Tra luoghi e mestieri, il giorno dopo (quasi una recensione)

Come vi avevo annunciato, ieri sono stato alla Casa della Memoria e della Storia di Roma per presentare Tra luoghi e mestieri, il libro pubblicato dalle edizioni Ca' Foscari e curato da Gilda Zazzara.
E' stata una bella occasione per discutere di lavoro, precarietà, identità, ma non è stata certo una presentazione - come dire? - ordinaria.
"Ragazzi, è stata una bella cosa. Non so esattamente cosa, ma è stata bella", ci hanno detto dal pubblico alla fine.
In effetti, assenze e presenze impreviste hanno finito per stravolgere il classico modulo della presentazione dei libri:
il moderatore introduce
parla il primo relatore
parla il secondo
"ci sono interventi dal pubblico?"
silenzio
"allora grazie a tutti".
E alla fine abbiamo fatto pure un piccolo aperitivo con il pubblico, in cui la discussione è continuata a piccoli gruppi, mischiandosi con le chiacchiere sull'attualità politica.
Naturalmente, non ho potuto usare il testo che avevo preparato. E allora lo metto qui sotto, quasi come se fosse una recensione.
Chi fosse interessato, può continuare dopo il salto.
Chi invece vuole leggersi il libro può seguire il link, perché la casa editrice lo ha pubblicato in forma digitale e gratuita.


Sono particolarmente lieto di essere qui oggi per parlare di questo libro insieme a buona parte delle sue autrici innanzitutto perché è un libro sul lavoro, ed è quanto mai opportuno tornare a parlare di lavoro oggi, in una fase storica in cui questo tema sembra essere scomparso dal discorso pubblico se non nella sua forma de-materializzata. Voglio dire che se ne parla sempre in termini di statistiche, di indicatori economici, di progetti legislativi (quando va bene), oppure di strategie imprenditoriali, trascurando – per così dire – il “lato umano”, che poi è quello che dovrebbe interessarci di più. È come se, di fronte ad un lavoro sempre più de-territorializzato e smaterializzato si fossero de-territorializzati e smaterializzati i discorsi che lo riguardano, con il paradosso che di lavoro si finisce per parlare sempre quando esso non c’è o rischia di scomparire.
Per inciso, ciò finisce, a sua volta, per condurre ad un altro paradosso: che oggi le rappresentazioni pubbliche del lavoro somigliano terribilmente a quelle del passato. Per esempio, quando è scoppiato il caso dell’Electrolux (o meglio, quando se n’è accorta la stampa nazionale) su un quotidiano ho letto un reportage molto bello sulla situazione dei lavoratori dello stabilimento di Porcìa: il giornalista era tornato davanti ai cancelli di una fabbrica e raccontava quello che aveva visto, ridava la parola alle operaie e agli operai , come da tempo non vedevo fare. Ma quello che ho letto era come l’eco di qualcosa che avevo già sentito prima: infatti mi ha fatto tornare alla mente gli articoli degli anni della “contingenza” del 1964 quando l’immagine pubblica degli operai, sulle cui spalle avevano poggiato il miracolo economico, era di nuovo quella dei “poveri”; oppure i resoconti della fine degli anni Settanta quando, di fronte alla crisi economica e ai licenziamenti, gli operai tornavano a recitare sulle pagine dei quotidiani e dei periodici la parte dei “poveri”.
Ciò che si perde in queste rappresentazioni – su cui ci sarebbe da dire ma che inevitabilmente ci porterebbe lontano dal libro – è il senso del lavoro, che viene ridotto ad un puro fattore economico. Quando invece il lavoro è molto più di questo: è rete di relazioni; è conoscenza e trasmissione della conoscenza; è, in una parola, identità, come questo volume ci mostra molto bene, pur descrivendo situazioni molto differenti tra loro, per localizzazione geografica, per tipologia di lavoro, per ambiente, per identità di genere. È come se i saggi contenuti in questo volume, insomma, riuscissero a dare “corpo” a quel lavoro che oggi si dice smaterializzato e de-territorializzato.
In secondo luogo, come rileva anche Stefano Musso nell’introduzione, il libro sembra confermarci che c’è ancora un interesse per lo studio del lavoro: anzi, questo interesse sembra essere crescente – dopo una fase in cui questo tipo di ricerche sembrava essere diventato estremamente residuale – e, soprattutto, esso coinvolge le generazioni di studiosi più giovani. In realtà, i segnali di una ripresa delle ricerche sul lavoro non sono moltissimi, anche se sono significativi: un paio d’anni fa, ad esempio, è nata la Sislav (Società Italiana di Storia del Lavoro); e, se pure qualcuno si è chiesto se fosse proprio necessaria una ulteriore associazione di categoria degli storici, tuttavia essa mostra comunque l’esistenza di reti di ricerca spesso sganciate dalle istituzioni come sindacati ecc. e, mi pare che sia l’elemento di maggiore interesse, potrebbe dare impulso alla formazione di nuove reti tra studiosi. E, sempre un paio d’anni fa, è iniziato il seminario annuale intitolato “Ascoltare il lavoro”, dalla cui edizione 2012 questo libro è nato.
Certo, se i segnali di interesse per le ricerche sul lavoro esistono, c’è anche da dire che non mi sembra (da quello che posso vedere dal mio punto di osservazione, che è abbastanza defilato) che esse siano “nutrite” e “sostenute” né da un dibattito pubblico (al quale accennavo prima) né, soprattutto, sul piano scientifico e culturale. Del resto, i ricercatori che hanno prodotto questi saggi sono tutti giovani e “precari”, argomento ben illustrato nelle sue molteplici implicazioni da Gilda Zazzara nell’introduzione: mi sembra che queste due loro caratteristiche echeggino, si riflettano, sia nelle metodologie di ricerca, sia – soprattutto – nelle “domande” che essi fanno alle loro fonti. E così, pur nella loro diversità, tutti i saggi sembrano essere accomunati da alcuni temi di fondo.

