rileva anche Stefano Musso
nell’introduzione, il libro sembra confermarci che c’è ancora un interesse per
lo studio del lavoro: anzi, questo interesse sembra essere crescente – dopo una
fase in cui questo tipo di ricerche sembrava essere diventato estremamente
residuale – e, soprattutto, esso coinvolge le generazioni di studiosi più
giovani. In realtà, i segnali di una ripresa delle ricerche sul lavoro non sono
moltissimi, anche se sono significativi: un paio d’anni fa, ad esempio, è nata
la Sislav (Società Italiana di Storia del Lavoro); e, se pure qualcuno si è chiesto se fosse proprio
necessaria una ulteriore associazione di categoria degli storici, tuttavia essa
mostra comunque l’esistenza di reti di ricerca spesso sganciate dalle
istituzioni come sindacati ecc. e, mi pare che sia l’elemento di maggiore
interesse, potrebbe dare impulso alla formazione di nuove reti tra studiosi. E,
sempre un paio d’anni fa, è iniziato il seminario annuale intitolato “Ascoltare
il lavoro”, dalla cui edizione 2012 questo libro è nato.
Certo, se i segnali di interesse per le ricerche sul lavoro
esistono, c’è anche da dire che non mi sembra (da quello che posso vedere dal
mio punto di osservazione, che è abbastanza defilato) che esse siano “nutrite”
e “sostenute” né da un dibattito pubblico (al quale accennavo prima) né,
soprattutto, sul piano scientifico e culturale. Del resto, i ricercatori che
hanno prodotto questi saggi sono tutti giovani e “precari”, argomento ben
illustrato nelle sue molteplici implicazioni da Gilda Zazzara
nell’introduzione: mi sembra che queste due loro caratteristiche echeggino, si
riflettano, sia nelle metodologie di ricerca, sia – soprattutto – nelle
“domande” che essi fanno alle loro fonti. E così, pur nella loro diversità,
tutti i saggi sembrano essere accomunati da alcuni temi di fondo.
Uno, ad esempio, è proprio l’idea della “precarietà”, il
confronto con un lavoro non stabile e incerto, e il modo in cui esso si
riflette sulla costruzione dell’identità del lavoratore.
Il primo dei cinque saggi, in questo senso, è quasi
“programmatico”: si tratta del lavoro di Eloisa Betti intitolato Precarietà e fordismo. Le lavoratrici
dell’industria bolognese tra anni cinquanta e sessanta che analizza un caso
specifico (sia per collocazione geografica e sociale, sia per la prospettiva di
genere) per mostrare come la “precarietà” del lavoro non sia un fenomeno
recente (e quindi collocato in un quadro economico e ideologico neoliberista)
né intrinsecamente legato al sistema di produzione postfordista. Ma anche negli
altri saggi l’attenzione al tema è marcata: la “precarietà”, ad esempio,
finisce per costituire quasi una “caratteristica” del lavoro dei pescatori di
Torre del Greco studiati da Maria Porzio, oppure dei molti mestieri del
proletariato romano, la cui identità operaia è delineata da Stefania Ficacci in
un saggio di lungo periodo, su cui tornerò.
Vorrei soffermarmi un momento su un aspetto che emerge dal
lavoro di Betti e che mi sembra apra ad una riflessione di più ampio profilo:
scrive l’autrice che, nonostante la precarietà sia stata una costante
dell’organizzazione del lavoro sin dall’inizio dell’età industriale, perché esso
è sempre stato strutturato «in funzione degli andamenti del mercato» (p. 18),
ancora negli anni Cinquanta e Sessanta «l’espressione “precarietà del lavoro”
(…) non era (…) stata oggetto di una vera e propria concettualizzazione e
quindi era ancora scarsamente utilizzata». D’altronde, aggiunge «non vi era
ancora una definita concezione di stabilità lavorativa in opposizione alla
quale elaborare quella di precarietà»: solo con le conquiste del ciclo di lotte
1968-1973, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, con la
crescita dell’occupazione industriale e il suo diventare la prima forma di
impiego, si arrivò a definire il lavoro stabile come «patrimonio comune» che
«iniziò a tutti gli effetti a connotare la condizione di lavoratori e
lavoratrici industriali» (p. 21).
Da un lato, dunque, la precarietà non è argomento di
discussione pubblica (salvo che in ambiti ben definiti, all’interno del
sindacato o del Pci, per esempio) perché mancano “le parole per dirlo”;
dall’altro però sembra che sia la stessa situazione socio-economica a farle
mancare, addirittura a non rendere necessario il cercarle. Il caso delle donne,
poi, è particolarmente significativo in questo senso perché, come scrive ancora
l’autrice, «il lavoro femminile era (…) generalmente considerato instabile da
imprenditori, politici ed economisti, a causa di un presunto atteggiamento
delle donne, che si supponeva dessero la priorità ai compiti familiari rispetto
al lavoro» (p. 21).
