legami d'acciaio

Quest'estate mi è capitato, per ragioni di lavoro, di rileggere due libri di qualche tempo fa, La dismissione di Ermanno Rea (2002) e Acciaio di Silvia Avallone (2010).
Sono due libri diversissimi.
Per qualità e stile.
Per le storie che raccontano.
Per la complessità di lingua e struttura.
Per ambizione.
Ma sono anche due libri che hanno più di un punto di contatto.
Raccontano entrambi la fine dei mondi industriali del Novecento.
Il primo viene pubblicato negli anni in cui il secondo è ambientato.
E tutti e due hanno ispirato dei film: dalla dismissione è nato La stella che non c'è di Gianni Amelio (2006). Acciaio ha trovato una trasposizione cinematografica nell'omonimo film di Stefano Mordini,  che è stato presentato a Venezia ma non è ancora arrivato nelle sale.

Una (ri)lettura a distanza così ravvicinata mi ha fatto notare qualcosa che sento nell'aria anche in questi giorni di profonda crisi industriale mentre si parla dell'Ilva di Taranto e dell'Alcoa sarda.

Ma prima, forse, devo dirvi in due parole di che parlano questi libri.

La dismissione racconta la storia del lento smantellamento dell'Ilva di Bagnoli dal punto di vista di un operaio specializzato, Vincenzo Buonocore. Il nome è inventato ("nome di fantasia, se non vi dispiace", dice più o meno Ermanno Rea) ed è talmente carico di simboli che, quando Gianni Amelio scriverà La stella che non c'è, cambierà nome al personaggio (in realtà lo stesso personaggio del libro) chiamandolo Vincenzo Buonavolontà.
E in questi nomi-simbolo è racchiusa tutta la differenza tra il libro e il film. Il primo è legato al passato, ad una storia che si sta sgretolando: racconta in qualche modo le ragioni dell'anima di uomini smarriti dalla scomparsa del loro lavoro e del loro mondo. Il secondo racconta invece la volenterosa ricerca di un futuro, in un mondo altro e lontano - la Cina -, dove poter ricominciare a partire da un frammento di passato - un meccanismo della linea di produzione che è stata venduta ai cinesi, ma senza il quale essa funzionerebbe male e che Buonavolontà vuole consegnare ai nuovi proprietari. Quasi, si potrebbe dire, l'ottimismo della volontà, che tuttavia si sgretolerà nell'incontro con il "nuovo" mondo.

Ma sto divagando: scusate.


Acciaio, dunque, si diceva. E' la storia di due adolescenti, legate da un'amicizia che confina con l'amore, sullo sfondo di una Piombino industriale che, per usare l'espressione dell'autrice, somiglia ad un luna park abbandonato. E' una storia che lascia in bocca un sapore di ruggine e nel naso l'odore dell'acido delle batterie abbandonate sul ciglio di strade polverose, se mi perdonate il lirismo.

Nella dismissione il mondo industriale che finisce è il perno della narrazione.
In Acciaio il mondo industriale agonizzante ma ancora vivo è solo lo sfondo del racconto: quasi la giustificazione di un universo sociale e umano che appare regolato da leggi immutabili e impietose.

Coscienza del lavoro da una parte. Quasi nemmeno la coscienza di sé dall'altra.

E' come se il mondo di cui Rea raccontava la scomparsa fosse invece sopravvissuto, ma non fosse altro che un paesaggio di macerie sociali e culturali descritto da Avallone.

E cos'è sparito nel trapasso dall'uno all'altro? Forse l'elemento principale potrebbe essere l'etica del lavoro, per usare un'espressione desueta, quasi arcaica, che ormai sembra quasi priva di senso. O meglio, il senso di identità generato dal lavoro: che è consapevolezza, coscienza, passione, ossessione in qualche caso. Identità che oggi - ci assicurano - è riposta altrove, anche se io non saprei dire dove.

1 commenti:

Anonimo ha detto...

mi piace soprattutto il finale di questo post! ;)

 
Andrea Sangiovanni © Creative Commons 2010 | Plantilla Quo creada por Ciudad Blogger