Uno, ad esempio, è proprio l’idea della “precarietà”, il confronto con un lavoro non stabile e incerto, e il modo in cui esso si riflette sulla costruzione dell’identità del lavoratore.
Il primo dei cinque saggi, in questo senso, è quasi “programmatico”: si tratta del lavoro di Eloisa Betti intitolato Precarietà e fordismo. Le lavoratrici dell’industria bolognese tra anni cinquanta e sessanta che analizza un caso specifico (sia per collocazione geografica e sociale, sia per la prospettiva di genere) per mostrare come la “precarietà” del lavoro non sia un fenomeno recente (e quindi collocato in un quadro economico e ideologico neoliberista) né intrinsecamente legato al sistema di produzione postfordista. Ma anche negli altri saggi l’attenzione al tema è marcata: la “precarietà”, ad esempio, finisce per costituire quasi una “caratteristica” del lavoro dei pescatori di Torre del Greco studiati da Maria Porzio, oppure dei molti mestieri del proletariato romano, la cui identità operaia è delineata da Stefania Ficacci in un saggio di lungo periodo, su cui tornerò.

Vorrei soffermarmi un momento su un aspetto che emerge dal lavoro di Betti e che mi sembra apra ad una riflessione di più ampio profilo: scrive l’autrice che, nonostante la precarietà sia stata una costante dell’organizzazione del lavoro sin dall’inizio dell’età industriale, perché esso è sempre stato strutturato «in funzione degli andamenti del mercato» (p. 18), ancora negli anni Cinquanta e Sessanta «l’espressione “precarietà del lavoro” (…) non era (…) stata oggetto di una vera e propria concettualizzazione e quindi era ancora scarsamente utilizzata». D’altronde, aggiunge «non vi era ancora una definita concezione di stabilità lavorativa in opposizione alla quale elaborare quella di precarietà»: solo con le conquiste del ciclo di lotte 1968-1973, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, con la crescita dell’occupazione industriale e il suo diventare la prima forma di impiego, si arrivò a definire il lavoro stabile come «patrimonio comune» che «iniziò a tutti gli effetti a connotare la condizione di lavoratori e lavoratrici industriali» (p. 21).
Da un lato, dunque, la precarietà non è argomento di discussione pubblica (salvo che in ambiti ben definiti, all’interno del sindacato o del Pci, per esempio) perché mancano “le parole per dirlo”; dall’altro però sembra che sia la stessa situazione socio-economica a farle mancare, addirittura a non rendere necessario il cercarle. Il caso delle donne, poi, è particolarmente significativo in questo senso perché, come scrive ancora l’autrice, «il lavoro femminile era (…) generalmente considerato instabile da imprenditori, politici ed economisti, a causa di un presunto atteggiamento delle donne, che si supponeva dessero la priorità ai compiti familiari rispetto al lavoro» (p. 21).
E tuttavia credo che, in aggiunta a questi argomenti, si possa sostenere anche che fossero le particolari condizioni del mercato del lavoro e non rendere necessaria la ricerca di quelle parole adatte a definire una pluriattività lavorativa che oscillava fra il lavoro agricolo e quello industriale (negli anni cinquanta e sessanta, non a caso, si usava il termine “metalmezzadri” per indicare queste particolari figure), oppure, come nel caso della città di Roma, fra molti mestieri. Non è un caso, allora, che la parola “precarietà” arrivi nel momento in cui si spezza l’equilibrio tra una forte domanda di lavoro (anche e soprattutto dequalificato) e un’altrettanto consistente offerta di braccia, che sembrano entrambe rientrare nel quadro di un progresso lineare e apparentemente inarrestabile: negli anni Settanta la sociologia introduce categorie come quella di lavoratori marginali (Betti, p. 42), e nell’opinione pubblica si diffonde l’idea di una precarietà del lavoro che diventa anche precarietà esistenziale. Insomma, ho l’impressione che la precarietà inizi a diventare un problema quando il lavoro stesso inizia a diventare un problema, perché sempre più raro: condizione che, peraltro, finiva per irrigidire le posizioni nelle grandi fabbriche e nell’aprire la strada alla piccola e media impresa che si scopriva allora caratterizzare quella che si iniziava a chiamare la “terza Italia”.
E tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che quando il termine “precarietà” si fa strada nel dibattito pubblico – e penso in particolare alla fine degli anni Settanta – esso assume anche un senso positivo: e non solo in coloro che predicavano un ideologico “rifiuto del lavoro” nel ’77 e dintorni, ma anche in chi, di fronte alla crisi della produzione industriale, abbandonava il lavoro in fabbrica per “mettersi in proprio”. A questo proposito, mi viene in mente una biografia operaia romanzata, il libro di Alberto Papuzzi intitolato Quando torni. Una vita operaia (Donzelli, 2007). Il protagonista è Vittorio Sparàti, operaio e sindacalista che all’inizio degli anni 80 abbandona la fabbrica sia perché intravede in un altro lavoro la possibilità di “fare i soldi” ma soprattutto perché, per usare le sue stesse parole, «io sto vivendo la cosiddetta decadenza produttiva della fabbrica. Non è la produttività che conta, bensì il giro commerciale. Per cui, che spazio resta al lavoro operaio? (…) Non è più il mio mondo, se mai lo è stato» perché «dopo quasi vent’anni che faccio l’operaio, che mi vesto da operaio, io non sono quello lì (…) io mi sento un estraneo» [Papuzzi, pp. 28-29 e p. 19].
Si trattava, insomma, di una questione di identità: se in quegli anni finiva l’equivalenza fra identità personale e identità professionale, che aveva fatto sì che la prima si formasse in gran parte sulla seconda, la “precarietà” lavorativa poteva addirittura finire per essere vista come una risorsa dal punto di vista identitario.