E tuttavia credo che, in aggiunta a questi argomenti, si
possa sostenere anche che fossero le particolari condizioni del mercato del
lavoro e non rendere necessaria la ricerca di quelle parole adatte a definire
una pluriattività lavorativa che oscillava fra il lavoro agricolo e quello
industriale (negli anni cinquanta e sessanta, non a caso, si usava il termine
“metalmezzadri” per indicare queste particolari figure), oppure, come nel caso
della città di Roma, fra molti mestieri. Non è un caso, allora, che la parola
“precarietà” arrivi nel momento in cui si spezza l’equilibrio tra una forte
domanda di lavoro (anche e soprattutto dequalificato) e un’altrettanto
consistente offerta di braccia, che sembrano entrambe rientrare nel quadro di
un progresso lineare e apparentemente inarrestabile: negli anni Settanta la
sociologia introduce categorie come quella di lavoratori marginali (Betti, p.
42), e nell’opinione pubblica si diffonde l’idea di una precarietà del lavoro
che diventa anche precarietà esistenziale. Insomma, ho l’impressione che la
precarietà inizi a diventare un problema quando il lavoro stesso inizia a
diventare un problema, perché sempre più raro: condizione che, peraltro, finiva
per irrigidire le posizioni nelle grandi fabbriche e nell’aprire la strada alla
piccola e media impresa che si scopriva allora caratterizzare quella che si
iniziava a chiamare la “terza Italia”.
E tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che quando il
termine “precarietà” si fa strada nel dibattito pubblico – e penso in
particolare alla fine degli anni Settanta – esso assume anche un senso
positivo: e non solo in coloro che predicavano un ideologico “rifiuto del
lavoro” nel ’77 e dintorni, ma anche in chi, di fronte alla crisi della
produzione industriale, abbandonava il lavoro in fabbrica per “mettersi in
proprio”. A questo proposito, mi viene in mente una biografia operaia
romanzata, il libro di Alberto Papuzzi intitolato Quando torni. Una vita operaia (Donzelli, 2007). Il protagonista è
Vittorio Sparàti, operaio e sindacalista che all’inizio degli anni 80 abbandona
la fabbrica sia perché intravede in un altro lavoro la possibilità di “fare i
soldi” ma soprattutto perché, per usare le sue stesse parole, «io sto vivendo
la cosiddetta decadenza produttiva della fabbrica. Non è la produttività che
conta, bensì il giro commerciale. Per cui, che spazio resta al lavoro operaio?
(…) Non è più il mio mondo, se mai lo è stato» perché «dopo quasi vent’anni che
faccio l’operaio, che mi vesto da operaio, io non sono quello lì (…) io mi
sento un estraneo» [Papuzzi, pp. 28-29 e p. 19].
Si trattava, insomma, di una questione di identità: se in
quegli anni finiva l’equivalenza fra identità personale e identità professionale,
che aveva fatto sì che la prima si formasse in gran parte sulla seconda, la
“precarietà” lavorativa poteva addirittura finire per essere vista come una
risorsa dal punto di vista identitario.
Identità, allora. Non mi sembra un caso che questo sia un
altro dei temi che si costituiscono un minimo comune denominatore fra i diversi
articoli: ho l’impressione infatti che l’attenzione a questo tema sia in
qualche misura il riflesso della difficoltà che si sperimenta oggi nel definire
sia un’identità legata al lavoro, sia l’identità del lavoro stesso.
Da questo punto di vista mi sembra che il saggio di Stefania
Ficacci (Tra mestiere e quartiere. La
classe operaia romana alla ricerca di un’identità) sia quello più ricco di
suggestioni perché, pur analizzando il caso molto particolare di Roma (dove si
cerca di limitare la presenza operaia sin dagli anni immediatamente
post-unitari, e dove quindi è particolarmente complesso dire che cosa sia “lavoro
operaio”), ci insegna la complessità e la multifattorialità nella definizione
di identità operaia, e – più in generale – dei lavoratori. Nel caso specifico –
ma su questo magari la chiamerei ad intervenire – le identità operaie, in una
città che tradizionalmente si vuole senza operai, si formano in forte relazione
con l’ambiente, e in particolare con i quartieri.
Se accogliamo questa chiave di lettura, tuttavia,
suggestioni simili si trovano anche in altri saggi come ad esempio quello di
Silvia Segalla, storia di vita di una rammendatrice vicentina (Maria. Una rammendatrice al Lanerossi di
Piovene Rocchette). E – direi – che, in generale, è uno dei molti
insegnamenti che ci viene dall’uso delle fonti orali nelle ricerche sul lavoro:
a me vengono in mente i lavori di Portelli su Terni, ma anche quelli di
Passerini e Filippa su Mirafiori che ci hanno mostrato l’esistenza, già negli
anni Sessanta (ma anche prima), di identità multiple dei lavoratori di
fabbrica, identità che contrastavano con la loro rappresentazione pubblica che
li voleva blocco monolitico e uniforme.