Identità, allora. Non mi sembra un caso che questo sia un altro dei temi che si costituiscono un minimo comune denominatore fra i diversi articoli: ho l’impressione infatti che l’attenzione a questo tema sia in qualche misura il riflesso della difficoltà che si sperimenta oggi nel definire sia un’identità legata al lavoro, sia l’identità del lavoro stesso.
Da questo punto di vista mi sembra che il saggio di Stefania Ficacci (Tra mestiere e quartiere. La classe operaia romana alla ricerca di un’identità) sia quello più ricco di suggestioni perché, pur analizzando il caso molto particolare di Roma (dove si cerca di limitare la presenza operaia sin dagli anni immediatamente post-unitari, e dove quindi è particolarmente complesso dire che cosa sia “lavoro operaio”), ci insegna la complessità e la multifattorialità nella definizione di identità operaia, e – più in generale – dei lavoratori. Nel caso specifico – ma su questo magari la chiamerei ad intervenire – le identità operaie, in una città che tradizionalmente si vuole senza operai, si formano in forte relazione con l’ambiente, e in particolare con i quartieri.
Se accogliamo questa chiave di lettura, tuttavia, suggestioni simili si trovano anche in altri saggi come ad esempio quello di Silvia Segalla, storia di vita di una rammendatrice vicentina (Maria. Una rammendatrice al Lanerossi di Piovene Rocchette). E – direi – che, in generale, è uno dei molti insegnamenti che ci viene dall’uso delle fonti orali nelle ricerche sul lavoro: a me vengono in mente i lavori di Portelli su Terni, ma anche quelli di Passerini e Filippa su Mirafiori che ci hanno mostrato l’esistenza, già negli anni Sessanta (ma anche prima), di identità multiple dei lavoratori di fabbrica, identità che contrastavano con la loro rappresentazione pubblica che li voleva blocco monolitico e uniforme.

Del resto, in questo libro i lavoratori di fabbrica ci sono poco e, soprattutto, non ci sono quelli che a lungo hanno rappresentato nell’immaginario collettivo gli operai per antonomasia, coloro che lavoravano nelle fabbriche ad alto tasso di meccanizzazione e con un’organizzazione di tipo fordista. Di più: quando il lavoro fordista compare nelle storie raccontate nel libro, esso introduce soprattutto elementi di criticità. In particolare ci sono due dei cinque saggi che compongono il libro in cui si racconta il passaggio da un lavoro qualificato e con forti tratti di artigianalità  ad un lavoro di tipo fordista: quello di Stefano Gallo (“Brave mestole”, “mezze mestole” e manovali), in cui si racconta la storia dell’edilizia a Livorno nel secondo dopoguerra attraverso lo sguardo di Giovanni Farneti, una “brava mestola”, ovvero un muratore dalle alte capacità professionali, che nel 1972 lascia il proprio mestiere per entrare alla Pirelli. E quello, che ho già citato, di Silva Segalla, la cui protagonista,  Maria, ad un certo punto della propria vita lavorativa passa dallo stabilimento Numero Uno della Lanerossi, più simile al laboratorio artigianale in cui era impiegata prima di entrare in fabbrica, allo stabilimento Numero Tre, dove si applicano procedimenti meccanizzati.
In entrambi i casi, benché questo cambiamento segni una svolta nella loro vita lavorativa, nel loro racconto viene liquidato in poche battute perché rappresenta un adeguamento a qualcosa che non viene sentito propriamente come un “lavoro”nel senso pieno del termine: non ha, cioè, quelle caratteristiche di applicazione di intelligenza, manualità, conoscenza che rendevano i loro lavori generatori di identità.
Così, Stefano Gallo usa le parole della moglie del suo testimone per spiegare quanto il passaggio da “brava mestola” a operaio di fabbrica sia stato un passaggio necessario (per ragioni economiche e di stabilità) ma doloroso: 
"Lei fu contenta del passaggio di suo marito alla Pirelli?". La risposta ricevuta è stata indicativa: "Sì, da una parte, però dall'altra no, perché ha voluto dire non andare avanti con la sua cosa da muratore, e si è dovuto specializzare come operaio"
E Silvia Segalla sottolinea come l’importanza del lavoro di rammendo veniva sottolineata mettendola a confronto con la semplicità dell’attività meccanizzata. Nelle parole di Maria
"Il rammendo era veramente un lavoro, perché quello quando lo hai imparato... Invece al Tre sì, impari, però è una cosa più manuale. Anche mio nipote che ha 11 anni quando ha imparato un po' come avviare la macchina... fa presto anche a caricarla, sono cose facili".
Addirittura, quando Maria viene trasferita allo stabilimento Numero 1, il suo racconto si fonda tutto su coppie oppositive in cui «la soddisfazione è sostituita dalla frustrazione; all’ilare familiarità del reparto di rammendo si oppone un astio diffuso; all’agio di star sedute lo stress di stare sempre in piedi; al silenzio rotto solo da voci e risate il frastuono delle macchine; alla soddisfazione e al piacere la stanchezza e il logoramento; alla pulizia e agli abiti “da festa” il pantano oleoso degli ingranaggi, che imbratta i vestiti e l’umore» [pp. 66-67].

Insomma, siamo quasi di fronte ad uno slittamento da un “mestiere” – costruttore di identità e connotato positivamente perché capace di arricchire sul piano individuale oltre che professionale – ad un “lavoro”, neutro dal punto di vista della connotazione identitaria ed accettato principalmente per motivazioni economiche.  Si tratta di un passaggio centrale, che occhieggia in molti dei saggi e che, cronologicamente, sembra potersi collocare fra anni Sessanta e Settanta, quasi sovrapponendosi con una cesura nella storia del paese tra una sorta di “età dell’oro” e una “età della crisi”. Se questo, come credo, è il punto di vista delle fonti che tendono a sovrapporre la loro soggettività alle vicende del proprio lavoro (per quanto le coincidenze tra le due esistano, come mostra bene il saggio di Gallo), mi chiedo se sia lecito rispecchiarvi anche una sorta di  lettura generazionale. Mi sono domandato, cioè, se non vi si possa rintracciare, per quanto sottinteso (e forse addirittura inconsapevole), anche il punto di vista di una generazione che l’opinione comune vuole senza lavoro (e, ancora di più, senza mestiere) e dall’identità liquida (per usare un termine abusato).
E se così fosse, terminando di leggere il libro, è nato in me il desiderio – direi quasi il bisogno – di leggerne uno che non è stato ancora scritto, credo, e che indaghi, con gli stessi strumenti e la stessa capacità analitica, la cultura del lavoro di questa generazione che oggi indaga le culture del lavoro del passato.


Ma, a parte i miei desideri personali, vorrei notare – e con questo concludere – che una tale attenzione a lavori “altri” è un ulteriore elemento di interesse, così come la messa in discussione della centralità della fabbrica fordista. 
Elementi che, in fin dei conti, indicano un’esigenza di rinnovamento di un tipo di ricerche che sono state a lungo dipendenti dalle stagioni politiche in cui si svolgevano. 

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