Del resto, in questo libro i lavoratori di fabbrica ci sono
poco e, soprattutto, non ci sono quelli che a lungo hanno rappresentato
nell’immaginario collettivo gli operai per antonomasia, coloro che lavoravano
nelle fabbriche ad alto tasso di meccanizzazione e con un’organizzazione di
tipo fordista. Di più: quando il lavoro fordista compare nelle storie
raccontate nel libro, esso introduce soprattutto elementi di criticità. In
particolare ci sono due dei cinque saggi che compongono il libro in cui si racconta
il passaggio da un lavoro qualificato e con forti tratti di artigianalità ad un lavoro di tipo fordista: quello di
Stefano Gallo (“Brave mestole”, “mezze
mestole” e manovali), in cui si racconta la storia dell’edilizia a Livorno
nel secondo dopoguerra attraverso lo sguardo di Giovanni Farneti, una “brava
mestola”, ovvero un muratore dalle alte capacità professionali, che nel 1972
lascia il proprio mestiere per entrare alla Pirelli. E quello, che ho già
citato, di Silva Segalla, la cui protagonista,
Maria, ad un certo punto della propria vita lavorativa passa dallo
stabilimento Numero Uno della Lanerossi, più simile al laboratorio artigianale
in cui era impiegata prima di entrare in fabbrica, allo stabilimento Numero
Tre, dove si applicano procedimenti meccanizzati.
In entrambi i casi, benché questo cambiamento segni una
svolta nella loro vita lavorativa, nel loro racconto viene liquidato in poche
battute perché rappresenta un adeguamento a qualcosa che non viene sentito
propriamente come un “lavoro”nel senso pieno del termine: non ha, cioè, quelle
caratteristiche di applicazione di intelligenza, manualità, conoscenza che
rendevano i loro lavori generatori di identità.
Così, Stefano Gallo usa le parole della moglie del suo
testimone per spiegare quanto il passaggio da “brava mestola” a operaio di
fabbrica sia stato un passaggio necessario (per ragioni economiche e di
stabilità) ma doloroso:
"Lei fu contenta del passaggio di suo marito alla Pirelli?". La risposta ricevuta è stata indicativa: "Sì, da una parte, però dall'altra no, perché ha voluto dire non andare avanti con la sua cosa da muratore, e si è dovuto specializzare come operaio"
E Silvia Segalla sottolinea come l’importanza del lavoro di
rammendo veniva sottolineata mettendola a confronto con la semplicità
dell’attività meccanizzata. Nelle parole di Maria
"Il rammendo era veramente un lavoro, perché quello quando lo hai imparato... Invece al Tre sì, impari, però è una cosa più manuale. Anche mio nipote che ha 11 anni quando ha imparato un po' come avviare la macchina... fa presto anche a caricarla, sono cose facili".
Addirittura, quando Maria viene
trasferita allo stabilimento Numero 1, il suo racconto si fonda tutto su coppie
oppositive in cui «la soddisfazione è sostituita dalla frustrazione; all’ilare
familiarità del reparto di rammendo si oppone un astio diffuso; all’agio di
star sedute lo stress di stare sempre in piedi; al silenzio rotto solo da voci
e risate il frastuono delle macchine; alla soddisfazione e al piacere la
stanchezza e il logoramento; alla pulizia e agli abiti “da festa” il pantano
oleoso degli ingranaggi, che imbratta i vestiti e l’umore» [pp. 66-67].
Insomma, siamo quasi di fronte ad uno slittamento da un
“mestiere” – costruttore di identità e connotato positivamente perché capace di
arricchire sul piano individuale oltre che professionale – ad un “lavoro”, neutro
dal punto di vista della connotazione identitaria ed accettato principalmente
per motivazioni economiche. Si tratta di
un passaggio centrale, che occhieggia in molti dei saggi e che,
cronologicamente, sembra potersi collocare fra anni Sessanta e Settanta, quasi sovrapponendosi
con una cesura nella storia del paese tra una sorta di “età dell’oro” e una
“età della crisi”. Se questo, come credo, è il punto di vista delle fonti che
tendono a sovrapporre la loro soggettività alle vicende del proprio lavoro (per
quanto le coincidenze tra le due esistano, come mostra bene il saggio di
Gallo), mi chiedo se sia lecito rispecchiarvi anche una sorta di lettura generazionale. Mi sono domandato,
cioè, se non vi si possa rintracciare, per quanto sottinteso (e forse
addirittura inconsapevole), anche il punto di vista di una generazione che
l’opinione comune vuole senza lavoro (e, ancora di più, senza mestiere) e
dall’identità liquida (per usare un termine abusato).
E se così fosse, terminando di leggere il libro, è nato in
me il desiderio – direi quasi il bisogno – di leggerne uno che non è stato
ancora scritto, credo, e che indaghi, con gli stessi strumenti e la stessa
capacità analitica, la cultura del lavoro di questa generazione che oggi indaga
le culture del lavoro del passato.
Ma, a parte i miei desideri personali, vorrei notare – e con
questo concludere – che una tale attenzione a lavori “altri” è un ulteriore
elemento di interesse, così come la messa in discussione della centralità della
fabbrica fordista.
Elementi che, in fin dei conti, indicano un’esigenza di
rinnovamento di un tipo di ricerche che sono state a lungo dipendenti dalle
stagioni politiche in cui si svolgevano.
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